Radio Londra: Play Immobil

A “Corral” protest
di

Paolo Mossetti

When hit by boredom, let yourself be crushed by it; submerge, hit bottom.
– Joseph Brodsky.

Un albero lo si conosce dai suoi frutti, e una democrazia la si conosce dalle tecniche che adopera per affrontare il dissenso. La pratica del kettle (letteralmente ‘bollitore per il tè’) è rappresentativa di tutte le inquietanti forme di controllo che la legislazione inglese suggerisce di praticare. Sperimentata già nella Germania Ovest  degli anni Ottanta, e poi rispolverata da qualche anno dalla polizia del Nord Europa,( (inclusa quella italiana, a Napoli nel 2001) è un modo subdolo e astuto per portarti all’inoffensività senza lasciare segni duraturi sulla pelle, o quasi, ma soprattutto per risucchiare il dissenso in un vero e proprio «buco nero» nel territorio urbano.

La formula è presto spiegata: anziché adottare la tattica disorganica e imprevedibile della dispersione della folla, con il kettle un intero tratto di strada – quello dove si trovano i manifestanti, di solito grande quanto un campo di calcio – è chiuso al resto del mondo. Per un tempo indefinito, chi si trova dentro non si può più uscire. Da qui anche il termine di corral, recinto. Per sederti, riposarti o riscaldarti, da quel momento in poi ti basterà solo quello che troverai dentro lo spazio sigillato.
Quando, il 24 novembre scorso, a Londra, con circa seimila tra studenti e persone d’ogni età vengo rinchiuso nell’ultimo recintamento poliziesco, è una bella mattinata, gelida ma luminosa. Nick Clegg, guida del partito Liberal Democratico e vice-primo ministro inglese, ha intanto detto che chi protesta contro i corposi tagli all’istruzione e il più sensazionale innalzamento di tasse universitarie d’Europa vive in un “Dream World”, un mondo di sogni. Il solito refrain reazionario per dire: non vi rendete conto della dura realtà, lasciate fare a noi.

A Trafalgar Square, a mezzogiorno, convergono fiumane di variopinta umanità: studenti universitari con cartelloni ironici e il volto dipinto, altri non ancora maggiorenni, in calzettoni o gonnellina, che mai prima d’ora hanno tenuto un megafono in mano; non mancano punk attempati, insegnanti progressisti, giornalisti, anarchici, semplici curiosi. Ma il fenomeno più sorprendente, politicamente e socialmente parlando, è che, mentre buona metà della marcia è composta dai college militanti – UCL, SOAS, Goldsmiths –, per la prima volta è palpabilissima anche la gioventù proveniente del Sud-Est povero, di Croydon, Peckham, dei council estates di Islington. Una militanza nera, minorenne, inaspettata.

Il tam-tam, come sempre, corre tramite Facebook. Non esiste in Inghilterra un Movimento come lo conosciamo in Italia. Nessun portavoce unico, nessun capetto, niente di riconoscibile in un’icona o in una bandiera. Questa natura eterogenea o è insieme la loro forza e il loro limite.
Non porto con me né acqua né scorte di junk food. Tolgo la batteria dal cellulare. Solo pochi tra i ragazzi lì presenti immaginano di venire catapultati, tra poche ore, in uno scenario da guerra civile. Cerco dunque di immedesimarmi nel passante che si è unito, con curiosità e determinazione, alla folla per caso.
Come previsto, le prime file del corteo si infilano nel lungo raggio di Horse Guards Parade, verso Parliament Square e la residenza del Primo Ministro. Cercano il contatto con la polizia. Lo trovano. Scoppiano piccole scaramucce. Una breve schermaglia, o un lancio di oggetti – anche un tentativo di ‘sfondamento’ simbolico può funzionare – è sufficiente per scatenare il recintamento. A nord e a sud di Downing Street, decine di agenti con scudi e camionette sono già appostati per sigillare la strada da entrambi i lati, alla prima provocazione.
Tutto si svolge molto lentamente: i due cordoni di polizia in pochi secondi diventano una barriera invalicabile; si avvicinano irresistibili, pesanti, e quanto più si avvicinano, tanto si restringe il fazzoletto di strada per i manifestanti. Tutto è lento perché la tattica non si basa sulla sorpresa, si basa sulla limitazione dello spazio. Deve essere tanto efficace da impedire la presenza di spazi vuoti, o vie di fuga. Quelli che tentano di forzare subito il blocco sono colpiti dai manganelli e respinti dentro con gli scudi.

Dopo un’ora la brutalità del kettle è già evidente ai pochi attivisti-di-professione. Ma ci sono anche tante mamme venute col passeggino, studentesse col trucco perfettamente curato e bambini con cartelli ispirati ad Harry Potter. La varietà, la bellezza, l’ingenuità, il senso di pulizia non solo ideologico ma anche esteriore di alcuni manifestanti sono affascinanti, per chi ha esperienza dei brutali riots di Terzigno e Chiaiano. Se i cosiddetti trouble-makers si preparano già alle barricate e ai tentativi di sfondamento, molti altri respirano ancora un’atmosfera giocosa ed vivace.
Ma presto, poiché non esistono spazi vuoti o vie di fuga, si ostruiranno anche i pensieri. Anche la rabbia più cruda, per esplodere, ha bisogno di un minimo di spazio. E quale risultato di questo capolavoro, alla fine, non verrà data, ad alcun pensiero che non riguardi lo stomaco la pelle o la vescica, la minima opportunità di entrare nella folla.

Passano due, poi tre ore. Un’altra caratteristica del recintamento, quella essenziale, è che questa condizione produce una noia terribile. È ovvio: qualsiasi cosa ripetuta in continuazione, anche il semplice attendere in fila per un documento, per un consulto medico, o il guardare sempre la stessa scena, fare lo stesso percorso per ore, produce noia. E la noia è la base di questo nuovo tipo di repressione; quando la noia ti avvolge, inizi a scivolare in un sonno che raffredda e raggrinzisce, che non è un vero e proprio dormire, in quanto non lo hai prodotto tu, ma ti è imposto in modo coercitivo, deliberatamente. Una sorta di ipnosi.
Il recintamento è in se stesso ripetizione: elimina nella folla, come in un gregge, la necessità di pensare, e la ripetizione diviene un sostituto dei pensieri. Anche gli assalti a tutto ciò che è dentro al recinto – portoni, panchine, cassonetti – acquistano un ritmo prevedibile e robotico. È naturale che tu cada nell’inganno: quest’attesa torturante occupa ogni energia, lasciandoti spossato. E se provi a parlare con i poliziotti intorno al recinto, senza mostrarti arrogante, essi sono abbastanza intelligenti e furbi da darti false informazioni e intrattenerti con civili chiacchiere sullo stato della Nazione.

In questo modo si crea una perversa dipendenza dallo Stato-carceriere, che deciderà quando gli anziani potranno tornare al caldo, i diabetici avere la loro insulina, i tredicenni in preda al panico tornare a casa dalle loro madri. Alcuni ragazzi colpiti da malore portati a braccio vengono fatti uscire dalla trappola. I loro portatori rispediti dentro. L’incolumità della proprietà privata, la necessità di garantire il normale svolgersi della vita lavorativa di chi si trova “all’esterno” giustificano questo sfiancamento intenzionale, immensamente efficace.
Efficace perché vento, pioggia, grandine, neve, sono nemici disordinati, che è possibile vincere equipaggiandosi bene. Si può vincere la fame con un panino nello zaino. E la vescica, dopo quattro ore passate in piedi, la si può svuotare orinando dove possibile, come i cani. Si ritrova l’adrenalina contro la violenza dei manganelli, che si scopre continuamente, commette degli errori, e spesso colpisce di fianco. Ma contro la noia non c’è niente a fare. Niente a cui attaccarsi. La noia è la tenaglia del carnefici.

Cinque ore. Si sfiorano zero gradi. Qualcuno dice: ‘Accendiamo un fuoco!’. Tutto quello che era stato lasciato intatto prima del kettle, adesso viene preso di mira: vengono sfondate le vetrate di una pensilina dell’autobus; le panchine ridotte in un ammasso di schegge. C’è chi si arrampica sugli alberi e cade cercando di strappare rami e foglie per alimentare un falò. Delle ragazzine aprono gli zaini e buttano tra le fiamme pagine dei loro diari; altri, i cartelloni della protesta. Un odore pregnante di plastica e colla si diffonde nelle strade eleganti del centro.
Chi ha subito un’esperienza simile a Copenhagen l’anno scorso, durante il Climate Summit Onu, è già fornito di provviste, acqua, sciarpe e maglioni in quantità. Tanti falò sono accesi per non morire di freddo, ma ci sono anche sound-system che sparano musica elettronica e classici del rock. Chi ha uno smartphone con dieci ore di batteria ascolta musica o manda sms agli amici e alla mamma: “Guarda quanta gente, sto bene!”. Ma una distrazione non è una liberazione, e nessuno di questi diversivi aiuta a focalizzarsi su un punto molto chiaro: si è prigionieri dello Stato, che ti squadra impassibile mentre ti appisoli in piedi, appoggiato su altri sconosciuti.

