Note sparse su Lo specchio (Zerkalo, 1972) di Andrej Tarkovskij
di Francesca Matteoni
1. Zerkalo, lo specchio, è una superficie dove la luce si inocula e ripete il mondo, lo fissa nell’attenzione dell’occhio. Nell’opera di Tarkovskij si procede lentamente, per lunghi piani-sequenza, la fotografia che vira dai colori al seppia, al bianco e nero dell’onirico, soffermandosi sull’erba, le pareti – sulle figure assenti, che si rivelano negli oggetti, mostrano la presenza non lineare del tempo. Ogni scelta di colore è una diversa malinconia.
2. Raggiungere l’altra parte dello specchio. Nella poesia del padre, Arsenij Tarkovskij, è una donna che sta al di là, l’amante, la madre – tutte e due riunite insieme in una sola figura, avversa e compagna. Non so davvero parlare di mia madre. Lei è sempre una strana primavera, la temo e ne ho bisogno. Come all’inizio del film: un ragazzo affetto da balbuzie viene guarito con l’ipnosi. Quando c’è da dire una verità sull’essere, sui legami, i pensieri si fanno sconnessi, balbettanti, il linguaggio fallace ed inutile. Forse si possono solo pescare parole, studiarne ognuna, scandirla, sovvertire la sequenza ordinaria dei discorsi.
3. Allora guardo queste immagini meravigliose, che sono la storia di un altro: la staccionata sul paesaggio aperto, la pianura, la casa di legno tra i boschi di sempreverdi, dove non ho mai abitato, ma che mi è così familiare, un simbolo di tutto ciò che è casa, intimo, esplorato nella prima infanzia. Com’è possibile che tutto questo sia “mio”? “Non abbiamo più tempo per pensare”, per vedere la stupefacente immanenza del tutto. Io so che non esiste la tua vita, ma una vita nella quale ci ripetiamo, simili e distanti.
4. Sono fiacche le parole, sono sempre il segno della mancanza. Quest’acqua che scorre dai capelli nel catino, nella pioggia, dai rubinetti, lava la mente dai suoni, perfino dalla paura di me stessa e degli altri, del loro controllo divoratore, che mi fa serva e ridicola. Cerco un silenzio e un sollievo. Certe stanze sature di esistenze in pace, concluse. Per tenere qualcosa di mio, devo lasciarmi perdere in questo paesaggio. Dentro la storia, gli altri, le intemperie.
5. Ma non posso comprendere fino in fondo la storia in cui sono coinvolta mio malgrado. Ho l’impressione, come il figlio nel film, che tutto sia già successo, che questo sia solo l’essere educati, alternativamente, a ricordare e dimenticare.
6. “Abbiamo poco tempo”, dice al ragazzo l’apparizione della donna seduta al tavolo, e lo invita a leggere un estratto di una lettera di Puskin sulla Russia. La Russia è uno spartiacque tra l’oriente e l’occidente (la veglia e il crepuscolo), il punto d’incontro tra il cristianesimo e l’eredità slava, un enigma ostile e salvifico. È la terra madre. Un’anziana appare alla porta, la nonna che non viene riconosciuta – mi chiedo cosa rappresenti. Forse è lei stessa la tradizione, il luogo di provenienza: il tempo che dobbiamo osservare, perché le parole acquistino un senso.
7. Istruttore di guerra. Il bambino dell’episodio è un antico compagno dell’autore/protagonista. Interpreta a suo modo le regole, seguendole alla lettera, con risultati grotteschi e insensati – provoca il riso degli altri, ma anche situazioni di pericolo, come quando per sbaglio innesca una granata durante le esercitazioni, che per fortuna non esplode. È orfano. Non ci è possibile sapere cosa sente davvero, cosa nasconde la sua ostinazione. La vera vita degli altri ci è preclusa e anche la nostra infanzia e adolescenza ci diventano estranee. Al ricordo autobiografico si succedono immagini di repertorio: gli adulti, la guerra, la faticosa traversata di un lago, con il fango che si attacca agli uomini, li fa parte della terra, irriconoscibili.
Nella neve bellissima, lungo la superficie gelata dell’acqua, camminano i ragazzi nei loro abiti scuri, piccoli alberi in movimento tra quelli più grandi e longevi, spogliati dal freddo. Sembra una scena uscita da un paesaggio invernale di Brueghel. L’orfano risale la china – lo lasciamo per qualche attimo e ritornano le immagini della seconda guerra, la presa di Berlino, la bomba atomica. Il ragazzo è ancora lì, ci guarda, poi si volta verso l’albero ed un passero gli si posa sul cappello. L’afferra con la mano, come si vorrebbe afferrare l’anima, capire dove si trova, cosa la tocca e la determina. Quali sono davvero gli eventi passati, in quale ferita è il tempo?
