MILTON – II parte
di Franco Buffoni
Fu il Tillyard, uno dei più acuti studiosi di Milton nel Novecento, ad osservare, verso la metà degli anni cinquanta, come – a differenza di quanto era sempre accaduto con altri grandi della letteratura – nei riguardi di Milton la critica si occupasse molto più di questioni inerenti la versificazione, lo stile (il Grand Style miltoniano, come scriveva Matthew Arnold), il pensiero filosofico, nonché la teogonia (cioè la geografia celeste), o la ricerca del protagonista (chi è l’eroe nel Paradiso perduto? Dio o – ben più verosimilmente – Satana?), piuttosto che di una semplice ma basilare questione: qual è il significato – vero, profondo – del Paradiso perduto? Che – in altri termini – significa chiedersi di che cosa parli veramente l’opera, aldilà della ovvia risposta “contenutistica” inevitabilmente imperniata sulla “caduta” degli angeli e la conseguente, inevitabile caduta dell’uomo.
Una delle risposte più autentiche può venire dalla riflessione sulla estrema musicalità del poema. Secondo le note categorie stilate da Ezra Pound all’inizio del secolo scorso (melopea: la poesia dove prevale l’elemento musicale; logopea: la poesia dove prevale l’elemento concettuale; fanopea: la poesia dove prevalgono l’immagine e la visione), l’opera di Milton sarebbe fondamentalmente melopeica, a scapito per l’appunto dell’immagine fulminante (oggi diremmo dell’epifania) e del logos.
La rigorosa unità dell’opera, tuttavia, in un’epoca in cui il fenomeno della digressione era senz’altro più comune che non, per esempio, nel secolo seguente (il Settecento), può farci riflettere sulla estrema importanza che la costruzione dell’opera possiede nell’ottica dello svelamento del suo significato profondo. Percorrere gli schemi di confezione testuale del Paradiso perduto può dunque risultare un utile esercizio. Molto rivelatori al riguardo possono risultare – anche a prima lettura – i cosiddetti “passaggi personali”, vale a dire i preludi, in particolare al primo, al terzo e al settimo libro.
Dopo aver invocato l’aiuto dello Spirito Santo, nel preludio al primo libro Milton dichiara esplicitamente che egli intende narrare della disobbedienza dell’uomo. Nel piano iniziale, Satana non è dunque che uno strumento della caduta. Tuttavia poi diviene il vero protagonista dell’opera, il personaggio attorno al quale ruotano gli eventi, quello in funzione del quale avvengono tutti i colpi di scena. La narrazione prende dunque la mano al poeta. Oppure, più verosimilmente, gliela prende il suo personaggio? In altri termini, il processo di identificazione dell’autore con il proprio protagonista (Satana si muove e agisce come un nobile sprezzante, porta i capelli sciolti sulle spalle, è fiero nel portamento e nella parola: è Milton) determina in modo assoluto lo sviluppo dell’opera fino a permetterne una lettura psicologistica e miltonianamente autoreferenziale: Satana vive e risolve nella teogonia di Milton i lancinanti conflitti interiori dell’adolescente nobile e privilegiato che odia le donne ma le desidera, le disprezza ma non può farne a meno, e riesce persino ad essere diabolicamente puritano pur indulgendo al tomistico e poi joyciano “bonum est in quod tendit appetitus”.
Tanto è vero che, se con la dantesca descrizione dei terrori e delle angosce dell’inferno, mai l’opera sarebbe artisticamente decollata, subito – con l’entrata in scena di Satana – mutano il registro stilistico e l’intensità del verso. E soprattutto si esce dal cliché medievale per entrare nella psicologia di un personaggio fortemente moderno, controverso, mutevole. E in trasformazione.
I primi due libri – infernali – si chiudono con qualche barbaglio di luce proveniente dal paradiso a fendere il caos. E molto pertinentemente il preludio al terzo canto consiste in una invocazione alla luce. “Hail, holy light”: santa, sacra luce. Un brano che potrebbe stare benissimo nel Paradiso dantesco. Perché dalla luce si passa alla sua fonte diretta, con la descrizione di Dio, introdotto come “Almighty Father”, padre onnipotente.
A questo punto è chiaro come Milton si sia trovato in bilico tra due concezioni radicalmente diverse, sia per quanto riguarda la confezione testuale, sia per quanto attiene lo scopo ultimo della scrittura, e quindi il suo significato profondo. Da un lato le fonti, che sono classiche, come è noto – Omero in primo piano – ma anche medievali e rinascimentali. Un nome per tutti (in genere abbastanza dimenticato) il Du Bartas, francese, ma con frequentazioni alla corte inglese sia con Elisabetta sia con Giacomo, e amico di Sidney. Il quale pubblicò nel 1578 un poema epico sulla creazione del mondo intitolato La Semaine, che fu subito tradotto in inglese da Joshua Sylvester. Dall’altro un esplosivo bisogno di narrazione con sviluppo psicologico dei personaggi (o meglio del personaggio), pulsione all’autobiografismo, tensione verso modernissimi modelli di adesione al “suono” per non perire di e col “significato”.
Non supera completamente il guado il grande poeta, ma ci mostra come sarà (e a tratti anche come è) l’altra riva. Pertanto appartengono solo alla superficie dell’opera la regolarità metrica, la versificazione apparentemente stentorea, la struttura sintattica latineggiante. In realtà, ciò che sta a cuore (forse inconsapevolmente) all’autore è raccontare del suo eroe, e quindi – molto modernamente – di sé.
Tant’è vero che, dopo la digressione paradisiaca, già nel terzo libro si ritorna a Satana e al suo fantastico viaggio attraverso l’universo per raggiungere la terra. L’impianto logistico dell’opera è tuttavia ancora in sospeso. Inferno e paradiso parrebbero i luoghi deputati a fare da palcoscenico, invece il poeta sente il bisogno di legare alla terra il suo personaggio. E lo fa da par suo – giustificando concettualmente lo spostamento (e qui la melopea cede il passo alla logopea) nella ampia digressione che precede il ritorno all’azione nel libro settimo, con l’arcangelo Raffaele e la narrazione (flash-back) della storia dell’universo prima della caduta degli angeli.
Grazie. Veramente illuminante.
leggo sempre con grande, appunto, appetitus, questi illuminanti squarci di mondo anglosassone; non c’è molto da commentare, ma solo da imparare. Anche se molte cose mi colpiscono, la cecità, la misoginia, l’identificazione con Satana. Un figlio delle tenebre, più che della luce, parrebbe.
Proprio così, Sparz: Milton “è” un figlio delle tenebre. Ti ho spedito ieri Laico Alfabeto (nel mio piccolo: per uscire dalle tenebre). Abbraccissimo f