Sei ore. Visto con gli occhi della polizia, il controllo inizia con l’essere separati dalla folla, dall’essere un testimone. L’osservazione è la chiave del recintamento. Osserva la massa. Non fare nulla: nessuna ripetizione di cariche, nessun lancio di lacrimogeni. Limitati a osservare qualsiasi cosa faccia la massa. Non disturbarla, non prevenirla, non reprimerla. Lasciala sfogare se è il caso. Limitati a essere un osservatore. Questo è l’unico modo di separarti da qualsiasi cosa, per non provare alcun sentimento.
Pian piano, anche per te che sei rimasto nel kettle, la massa come l’hai conosciuta all’inizio del corteo è così distante che fai fatica a percepirne l’esistenza: è una semplice eco in una valle lontana. E alla fine, persino quell’eco scompare. Dopo sette ore quel che rimane è il singolo, perduto nelle sue ossessioni, nelle sue nevrosi, nelle sue addiction tecnologiche. Questo è il vero dissolversi della folla, senza sforzo alcuno da parte della polizia: la si lascia semplicemente morire, di morte naturale.
E se si provasse a capovolgere questo suggerimento? Osservare, da testimone partecipante, ma poi immediatamente sciogliersi nella massa. Osservando anche tu ti renderai conto che, per la prima volta, hai l’opportunità di condividere una temporanea prigionia con persone e storie che non avresti mai incrociato prima, e che forse nemmeno trent’anni fa a Londra si sarebbe ritrovato insieme: post-noglobal e adolescenti figli dell’hyper-sexualization, proletariato marginale e precariato colto. Se questa moltitudine, costretta fisicamente all’inazione e senza vie di fuga, si compattasse non con la paura, non con il freddo, ma nell’osservazione, in un religioso silenzio, potrebbe diventare qualcosa di indecifrabile agli occhi dei carcerieri, e ancora più inquietante.
Osservando quanto accade non ti addormenti, come gli altri, al contrario divieni più sveglio, più consapevole. Libero da qualsiasi intimidazione, scopri che aldilà della ripetizione e della noia c’ è un’infinita gamma di possibilità per future rivolte. Allorché la folla, nel suo senso più dozzinale e retorico, un «noi» che fa da coperta a troppe responsabilità, è ora assolutamente assente – se n’è andata del tutto, e non la riesci più a trovare da nessuna parte – per la prima volta diventi consapevole, perché la stessa energia che era assorbita dalla folla, non trovandola più, si ribalta su di te.
Dopo otto ore un sussulto tra i corpi intirizziti: si diffonde la voce che finalmente la polizia lascerà passare tutti, ma alla spicciolata, solo dopo aver identificato i responsabili delle violenze e averli arrestati, come in una sorta di filtro. C’è chi ripete a tutti una volenterosa filastrocca: «Avete il diritto di non farvi fotografare / Avete il diritto di non dichiarare i vostri dati personali». Ma nessuno ascolta, e una torma di fantasmi infreddoliti e mansueti si accalca davanti ai cordoni, aspettando solo di uscire. Tutti o quasi hanno accettato, di fatto, la condizione di livestock, bestiame, nel grande London Zoo. Eppure qualcuno, tra quanti sono appena usciti dalla prima esperienza di piazza, già pensa a come riorganizzarsi, a come sfuggire alla prossima trappola. Nel mesto e vacillante ritorno a casa, di certo c’è che la storia non finisce qui.

51 COMMENTS

  1. a simone ghelli, dal post del piano di sotto,

    sulla violenza nei movimenti, ha perfettamente ragione Saviano, bisogna subito interrogarsi e prendere posizione. Aprendo un vero dibattito senza soluzioni precostituite.

    Io ho una mia “misura” molto semplice e chiara per prendere posizione sulle forme di protesta. La forma di protesta che io giustifico, legittimo e sostengo deve essere una forma di protesta che, in prima persona, sulla mia pelle, sono disposto a mettere in atto sulla pubblica piazza.
    Siccome da un bel po’ di anni non mi sento per nulla motivato di andare in giro a sfondare vetrine o a saltare addosso a poliziotti, non sostengo questo tipo di azioni, pur riconsocendo che nascono da un motivo politico legittimo. Ma giustificare non basta, non chiude il discorso e non risolve il problema. Nel momento in cui io sono in piazza con qualcuno, voglio condividere con lui non solo i motivi della protesta, ma anche i modi. Altrimenti si rischia che vada tutto a puttane.

    In termini meno personali e in estrema sintesi, io credo che l’unica via sia quella della disubbidienza civile, che sappia misurare e legittimare, passo per passo, ogni azioni durante una protesta. Fermare il traffico, occupare uno spazio, fischiare contro un oratore, appendere striscioni, ecc. Forme di protesta che hanno una loro tradizione, e che sono costantemente rinnovabili. Queste forme di protesta possono tollerare certi gradi di violenza autodifensiva o optare per la più rigorosa non-violenza, ma non si porranno mai sul terreno della guerriglia urbana. Per un semplice motivo, che sul terreno della violenza, lo stato vince, e vince, quasi sempre, con largo consenso. E’ quindi una strada impraticabile. E dirlo in modo chiaro e subito, dall’interno del movimento, è importante. Insomma è una discussione critica – e non solo in senso giustificazionista (“è successo, vabbé… che ci vuoi fare”) – sulle forme, i modi, gli strumenti della protesta, a partire dalla violenza, penso che sia importante farla e in modo autonomo, senza lasciare appunto che sia la stampa nazionale o ancor meglio il ministero degli interni a farla.

  2. @Andrea:
    nel mio commento intendevo sottolineare il fatto che si continua, nel bene e nel male, a strumentalizzare l’immagine della violenza. Questo serve a far passare sotto silenzio la forza propulsiva, creativa del movimento.
    C’è un malessere diffuso e una situazione di isolamento degli individui (si veda la voce “precariato”, ad esempio), questo è il dato di partenza oggi, e il motivo per cui nella manifestazione c’erano tante realtà diverse, che hanno sicuramente la necessità di trovare una strategia comune, una forma nuova, alla quale si arriva per approssimazione, certamente anche commettendo degli errori strategici.

  3. Condivido Ghelli: rileviamo la fase propulsiva e creativa del movimento. E se abbiamo delle riserve sulle pratiche che sceglie, entriamoci e discutiamone. Da amici, non da nemici come ha fatto Saviano. Perché se è vero, come dice anche Andrea, che bisogna prendere posizione, non tutte le posizioni si equivalgono: Saviano si è schierato in maniera inequivocabile contro il movimento.

    Sulla violenza in generale non ha senso discutere. Tutto è stato già detto. A testimonianza, e in piena concordanza, ribadisco due concetti:

    • con Marx: nessuna classe dominante assiste inerte alla fine dei propri privilegi.

    • Con Fortini: «Oggi e subito il nemico, quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci: e che, per esempio, nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra”. La lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto contro chi opprime e asservisce altri. Nessuna peggiore ingiustizia che fare le parti eguali tra diseguali. Per questo la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata parte dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta “civilizzata” può non essere “giusta”, ma è necessaria. Ancora una volta il conflitto è un “male” per un “bene” e per un bene non garantito. Così l’uomo mosse armato di bastone contro l’alce o il bufalo sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva, nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere».

    NeGa

  4. a nevio, dispiacendomi di non poter seguire questa discussione ulteriormente:
    “Sulla violenza in generale non ha senso discutere. Tutto è stato già detto. A testimonianza, e in piena concordanza, ribadisco due concetti:”

    Non si parla di violenza in generale. Si parla di forme di protesta adesso, per questo movimento e per altri soggetti che ad esso si possono associare. Ogni nuova battaglia impone di riflettere di nuovo, senza per questo ripartire da zero, sulle proprie forme di lotta. E questo deve ancora essere fatto. Dopo Genova non è più stato fatto, e sappiamo anche perché. La gente era impegnata a leccarsi le ferite. A dimenticare l’incubo dei pestaggi della celere.

    Io non faccio parte di questo movimento, non abito neppure in Italia attualmente e mi auguro solo che questa riflessione molto concreta si faccia e si stia facendo.

  5. Credo che solo una protesta colletiva dell’Europea sia in grado di cambiare le cose. Una giornata di protesta. Per la violenza, capisco che la rivolta sia spinta dall’indifferenza dei governi sordi. C’è un fuoco dentro il petto che esplode, perché siamo in una società molto violente per i deboli.
    Nonostante lo penso come Roberto Saviano, atti di violenza sono un’occasione per i potenti di associare rivolta e delinquenza.