8. Il protagonista ha un sogno ricorrente. Nel sogno torna alla casa dei nonni, nella foresta di pini. Torna bambino, felice “perché tutto è davanti a me e tutto è ancora possibile”. Luce irreale del bianco e nero. “Mamma”. Una finestra che si spacca, un gallo che esce fuori, un tavolo nell’erba alta da cui il vento tira giù una lampada, un mondo che si disfa come prima di svegliarsi, senza che la porta della casa possa essere varcata. Ma quel mondo è la vita, il vero presente. Dietro la porta ci sono il cane e la madre, intenta a pulire delle patate. Il bambino ha ormai voltato le spalle, è sparito. Dice una poesia di Esenin, nel punto che amo di più:
E tu, diletto,
Fedele cane pezzato!
Stridulo e cieco t’hanno fatto gli anni,
E trascinando vai per il cortile la coda penzolante,
Col fiuto immemore di porte e stalla.
Come grata ritorna quella birichinata:
Quando il tozzo di pane rubacchiato
Alla mia mamma, mordevamo a turno
Senza ribrezzo alcuno l’un dell’altro.
Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore.
Fioriscono gli occhi in viso
Simili a fiordalisi fra la segala.
Stuoie d’oro di versi srotolando,
Vorrei parlare a voi teneramente.
L’animale diventa lo spirito, capace di riportare, intatta, l’infanzia. Sono più vicina a mia madre negli anni, per metà dentro il suo specchio, trattenuta indietro e destinata a filtrarmi altrove. Ma vedo sempre me stessa bambina al suo cospetto, davanti alle sue faccende domestiche, ai pomeriggi con le sue mani nel terriccio del giardino, alla cucina – e ora sono mia madre e mia nonna – con il pane tagliato, la marmellata, il pentolino del latte. Correre dal prato alla porta d’ingresso, inseguire i gatti, trovare mia madre – io, che non ho ancora perso niente.
9. La madre e il figlio, trasferitisi in campagna da Mosca, fanno visita ad una donna, per venderle un paio di orecchini. Il ragazzo attende in una stanza illuminata da una lampada – del latte versato gocciola su un ripiano. Voltandosi si vede riflesso in uno specchio ovale. Cosa pensa, chi osserva davvero? Segue un suo discorso interiore, perso nel tempo, o è invece l’adulto che vede attraverso i suoi occhi e annulla la separazione? Cosa c’è nello specchio – un presagio o un ricordo? Come si misura infine un passaggio? Ciò che è avvenuto ieri è meno vivido di ciò che ad esempio succedeva tanti anni fa, al tavolo della cucina con i fogli dei compiti, dietro l’armadio dove mi nascondevo. Ciò che era ieri potrebbe tornare nel futuro. Il tempo non avviene, ma è attraversato. E mentre mi consumo resta l’anima – non il mio bene immortale, ma il mio segreto indicibile, ciò che mi fa vivere dentro me stessa come un uccello nel nido, un vento in una stanza vuota.
10. Il bambino è solo nel luogo da cui non si è mai mosso. È notte nella casa. Porta una brocca di latte. La madre invecchiata è una nonna, non fa più paura, non è più così amata quanto terribile. La casa nel tepore primaverile non è diversa: il cibo lasciato sulla tavola, il cucciolo che gioca in un angolo. Tutta questa malinconia è il tempo, non più nemico. L’uomo può guardare la sua anima: qualcosa di indifeso e leggero. La luce è il tramonto, ma tutto continuamente nasce. La nonna, che è madre due volte, è una saggezza composita – di fiori tornati bianchi tra le rovine, di case perdute, avversità, amore, paesi – tutto che con lei cammina, converge verso il bambino, al centro. Ti prendo per mano.
( La traduzione della poesia di S.A. Esenin è di G.P. Samonà)
grazie…
http://lamerikano.wordpress.com/
Il mio film preferito. Bello vedere come l’hai attraversato.
Una domanda: quando la donna, alla tipografia, dice all’orecchio dell’altra la parola che aveva paura fosse finita sul giornale, tu che parola credi che sia?
Bella lettura.
Dieci note che meritano dieci baci. Forse nel ’73, come spettatore, vedevo anch’io: “la staccionata sul paesaggio aperto, la pianura, la casa di legno tra i boschi di sempreverdi, dove non ho mai abitato, ma che mi è così familiare, un simbolo…” “Simbolo”, su questo termine veramente non concorderei del tutto, ma non importa. Sei proprio sicura di non averci abitato in quei luoghi o che non ci abiti l’anima? Certamente quella è la staccionata, quella è la casa, quello è il paesaggio della vita della nostra vita, almeno della mia.
Alessandro – non mi sono mai posta il problema della parola esatta, qualcosa che ha a che fare con la censura certo, e col regime, però ho sempre pensato che fosse una parola molto banale, così tanto da non meritare nemmeno di essere detta, come a sottolineare la pervasività della paura.
Maurizio – sai che pur avendo usato la parola simbolo concordo: io penso di averci abitato, e che qualcosa di me ci abiti ancora, per questo amo quel film e quei luoghi.
Molto bello!
E’ che quello sguardo rinomina il mondo. Non chiede: come è possibile, ma solo: cos’è questo? ,e gli dà un nome.
cara francesca :)
“la vita non è irreale, è il ricordo di una irrealtà…tutto è unico e perduto per sempre”
con affetto ti bacio
la fu