  6. @veronique

    se si sforza può fare di meglio nel far finta di non saper scriver bene in italiano, come invece, immagino distrattamente, ci aveva dimostrato nei post degli ultimi giorni. au revoir.

  7. no dai larry questa è paranoia :) che presta il fianco a chi spesso ti vuole sbertucciare
    chiedi scusa a veronique che per me è ragazza cult qui in ni :)
    baci
    la fu

  8. @ Andrea,
    reagivo alla domanda di Forlani (e di Bortolotti) sull’altro post, quella sulla necessità di una riflessione su conflitto e violenza …

    Le forme di lotta non possono essere prese separatamente dai contenuti e dalle proposte che il movimento porta avanti. Martedì, a Roma, visto quello che accadeva in Parlamento, non c’era mediazione possibile. In altre occasioni, il movimento ha saputo “regolarsi” intelligentemente, non eccedendo mai. Blocchi dei binari, assemblee, occupazioni e quant’altro fatto in questi mesi, potrebbero rientrare tranquillamente in quella disobbedienza civile che nomini. Quanto accaduto a Roma, e soprattutto la reazione di massa, ha colto di sorpresa tutti. Io valuto ciò favorevolmente. Molto favorevolmente. E noto che c’è un malessere diffuso, che va ben oltre la sola lotta contro la riforma. Questo movimento ci deve riguardare. Tutti. Anch’io ne sono esterno, anche se ho partecipato, da genitore, a diverse iniziative. Non ha senso che mi metta a criticare le scelte di piazza. Ha senso, invece, a partire ognuno dalla propria condizione, provare a creare momenti d’incontro, scambi accrescitivi, relazioni arricchenti: con il movimento e tra quanti sono interessati a modificare le cose. Questo movimento ha il pregio di uscire dall’opposizione di comodo: pone le questioni e le gestisce. Si crede che sia poco, che sia limitato politicamente, che riproponga pratiche erronee? Bene. Lo si dica, ma evitando la pedana contigua al potere: da amici, appunto; o, più propriamente, da compagni tra compagni. A cominciare dall’esprimere solidarietà agli arrestati. Tutto il contrario di ciò che ha fatto Saviano …

    NeGa

  9. @andrea:

    riprendendo il tuo discorso sulle “giustificazioni” e quello di nevio sulla “concretezza della violenza”, mi sento di dire che sono d’accordo con te sul fatto che non è proprio il caso di trovare giustificazioni per gli scontri di ieri, nel senso che, evidentemente, i ragazzi che li hanno portati avanti si ritenevano pienamente giustificati.

    e in questo senso anche il tuo argomento sulla “condivisione”, che appunto condivido, non credendo nel prenderle né soprattutto nel darle, suona valido solo a priori o a posteriori. nel mezzo della cosa, nel cuore dell’avvenimento concreto in cui decine se non centinaia di persone (stando alle fotografie e ai video) hanno iniziato con i tafferugli, con i danneggiamenti, non avresti potuto minimamente usarlo. perché si stava proponendo una ragionamento di fatto e di fatti, in risposta ad un altro ragionamento di fatto e di fatti portato avanti dal governo in carica e non solo. un ragionamento di fatti che sono il 25% circa di disoccupazione giovanile, i tagli pesantissimi alla scuola pubblica, gli anni di compressione salariale, la devastazione provocata dalla speculazione finanziaria, la quasi nulla prospettiva di una pensione, di servizi adeguati, di progresso del paese come comunità, e tutte le altre cose che più o meno conosciamo.

    sia chiaro: non sto dicendo che i dimostranti che hanno partecipato agli scontri sono le avanguardie di una rivolta basata su questi fatti (e, per dire, le pur attraenti citazioni di nevio da marx e fortini mi sembra che rendano il ragionamento troppo facile). non lo dico perché non credo alle “avanguardie in lotta”. sto dicendo che gli scontri di roma, come quelli di atene e quelli di londra (by the way: mi sembra che alla fine il kettle non abbia funzionato tantissimo ;-), sono parte di un evento molto complesso che si sviluppa attorno a quei fatti e come tale va trattato.

    e qui arrivo alla lettera di saviano che, davvero, di tutte le risposte che si potevano dare agli episodi di roma è forse, da parte di un intellettuale, una tra le più dannose, proprio perché nega la complessità, rimuove i fatti e si limita a decidere quali sono le parti in una specie di drammaturgia. e il tutto, purtroppo, fatto non tanto con retorica, perché in questi momenti il problema non è la retorica, che anzi è fatta apposta per generare il luogo comune e quindi comunitario, ma con delle approssimazioni troppo sbrigative e con schemi che non bastano davvero a spiegare le vicende di martedì, delle settimane scorse e, immagino, di quelle che verrano.

    anche qui faccio una precisazione: non sono solo le frasi di saviano che mi hanno irritato e preoccupato ma anche, per dire, vedere circolare queste citazioni da bifo berardi o da toni negri che parlano di rivolta o di lotta armata come se fossero argomento d’opinione, come se davvero fossero delle opzioni e non delle tragedie in cui le persone si trovano coinvolte e da cui tutti, a parte qualche povero stronzo, sperano in tutti i modi di uscire, per arrivare finalmente a una vita in comune più decente.

    ecco, anch’io ho fatto il mio pippone. lascio la parola all’onorevole ossicini (della sinistra indipendente).

    ps: un altro punto che dovremmo considerare: questa è la generazione che è cresciuta davvero a pane e televisione. ho l’impressione che anche le nostre analisi dovrebbero essere ricalibrate da questo punto di vista.

  10. Mi permetto di fare un passo indietro.
    I media parlano in questi giorni di ‘escalation di violenza’: a Roma il Pantheon affumicato, Montecitorio assediato. A Londra la macchina di Carlo e Camilla presa a calci. Ad Atene un ministro pestato a sangue.

    Le immagini sintetizzano, fanno spettacolo e provocano erezioni o sconcerto, a seconda dei casi.

    Ma di quale violenza stiamo parlando?
    Badate, cerco di evirare il mio discorso da qualunque eccitazione settantasettina: magari, dicevo, ci fosse davvero una ‘escalation’. Di vero c’e’ che la violenza dei manifestanti, per quanto raccapricciante secondo alcuni, o liberatoria secondo altri, non e’ niente a confronto della violenza espressa (ed esprimibile) dai governi in questi anni, o in qualunque momento.

    E non parlo, come potrebbe fare una lettrice 29enne precaria de ‘Il Manifesto’ (mi scuso per la generalizzazione antipatica) di ‘violenze astratte’, ‘culturali’, ‘civili’ (che pure sono causa di tanto discusto: vedi il caso Englaro, le battute razziste del premier, i rapporti con la Chiesa, etc..).
    Parlo di quella violenza vera e propria scatenata, in via indiretta, corrompendo giudici, stringendo patti con le mafie, producendo dossier falsi, agendo fuori dai confini della legge (vedi il caso Abu Omar), con la complicita’ di servizi segreti, giornali ‘di famiglia’, imprenditori e camorristi amici.

    L’elenco sarebbe infinito e non riguarda solo l’Italia. A Londra tutto funziona sotto il mantello protettivo della legge. Ma il fatto stesso che Scotland Yard, come risposta ad una fallimentare gestione dell’ordine pubblico, possa reagire rinchiudendo seimila persone per 9 ore a -2C e’

    Insomma, quando parliamo di opposti estremismi, sembra quasi che sia una corsa al riarmo, giocata partendo dalla stessa linea di partenza.

    Cadendo in questa trappola, si possono commettere due errori: il primo, quello dei cosiddetti ‘pompieri’, e’ sopravvalutare la debolezza dei governi, e descriverli come un povero manipolo di cialtroni assediati da una minoranza di violenti. Il secondo, quello degli ‘apocalittici’, e’ sopravvalutare la rabbia popolare, descrivendola come una fiumana in piena pronta a farsi giustizia da sola, con la solita formula insopportabile del ‘fate casino, appiccate incendi, armatevi, etc..’. La formula del VOI (io, che scrivo, intanto sorseggio un caffe’).

    Se invece si capisse una volta per tutte che qualunque tentativo di scatenare la guerriglia per le strade di tutta Europa, senza alcuna strategia e senza alcuna visione realistica delle cose, si trasformerebbe soltanto in una gigantesca rappresaglia (e Saviano ha gioco facile a ricordarci questo, ma dimentica che dietro i ‘buoni’ bookbloc c’erano ragazzi con casco e volto coperto), si passerebbe alla domanda piu’ importante: dunque, che fare?

    In questi stessi giorni abbiamo davanti gli occhi un altro esempio: la guerra tra liberatori e carcerieri di Assange. Un esempio che, per quanto cucito addosso ad un singolo individuo e per questo apparentemente in contrasto con le dinamiche collettive che tanto ci fanno godere, non puo’ farci ignorare il suo potenziale rivoluzionario. Il sabotaggio. Gli hacker che ‘vendicano’ Assange sono diventati un vero soggetto politico. E la loro, una guerra invisibile condotta senza nomi e senza teatralita’. Ma con efficacia.

    Abbiamo dimenticato che Berlusconi, cari miei, si puo’ ancora boicottare. Abbiamo parlato di non violenza attiva, ma cosa c’e’ di piu’ attivo a lasciare bucce di banana laddove passano i corruttori? Questo potere non e’ lo Stato Imperialista, ma una commistione tra interessi pubblici e privati che si basa ancora sulle merci e sull’inviolabilita’ della middle class.

    Visto che non ci stanno simpatici i profeti apocalittici ne’ i pompieri, che cadono entrambi nel tranello di cui sopra, allora che ognuno impari a fare quello per cui potrebbe fare professione di coerenza. Nessuno si deve sentire obbligato a organizzare la rivolta in piazza, se il suo fisico invoca piu’ il calduccio di casa e lo schermo del pc: ma che almeno trovi i mezzi per sabotare il potere seduto da casa, anziche’ invocare il martirio altrui.

  11. Larry e La funambula:

    Scrivo commento solo per esprimere un’opinione. Non pretendo scrivere un italiano perfetto, sono troppo affezionata alla mia lingua materna.
    Non ho nessuno talento per la scrittura. Sono lettrice, questa passione
    mi occupa, come difendere i libri amati. Immaginavo che scrivere in un altra lingua fosse una grande libertà per me di scappare all’idea di scrivere con arte.

  12. ops: dove scrivo ‘Ma il fatto stesso che Scotland Yard, come risposta ad una fallimentare gestione dell’ordine pubblico, possa reagire rinchiudendo seimila persone per 9 ore a -2C e’…’ ho cancellato il continuo: ‘..prova piu’ lampante di questa sproporzione di forze in campo’.

  13. segnalo questo articolo di belpoliti: http://bit.ly/fJwozo

    si intitola “La rivoluzione è finita Inizia l’età della rivolta”

    l’analisi è molto interessante anche se con alcuni passaggi inadeguati. una citazione:

    “La rivolta accade, alla stregua di un evento artistico, di una manifestazione momentanea, di una performance.”

    questa conclusione è coerente con il ragionamento che porta avanti ma mi sembra perda la specificità delle ultime vicende.

  14. riporto (da Infoaut) il commento di Evangelisti alla lettera di Saviano

    Roberto Saviano ha scritto, nella sua unica opera narrativa, verità innegabili sulla camorra e sull’intreccio tra affari e malavita. Gliene siamo tutti grati. Ha però interpretato la gratitudine collettiva come un’autorizzazione a predicare sempre e comunque, anche su temi di cui sa poco o niente.
    Ecco che, su “Repubblica” del 16 dicembre, rivolge una “Lettera ai giovani” firmata da lui e, curiosamente, dall’agenzia che tutela i suoi diritti letterari. E’ un’invettiva, a tratti carica di odio, contro i “cinquanta o cento imbecilli” che martedì scorso si sono scontrati a Roma con le forze dell’ordine che bloccavano il centro cittadino.

    La lettera appare il giorno stesso in cui un gruppo di manifestanti è processato per direttissima. Preferisco pensare che sia un caso, anche se tanta tempestività potrebbe sembrare sospetta. Non dimentico che, solo pochi giorni dopo l’attacco a Gaza e il suo migliaio di morti, Saviano era in Israele a tessere l’elogio di quel paese intento a difendersi dai “terroristi”, analoghi ai camorristi che minacciano lui.
    Ma lasciamo correre, e lasciamo correre anche la connessione tra nazionalismo basco e traffico di droga, che lo stesso governo spagnolo dovette smentire.

    Veniamo agli scontri di Roma. E’ proprio sicuro, Saviano, che i dimostrati fossero cinquanta o cento? Per di più vigliacchi, piagnucolosi, descrivibili come “autonomi” o “black bloc” intenti a imporre la loro violenza – che a suo dire li diverte – alla folla passiva e terrorizzata del corteo? Oltre a parlare in tv, dovrebbe ogni tanto guardarne le immagini. In questo caso avrebbe notato una folla ben più numerosa, e una manifestazione tutt’altro che pronta a sbandarsi in preda alla paura. Così come avrebbe rilevato, nei giorni precedenti, episodi del tutto analoghi a Parigi, ad Atene, a Londra e un po’ in tutta Europa. “Autonomi” e “black bloc” anche laggiù?
    Ciò porterà, dice Saviano, a una limitazione degli spazi di libertà. Non considera che la libertà era già stata circoscritta, con cordoni tesi a proteggere i palazzi del potere da chi quel potere contesta. I dimostranti avevano annunciato che non si sarebbero lasciati imporre alcuna “zona rossa”. Così è stato, nel preciso momento in cui si veniva a sapere che un governo discreditato aveva ottenuto la fiducia per pochi voti, grazie a espedienti inconfessabili. Una presa in giro per giovani che non scorgono alcun futuro, e vivono sulla loro pelle le conseguenze umilianti di pseudo-riforme modellate sulle esigenze dei privilegiati.

    La reazione è stata di rabbia. Come poteva non esserlo? Solo chi vive fuori dal mondo potrebbe attribuirla all’azione di “cinquanta o cento” imbecilli innamorati della violenza.
    Saviano, è noto, deve muoversi sotto scorta. Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo. Al punto da denigrare chi già subisce umiliazioni quotidiane, e di dire a chi detiene il potere ciò che ama sentir dire. Con tanto di menzione dell’agenzia letteraria, a tutela del copyright.

    Valerio Evangelisti per Infoaut

  15. La “bellezza” (sarà per caso un mero accidente di natura e finalità estetica? una deformazione professionale che fa dell’indistinto e del generico la ragion d’essere del – suo – pensiero?) dell’intellettuale (o se-dicente tale) italiano, in particolare di quello di sinistra (o se-dicente tale) è proprio quella di tenersi ben lontano, sempre, dai luoghi del “contagio” (leggi: piazza, movimenti, conflitti in atto, manifestazioni) e di essere, in virtù e ragione di ciò, sempre pronto e disponibile, a “mente fredda”, a leggere il “fenomeno epidemico” e a proporre i “pharmaka” e i “remedia” più opportuni ed efficaci per circoscrivere la “proliferazione del morbo”. Per quel che riguarda l’intellettuale (se-dicente) di sinistra, l’accidente/deformazione si è trasformato, almeno a partire da Genova 2001, da stigma orientativo del singolo, o del gruppo di riferimento, in un vero e proprio connotato sostanziale della “specie” (le pochissime eccezioni non fanno che confermare la “regola”: e la regola è una sterile, irredimibile e incurabile metastasi di buonismo catartico, variamente camuffato). Col risultato? Col risultato che la lente deformante neoplastica diventa l’unico sguardo possibile sul “reale”, l’unica opzione di lettura e decodificazione della complessità politico-sociale: il riduzionismo – sub specie (introiettata) fascioleghista – a seconda del paradigma più abitabile e praticabile al momento. Se lo fai notare (cfr. le “esternazioni” acritiche e qualunquiste, a trecentosessanta gradi, assolutamente deprivate di strumentazione, profondità di analisi e spessore critico del Saviano dell’ultimo anno almeno), le reazioni sono sostanzialmente queste: 1) ostracismo del reietto; 2) richiamo all’ordine (id est: il “passato” del soggetto in questione: un po’ come avviene quando si entra in rotta in collisione con i “collaborazionisti” della stampaglia di regime); 3) mozione degli affetti: tre soluzioni che sono altrettanti modi per non mettersi in gioco, per eludere il senso dolente, le contraddizioni di fondo, la dialetticità materiale e morale del panorama in cui siamo immersi. Ad ulteriore esemplificazione: coloro i quali, ad esempio, continuano a parlare di “riflusso” a proposito del movimento di Genova (quindi a spacciare un giudizio di valore spendibile immediatamente in chiave politica), sono gli stessi che con le loro prese di distanza e col loro silenzio (il silenzio è la più feroce delle prese di distanza) hanno contribuito alla derubricazione nella categoria dell’eccezionalità di un evento che era, è, e rimane, la summa di tante laceranti devastazioni istituzionali, di tanti soprusi, rimozioni, espropriazioni di diritti e di spazi di libertà che quotidianamente vengono perpetrati, fino ad essere diventati, per certi occhi miopi se non proprio ciechi, un dato naturale ineliminabile del paesaggio: mentre sono, piaccia o meno, la spia più evidente e marcata di un conflitto sociale in atto (in cui il “capitale-globale” trova insperati alleati proprio dove dovrebbero esserci e posizionarsi i suoi più fieri oppositori). Più che “leccarsi le ferite”, molti sono in strada, e non da ieri a Roma: chi sa se l’hanno capito quelli che, domani, verranno a spiegarci, al riparo degli schermi dei computer, come si fa una manifestazione, con chi farla e, dulcis in fundo, perché farla.

  16. se riesco a ritaglirami dei minuti, provo a inserirmi di nuovo nel discorso:

    noi che stiamo qui a parlare, almeno molti di noi, sono in una situazioni di esteriorità ai fatti di Roma, ma credo condividano i motivi delle proteste non solo di ieri, e non solo degli studenti italiani. quindi questa è anche un’occasione di riflessione politica sulle attuali forme di dissenso e protesta in europa, nate sotto governi tanto di sinistra – grecia e spagna – che di destra – francia gran bretagna italia -.

    posto che l’astratto giudizio di saviano sulla vicenda di ieri, falsa tutto il suo discorso sulla violenza; una valutazione prospettica sulle forme di contestazione va fatta;

    qui l’articolo di Belpoliti, segnalato da gherardo, offre qualche materiale ulteriore di riflessione; Belpoliti sembra ignorare tutto quanto sia successo da dopo il 1977 fino al 2004, ma in mezzo ci sono stante tante cose importanti: movimenti studenteschi, movimenti antimilitaristi – chi ricorda Comiso? – e poi tutto quanto ha preso vita da Seattle fino a Genova.
    Bene. Facciamo finta. Quanto dice sulla rivolta, è grosso modo vero. Il che però non ci fa avanzare di molto. L’estasi della rivolta non è di per sé un programma politico.
    Allora la vera domanda è: può porsi un movimento di rivolta un obiettivo politico, che non sia la rivoluzione e la guerra civile, ma che non sia neppure una reazione violenta, che si esaurisce poi in sé stessa?

    Oppure gli obiettivi politici non interessano a nessuno? Modificare il quadro delle leggi esistenti non interessa a nessuno? Io credo di no. Eppure bisogna prendere atto che una riflessione sulle rivolte di questi anni comincia ad esistere e non da parte della sinistra istituzionale e parlamentare.

    Non è possibile che le odierne democrazie esercitino in tutta tranquillità una violenza materiale e simbolica sulle fasce sociali più deboli senza pensare di pagarne mai delle conseguenze. Il problema quindi non è quello, sollevato da Saviano, : “la violenza discredita il movimento”, ma semmai che tipo di azione illegale, di disubbidienza civile, anche violenta, può costituire uno strumento per una lotta politica di lunga durata e capace di costruire intorno a sé il consenso.

    Limitarsi a dire, la rabbia dei manifestanti era legittima, non è abbastanza. Anche se è importante farlo.

    Faccio una semplice osservazione, essendo ben consapevole che a Roma io non c’ero in piazza e che non so come avrei agito essendoci. A Roma una parte del corteo si è mossa verso il Parlamento, il luogo del potere politico, che in genere è ben difeso dalle forze di polizia. Immaginiamo, invece, che saputa la notizia schifosa della vittoria di Berlusconi i manifestanti si precipitassero a bloccare il traffico in qualche arteria della capitale, come hanno già fatto. Avrebbero, io credo, riscosso la solidarietà di molti di quei romani altrettanto incazzati, anche se padri di famiglia, e magari in giacca e cravatta per il lavoro, che avevano come loro appreso la notizia. Non pretendo certo di dare lezioni di lotta al movimento, ma è giusto un’ipotesi per chiarire meglio cosa intendo dire, parlando di disubbidienza civile.

  17. How a police kettle works

    “We were completely surrounded – we couldn’t get out and after a while the police stopped other people getting in,” Ms Trench said.

    Long planned by the police in the run-up to this year’s G20, kettling is now the Met’s tactic-of-choice when it comes to dealing with crowds of people where violence is a possibility.

    As former senior policeman Andy Hayman predicted in a Times blog written the day before the summit:

    “The tactics are “to herd the crowd into a pen, known as ‘the kettle’… the police will not want groups splintering away from the main crowd.”

  18. Revealingly, the derivation of the very word differs depending on which side of the police line one stands.

    Security expert Mal Geer of Prime Media, a firm instructing journalists how to cope in riot situations, says kettling is so called because “it takes the steam out of a potentially violent situation”.

    But a G20 protester had a different interpretation: “Kettling means keeping people inside an area until they are boiling with rage.”

  19. Andrea, dici una cosa vera quando presupponi la disponibilità ad agire per sostenere delle pratiche. Troppo facile fare l’Armiamoci e partite, i rivoluzionari da tastiera. Ma il discorso funziona anche a rovescio: proprio perché non sei lì, al loro posto, non vedi le cose “da quella prospettiva”, non puoi giudicare. C’è solo da comprendere (nec lugere ecc, ricordi?). Comprendere la rabbia che monta, segno innocente. Come i fiumi che esondano per la cementificazione, consentimi la metafora: in tal caso non si dice che la Terra sbaglia. C’è solo da capire dove abbiamo sbagliato noi.
    Vedi, io negli ultimi mesi ho difeso Saviano in quanto scrittore e in quanto persona da attacchi strumentali, che cadevano nell’abbaglio spettacolare della sua icona. Uno degli elementi di difesa, semplice semplice, (ma poi lui non aveva certo bisogno della mia difesa) è sempre stato anche questo: facile condannare senza porsi da quella prospettiva, senza provare a immaginarsi che significa stare in quell’isolamento. Ecco, in questo caso fa esattamente lo stesso errore (dimostrando che ormai anche lui è caduto, per il solito gioco di specchi riflessi, nell’abbaglio della propria icona – e lui, come Narciso nell’acqua, ci si è tuffato.): condanna da lontano, col gesto benedicente/maledicente, segno di separazione e divisione (diabolico, dunque…), senza letteralmente aver presente la situazione. E non a caso gli studenti nelle università, nelle molte assemblee, hanno rifiutato da subito la sua divisione buoni/cattivi, e sono molti che continuano a contestarne questa divisione (basta vedere i moltissimi commenti di dissenso in calce alla lettera riportata su Repubblica: ti stimo ma adesso ti sbagli). Del resto pure lui parla di black block (eppure dato il suo passato di quasi-militante anarchico, dovrebbe sapere meglio di che sta parlando, invece si è dimenticato…)
    Dovremmo tutti quanti noi essere un po’ più umili, e ascoltare questo movimento che si forma, provando ad affrontare il no future che gli si agita davanti.

  20. a marco,

    “Troppo facile fare l’Armiamoci e partite, i rivoluzionari da tastiera. Ma il discorso funziona anche a rovescio: proprio perché non sei lì, al loro posto, non vedi le cose “da quella prospettiva”, non puoi giudicare.”

    Perfettamente d’accordo Marco. Infatti non si può giudicare neppure l’uso politico della violenza fatto ieri, da chi non c’era. Per altro, la vicendda della fiducia di ieri dovrebbe entrare nei manuali come esempio di sfregio della democrazia, come evento esemplare della crisi della democrazia rappresentativa di cui i politologi ci parlano da anni. La mia prima reazione vedendo le immagini di Roma con i roghi è stato: “Meno male”, ossia meno male che questo sfregio non si è fatto in mezzo alla narcosi della nazione.

    Detto questo e trovandoci d’accordo su Saviano, proviamo a fare un ragionamento. Sull’ultimo Le monde diplomatique c’è un pezzo assai interessante che s’intitola: “Due anni dopo le manifestazioni di dicembre. In la rivolta incompiuta della gioventù”. Ti ricordi la Grecia, l’assassinio di un giovanissimo ragazzo e tutto il furore che scatenò per un’intero mese. Tutta quella rabbia è esplosa, ma sul piano politico non ha sedimentato quasi nulla. E di certo riesploderà. Ma si rischia il ciclo ben conosciuto delle periferie parigine.

    Qui se si vuole fare un passo aventi, bisogna almeno ritornare alla situazione pre-genova 2001, con un movimento composito, in grado di raccogliere realtà molto diverse tra loro, e accomunato dall’idea di portare avanti azioni di disubbidienza civile a diversi gradi di rischio. Errori se ne fecero anche allora, ma il laboratorio che è uscito da quegli anni, e che ha prodotto il tutt’ora vivo Forum Sociale Mondiale rimane ad oggi decisivo, per un pensiero critico. Oggi ci sono le condizioni in Europa per costituire un movimento simile, e questo vorrà dire anche interrogarsi a fondo sulle forme concrete di lotta.

  21. Un’ultma cosa. Le immagini di guerriglia urbana sopratutto per chi le guarda al riparo dai manganelli e dai rischi di arresto, evocano il sogno “rivoluzionario” della guerra civile. Ma l’ideologia della guera civile è ormai passata a destra ed è ben radicata nei ministeri degli interni della varie nazioni europee, Francia in testa. I nemici dello stato/della nazione sono di volta in volta gli immigrati, gli operai che fanno sciopero, i giovani disccupati delle periferie, gli studenti violenti, ecc. Su questo terreno loro sono più forti, perché si tirano dietro una bella fetta di elettorato popolare.

    E’ un tutt’altro tipo di guerra che noi si potrà scatenare contro le politiche di austerità e contro l’impostura della rappresentanza politica. Questo, ovviamente, non significa per nulla essere meno radicali nelle rivendicazioni e nelle proposte. Ma sul terreno della pura violenza, lo stato vincerà sempre in termini strategici.

  22. Quello che ha scritto Roberto (al quale va comunque la mia stima nel volerci mettere, comunque, la faccia) mi rammarica perché disperde ancora una volta il suo enorme potere mediatico.
    Saviano da 4 anni ha in mano la ‘spada onnipotente’ di cui parlava Tommaso Landolfi in uno dei suoi racconti barocchi, e l’ha usata per affettarci il salame, consegnarlo ai melensi opinionisti di Repubblica e perdere così le distanza da tutto il movimento.
    Forse ha tentato anche in questo di ricalcare Pasolini, ma ne ha preso solo lo smarrimento di fronte a fenomeni che non sapeva analizzare: in quel caso era autentico. In questo, mi sa un po’ troppo di narcisismo.

  23. oggi molto probabilmente non riuscirò a seguire la discussione. mi limito a buttare lì una domanda: siamo sicuri che a partire da questa manifestazione (o anche altre) possiamo interrogarci sul “che fare”? oppure dovremmo limitarci al “che cosa”? (non cancellando ovviamente la domanda su cosa fare ma slegandola dalle azioni strettamente di piazza).
    va bene scappo (cmq mi sembra che il confronto auspicato stia riuscendo!)

  24. Perché non leggere la lettera di Roberto Saviano che ho letto. Mi sembra scatenare una critica severa su il suo impegno. Perché non leggere questa lettera come un appello verso la giovinezza per una rivolta che oppone
    l’intelligenza e la cultura al potere del denaro, della corruzione. Roberto Saviano ama lo slancio della giovinezza e crede nel suo potere di cambiare le cose, è il sogno di una rivolta su la riflessione, una scomessa sulla saggezza. Gli scrittori, i professori hanno sempre speranza nell’intelligenza, e provano riluttanza per la violenza. Una settimana fa ( credo) ho letto su La Repubblica una manifestazione bellissima con cartelli con cognomi dei scrittori che la giovinezza ritiene importanti. Siamo sul bordo di una rivolta
    in Europea e dobbiamo riflettere a come cambiare questo sistema avvelenato. Non crede a una rivolta di fuoco e sporadica, ma una rivolta
    intelettuale, molto forte. Uno sportivo ha invitato a prendere il denaro ( il nostro) nelle banche, forse è un’idea da seguire.
    Sogno di una giorno di sciopero generale in Europea con testi letti sulla piazza pubblica, una folla crescente con libri nelle mani.
    L’ultima manifestazione che ho fatta era quella contro la xenofobia, abbiamo un fiore nelle mani. Sogno un mazzo immenso di fiori rossi per dire
    la nostra rivolta.

  25. Ho male iniziato il mio commento, cose che accadono se qualcuno mi parla, quando sto scrivendo.
    Volevo scrivere che ho letto la lettera di Roberto Saviano senza provare indignazione, ma sentimento di ponderatezza.

  26. Mi scuso presso i commentatori e Paolo Mossetti per il commento goffo che ho fatto. Non ho ben detto la mia idea, lo so.

  27. quoto in particolare e ringrazio

    …coloro i quali, ad esempio, continuano a parlare di “riflusso” a proposito del movimento di Genova (quindi a spacciare un giudizio di valore spendibile immediatamente in chiave politica), sono gli stessi che con le loro prese di distanza e col loro silenzio (il silenzio è la più feroce delle prese di distanza) hanno contribuito alla derubricazione nella categoria dell’eccezionalità di un evento che era, è, e rimane, la summa di tante laceranti devastazioni istituzionali, di tanti soprusi, rimozioni, espropriazioni di diritti e di spazi di libertà che quotidianamente vengono perpetrati, fino ad essere diventati, per certi occhi miopi se non proprio ciechi, un dato naturale ineliminabile del paesaggio: mentre sono, piaccia o meno, la spia più evidente e marcata di un conflitto sociale in atto (in cui il “capitale-globale” trova insperati alleati proprio dove dovrebbero esserci e posizionarsi i suoi più fieri oppositori). Più che “leccarsi le ferite”, molti sono in strada, e non da ieri a Roma: chi sa se l’hanno capito quelli che, domani, verranno a spiegarci, al riparo degli schermi dei computer, come si fa una manifestazione, con chi farla e, dulcis in fundo, perché farla.

  28. Cara Veronique non ti scusare assolutamente, e non farlo mai con me, che scrivo in un italiano pessimo, senza neanche le scusanti della fretta o dei rumori in casa (ahimè, vivo solo).
    Detto ciò, apprezzo il tuo entusiasmo, ma noto anche che ci sono tante, troppe lettrici che si lasciano sedurre dalle belle parole e dalle belle facce pulite: scelgono di volta in volta un idolo, e non lo mollano più.
    che vuol dire: ‘una rivolta che oppone
    l’intelligenza e la cultura al potere del denaro, della corruzione’? Io che non sono mai stato comunista, ne’ ho mai avuto in simpatia i black bloc, devo dire che l’intelligenza e la cultura in questo Paese finiscono, metaforicamente e fisicamente, da troppo tempo ammanettati e manganellati, da un potere che senza nemmeno una parvenza di pudore, se la ride delle sue gaglioffate.
    Hai notato che il consenso per quelle violenze era pressocchè totale? Il potere non solo berlusconiano ha fatto sempre di tutto per delegittimare anche l’opposizione più colta e civile; e ‘Repubblica’ ha zittito tutte le voci di simpatia per i noglobal, anche le più colte. Dunque, se non altro, si può dire che chi era sceso in piazza si era proprio rotto i coglioni di certi predicozzi. E non aveva nulla da perdere. Il consenso gia’ gliel’avevano precluso, a prescindere direbbe Totò.

    p.s.: io in piazza a Londra ero con tanti acculturati e intelligentissimi, inclusi ragazzini delle medie. nessuno aveva fatto nulla, finche’ non ci hanno rinchiuso 9 ore. anche lì vale la regola del poliziotto-padre-di-famigla? Anche lì la cultura paga sempre?
    Ammettiamo per una volta che c’è qualcosa che non torna: che o bisogna sottostare a questo tipo di potere oppure bisogna trovare altri strumenti di lotta che non siano solo i sampietrini ma nemmeno le lettere agli studenti.

  29. @gherardo. hai perfettamente ragione: il ‘che cosa’ dovrebbe venire sempre prima del ‘come’. tralascio considerazioni sonnacchiose sull’urgenza del ‘come’ che invece precede, quasi sempre, il ‘che cosa’. (‘non chiedermi perché ho un erezione, chiedimi piuttosto a cosa ti sta portando’, diceva un saggio). piuttosto, sarebbe interessante notare che nessuno,allo stato attuale, ha più una confidenza con se’ stesso tale da proporre una qualunque piattaforma ideologica, come se fosse diventato tabù. O anche solo, una wishlist di obiettivi che si potrebbero raggiungere. questi ragazzi sono così spaventati dalle minacce che ricevono, e dalla paura di non durare, che per ora si godono il loro sensazionale risultato: fare paura. Ma prima o poi concordo sulla necessità di buttare lì sul tavolo qualche ambizione. Senza voler per questo aprire partiti e partitini stille post 68. (e non citerò più questa cifra)

  30. Maroni non è d’accordo con la scarcerazione dei manifestanti. D’altronde, espresse la sua fiducia nei confronti di De Gennaro, dopo la condanna ad 1 (solo!!!) anno per istigazione alla falsa testimonianza per i fatti di Genova. Perché aveva servito lo Stato. Se è a quel modo che si serve lo Stato (ovvero mentendo e facendo mentire), il resto segue.

  31. @Andrea I.

    Da una lettera di Franco Fortini a Pier Paolo Pasolini, dopo la famosa invettiva contro gli studenti:

    ”Dovesse esserci la guerra civile, è improbabile che i giovani ti vogliano al loro fianco. (…) Sei confortato dal Pci e dai preti, sei ormai nella ormai certa Grosse Koalition, nella Santa Alleanza nazionale e internazionale. E sai perché? Perché hai peccato di presunzione. Hai creduto di poter cavalcare una dopo l’altra tutte le tigri del potere comunicativo. Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte. Con l’impeto della tua genialità si possono fare molte e bellissime cose. Ma non si può fare quella sola che permette di uscire dall’estetismo verso la storia e la politica: la rinuncia reale, non verbale, al monologo e ai piaceri del narcisismo.’

    C’è bisogno di aggiungere qualcosa?

  32. a paolo e gherardo sul “che cosa”

    contestazione dei tagli, che ricadono sulle fasce più deboli: impiegati, precari, studenti; creare una rete tra le varie e diverse realtà nazionali colpite dalle medesime politiche; metterle in contatto con reti simili in Spagna, Grecia, Francia, organizzare un social forum europeo con tutte le realtà di base che discuta della crisi, dai subprime statunitensi agli aggiustamenti di bilancio proposti all’europa, e dia spazio agli economisti e sociologi dissidenti – in francia è uscito un Manifesto degli economisti costernati, firmato da 630 economisti, tra docenti e ricercatori:

    http://economistes-atterres.blogspot.com

    aprire le università a laboratori di ricerca e discussione sulle alternative all’europa monetarista, ossia accompagnare in modo sistematico ogni manifestazione politica, che sia dal singolo sciopero o la singola occupazione, con un lavoro di studio e ricerca, e circolazione dei saperi

    creare incontri nei licei, che trattino in modo critico per i ragazzi tutte le questioni relative all’ideologia liberista e delle sue ricadute sulla vita delle persone comune, dando spazio invece alle teorie “eretiche”

    dal 1999 al 2001 – ossia nel corso di tre anni un movimento che si era manifestato per la prima volta negli USA si è diffuso in tutta europa, portando con sé, oltre alla contestazione, un lavoro articolato sui saperi e le analisi alternative; si potrebbe partire dall’oggi, tenendo a mente quel modello…

  33. E se il “come”, il “cosa” il “con chi”, il “perché”, fossero già stati messi sul piatto dagli stessi che hanno costruito il 14 dicembre di Roma? Dal Manifesto di oggi (pag. 4, a firma Hammett):

    ***

    Si fa presto a dire «black bloc». Salvo poi scoprire i volti dei propri figli dietro le sciarpe o un sasso. Abbiamo ascoltato attentamente le ragioni di chi martedì ha scelto di forzare la «zona rossa» intorno al Palazzo. Per scoprirne la cultura politica e sondarne la ricchezza umana. Seguiteci.

    Tutti vi cercano, ma nessuno si interroga troppo. Com’è andata martedì?

    – La giornata ha messo in evidenza soggetti e movimenti con cui si devono ora fare i conti. Sta avvenendo in tutta Europa. Il paragone con gli anni ’70 è una narrazione del potere, per farne una semplice ripetizione ciclica, una banalità. C’è stata una saldatura importante tra tessuti sociali sulla proposta concreta. Si è unificata la prospettiva, ci si è dati una parola comune. E ha generalizzato il tema della condizione precaria, che viene sempre ridotta all’attesa di un posto fisso che non arriverà mai; mentre accomuna ai senza casa, ai cassintegrati, ecc.

    Qual è stata la parola unificante?

    – Martedì era la rivolta, la ricerca della rottura. Come singole realtà sociali, facciamo molto altro. Per esempio, siamo impegnati in battaglie locali – a volte insieme ai sindacati di base o altre realtà – in conflitti di intensità inferiore. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a «soggettivizzarsi» non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo «pezzettini» di rivolta quotidiana. Alla fine emerge la crisi globale di un sistema bloccato. Siamo di fronte alla crisi del processo di valorizzazione: di per sé è una «crisi sistemica». Non c’è molta ideologia da aggiungere. E c’è pure una «crisi nella crisi», quella della rappresentanza politica.

    Coincidenza forse non casuale.

    – No. Ma è anche una scelta necessitata. Se – come potere – dico che «a causa della crisi» non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che «la mediazione» non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico. Ma ogni scelta economica è politica. Ora ci troviamo in una nuova stagione, che rimette in discussione anche tattiche, progetti, apparati organizzativi.

    È cambiato «l’ambiente» per tutti. Trovare l’accordo intorno a un tavolo richiede anni, una giornata così, invece…

    – Non c’è dubbio, perché alla fine si tratta anche di riconquistare un po’ di forza sociale e politica. Se vogliamo la trasformazione radicale dell’esistente dobbiamo rimettere al centro i processi di conflitto. È politicismo parlare oggi di «quale rappresentanza per i movimenti», oppure «quale dialogo con il sindacato democratico». È discutere di politica prima di accumulare forza e presenza. I processi di ristrutturazione e riorganizzazione del capitale hanno frammentato il tessuto sociale. Ricostruire è arduo. Servono molte strutture reali, per supportare la socializzazione. L’opzione sindacale in molte situazioni non è sufficiente, visto anche l’alto livello di ricattabilità sui posti di lavoro, specie nel settore privato. In Italia la metà del lavoro è al nero. Ci sono 14 milioni certificati di inattivi…

    Un po’ troppi, per esser tutti veri…

    – Tra questi sicuramente si pesca molto lavoro nero o sommerso, ed anche la criminalità. Nelle nostre periferie ci sono centri urbani di spaccio a cielo aperto, lì c’è il vero «quarto settore». Ma il problema della rappresentanza andrebbe posto come rappresentanza sociale, capacità di essere recettivi e intellegibili ai tanti che sono soli e non sanno come esprimere la propria rabbia. Ora sanno che c’è qualcuno disponibile. Fino a ieri pensavano che eravamo tutti «normalizzati», che con un paio di fondi pubblici ai centri sociali e una candidatura si sistemava tutto.

    Tutto qui?

    – Che da qui a «costruire un mondo nuovo» sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no… Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento… Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri «con chi» puoi fare un altro mondo. Tutto questo riporta al vecchio tema: «senz’acqua, la papera non galleggia».

    Martedì si vedeva chiaro: «solo tutti insieme facciamo paura».

    – E la piazza ha «tenuto» oltre ogni attesa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti «pischelletti» hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile. Il movimento non è «nostro», è libero di scegliere.

    Una ricomposizione concettuale, dopo 20 anni di «impotenza percepita»…

    – È stata davvero una giornata importante, per questo. Ora bisogna lasciare spazio affinché si esprima su altri obiettivi. Nei mesi scorsi è stata importante la mobilitazione degli studenti medi. E si è visto. Lo spezzone universitario ci stava dentro con una consapevolezza maggiore, ma con articolazioni meno sociali, più «equilibrismi». Ma è nella frammentazione sociale che c’è più necessità di un passaggio politico. Bisogna dare parola e rappresentanza sociale, quindi anche politica, a un precariato diffuso che oggi non ha altri spazi se non il proprio stesso «agire». C’è necessità di «candidarsi nella società» – non alle elezioni – essere credibili per le cose che fai e che dici tutti i giorni, al di là della sparata di martedì. Si tratta di costruire «complicità» nelle relazioni. Un piccolo obiettivo contro l’isolamento e la frammentarietà, ma anche contro la crisi della politica. Ci sono partiti di massa che, per fare un volantinaggio, faticano a mettere insieme 15 persone. E ci sono invece collettivi di base, movimenti autorganizzati, che hanno una capacità di militanza e adesione che va manifestata.

    Come la spiegate questa differenza?

    – Anzitutto con l’accumulazione di forza e la consapevolezza delle parole d’ordine radicali che stiamo mettendo in campo. Se c’è una crisi sistemica, è sistemica. È inutile cercare il modo di cogestirla. L’idea di «governare la crisi» si scontrerà con gli equilibri della globalizzazione. Cosa farà Vendola domani, quando vorrà introdurre una riforma sociale radicale? Potrà sforare il patto di stabilità? Sarà disposto a farlo?

    Da gennaio la politica di bilancio sarà fatta a Bruxelles.

    – Crediamo che la scelta sarà quella di «dichiarar guerra» ai poveracci. E’ ovvio che chi detiene il potere ha dei privilegi e li vuol preservare. Non ha più strumenti di mediazione, il welfare state, e dichiara guerra. Ma a questo punto è finita anche un’altra ipotesi: quella della «simulazione del conflitto». Oggi chi «simula» scherza col fuoco. Se è finita la mediazione politica, è finita anche la simulazione. L’«elemento simbolico» ha un peso forse ancora più forte. Il blindato che va a fuoco è un simbolo, non è che sparisce la guardia di finanza. Ma va a fuoco sul serio.

    La repressione. Cosa vi aspettate?

    – Staremo a vedere. Per oggi si tratta di avere la capacità di dare una risposta unitaria. È comprensibile, conseguente, che ci sia una reazione dura. Chi ha i privilegi – ricchi, padroni, governanti – o chi voleva solo scalzare Berlusconi, presentandoci poi il conto dei sacrifici, del «governo di transizione neutrale», della gestione europea e di Marchionne… «non ci ama». Contro questa prospettiva abbiamo detto «que se vayan todos», andate tutti a casa. Perché non ci sono alternative, in questo «palazzo» immobilizzato tra lobby di interessi trasversali e governance della globalizzazione. Può darsi che finora siamo stati una generazione poco coraggiosa…

    Ma è stata la vostra Valle Giulia…

    – È l’apertura di una nuova stagione. Tutta la cordata che arriva fino a Vendola dovrà prendere prima o poi delle decisioni. Abbiamo visto un silenzio imbarazzato davanti a questa giornata. E pensiamo sia sbagliato, perché bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono. Si parla di sofferenza, precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e la governance, oppure avrà le mani legate. E quindi l’unica cosa che rimane ai democratici è l’opinione. Ma, almeno quella, falla!

    Qualcosa di molto distante dall’immagine di «quelli che vogliono solo sfasciare tutto»…

    – Si può anche non negare questa cosa: sì, volevamo sfasciare tutto. Ma eravamo tanti e volevamo prendere parola. Quando lo fai, non sei «simpatico».

    Era un corteo di gente che finalmente parlava: «mafiosi», «venduti»…

    * Senza fischietti e palloncini… È il frutto di pratiche di organizzazione sociale, fuori dai campi già conosciuti, dalla «politica» dei partiti, in parte anche dai sindacati. Per esempio, lo spazio di attivazione dentro un laboratorio sociale, o la riaggregazione della precarietà in un determinato territorio, rimettendo al centro la «complicità» tra persone. Li aggreghi costruendo una tua «narrazione», che dice «siamo indipendenti, aspiriamo a dare parola a chi non ce l’ha». Anche attraverso una birra scambiata, una squadra di calcio, o la «cospirazione» tra precari che si rivolgono a un avvocato per far causa all’azienda e sfilarle almeno un po’ di soldi.

    Tanto, da precario, non hai il posto…

    * Alcuni dicono cash and crash. Un modo nuovo di «assumersi» in pianta stabile come precari e sopravvivere. Mostrano la corda tutte le forme di «crisi pilotata». La Cgil ha reso noto che le ore di cig concessa ha superato il miliardo. Ci sono oggi nuove frontiere oltre lo sfruttamento diretto della forza lavoro. Anche se, secondo noi, rimane sempre questo il centro della contraddizione.

    Nonostante la delocalizzazione vada riducendo la base produttiva…

    – Ci sono anche le nuove forme del lavoro cognitivo, o del lavorare nel tempo di «non lavoro». Ma il tema è sempre quello della produzione, della vendita della forza-lavoro; non è che si scappa. Rimaniamo sempre lì, tra valore d’uso e valore di scambio… Si tratta di costruire un’azione politica realmente alternativa, a cominciare da: cosa si produce, per chi, come lo si fa, in quale equilibrio e sostenibilità. Bisogna ripartire dai bisogni. In base a quelli sai anche calibrare una nuova filiera produttiva, cosa effettivamente è utile produrre. Magari scopriremo che non serve fare tante automobili, ma nemmeno ci dobbiamo tutti mettere a lavorare nel fotovoltaico. Ma torniamo al discorso di prima: o accetti la governance o la rompi. Per fare questo ti devi attrezzare, organizzare gente, accumulare forza; che è oggi il problema numero uno.

  34. @A.I.

    Il pezzo sull’assalto alla sede dei Tories è interessantissimo proprio perché rappresenta la versione britannica dell’assedio a Montecitorio: per una volta, come scrive l’autore, si prova una sensazione di ‘vittoria’. Come mai prima d’ora. Le reazioni dei quotidiani destrorsi e moderati sono uguali ovunque, a tutte le latitudini. E’ questo ‘facciamo paura’ segnato dai manifestani che ha convinto le autorità inglesi a rispolverare il ‘kettling’, e farà alzare il livello di repressione anche da noi. La differenza è che però lì si fronteggiano un movimento a cui viene riconosciuta tutta la dignità possibile, sia pure con i soliti inarcamenti cigliari (‘non potete pisciare sulla statua di Churchill. Questo è troppo’) e un potere di certo corrotto e imbroglione, ma con un minimo di pudicizia civile.

  35. un altro pezzo in tema, di Bifo:

    http://www.alfabeta2.it/2010/12/18/cominciamo-a-parlare-del-collasso-europeo/

    dove si dice: benissimo, attacchiamo i parlamenti, ma attacchiamoli perché sono contenitori vuoti, l’essenziale accade altrove: tra consulenti finanziari, economisti, dirigenti della grandi banche europee e primi ministri, sulla testa di tutti quanti, con l’unico paradigma monetarista a orientare le soluzioni

    e qui si capisce quanto è arduo incidere, dal basso, in questa realtà; e qui si dovrebbe capire anche, per citare Fortini, che chiunque abbia voglia di tentarci, piuttosto che farsi maltrattare passivamente, deve divenire “astuto come una colomba”, ossia dotarsi di tutti gli strumenti: caschi, scudi, ma anche saperi… (saperi: non narrazioni!)

    per ogni italiano che si rispetti, nel frattempo, un dovere comunque imprescindibile: esprimere in ogni forma e occasione, privata o pubblica, lo schifo per la coorte di Servi e Venduti, ormai invedibili, che stanno dietro al capo moribondo ma pugnace…

    che ognuno avveleni il pranzo di natale al suo parente leghista o berlusconiano, se ce l’ha e altrimenti s’infiltri nella famiglia accanto

  36. Paulo Mossetti,

    Grazie per la risposta. Spero chiarire la mia idea. Volevo dire che forse gli atti di violenza hanno fatto passare al secondo piano la parola dei manifestanti: gli abitanti di Aquila, i cittadini di Terzigno, i precari: avevano una parola che non ha potuto superare i scontri.
    Avrei voluto che questa parola fosse sentita.
    La testimonianza per dire come i frutti hanno perso il loro colore oro, come le donne in gravidanza hanno paura di fare nascere un bambino con malformazione, come si è rovinato il vento, il cielo, come muore la natura.
    Credo nella bellezza delle parole perché toccano il cuore di tutti, svegliano in noi il desiderio di cambiare.
    Si parla in Francia dei scontri a Roma, del tramonto di Berlusconi, ma chi ha datto la parola a questi cittadini che avevano il desiderio di dire la speranza, la rabbia?

  37. Per il momento non trovo lo spazio per commentare il post d’Orsola che ho interpretato come una risposta alla mia riflessione.
    Credere nella bellezza poetica della parola, perché trasmuta il mondo, perché da un paese dimenticato fa sentire la parola degli abitanti di questa terre desolata in guerra, in povertà, in dolore. In luogo allontanato nel mondo posso ascoltare questa parola, posso andare al confonto del sole, della fame, della lacrima, posso leggere in tutte le lingue, posso imparare la mia propia ribellione, la mia propia speranza, posso dare un volto a chi mi parla, mi scossa, mi commuove.

  38. Ancora una volta, cara Veronica, mi tocca citare qualcuno che solo pochi anni fa, per pregiudizio, non avrei mai pensato di citare:

    “All’Asinara, isola sarda un tempo nota per la presenza del carcere speciale, un gruppo di cassintegrati dorme da 296 giorni nelle celle della ex prigione. La loro protesta è pacifica, eppure da quasi un anno restano lì in attesa di risposte concrete che non arrivano.
    Ci farebbe piacere se Saviano, invece di pontificare su questioni che non conosce e sulle quali nessuno gli ha chiesto di ergersi a guru, sfruttasse il suo enorme potere mediatico per portare all’attenzione dell’Italia queste storie e, soprattutto, ci dicesse se le lotte devono porsi o meno il problema dell’efficacia.
    Un uovo sulla porta del parlamento non muta le cose, ci dice il Roberto nazionale. Sarebbe interessante che ci dicesse perché dovrebbero cambiarle le proteste che si fermano dove le camionette impediscono l’accesso a quello stesso parlamento nel quale, mentre gli studenti erano in piazza, si scriveva con la compravendita dei deputati una delle pagine più miserabili della storia di questo Paese.”
    (Dal sito del gruppo musicale 99 Posse. Qualcuno, penso, se li ricorderà)

  39. con “che cosa” più che alla piattaforma delle rivendicazioni possibili in effetti pensavo alla natura di ciò che è in corso.

    per farla breve, la vedo così: o la manifestazione del 14 e quelle che l’hanno preceduta o seguiranno sono la formulazione di una nuova coscienza di classe per cui si ripropone all’interno del senso comune una distinzione tra “ricchi” e “poveri” non in termini di fortuna e sfortuna, intraprendenza e ignavia etc. etc. ma di sfruttamento, repressione, rivendicazione, solidarietà e così via; oppure è l’espressione di una specie di costernazione per l’insufficienza della merce, per il fatto che questa crisi, che è anche una crisi di sovrapproduzione, dimostra come la narrazione a cui ci siamo abituati, quella del desiderio come domanda e della merce come risposta, non tiene più, una costernazione che però non supera la rabbia, la volontà distruttiva e, in buona sostanza, non dà risposte.
    questo mi sembra il primo discrimine e immagino che le prossime settimane se non i prossimi giorni potranno già dare delle indicazioni. a seconda che prevalga la prima o la seconda configurazione, potrà anche essere possibile capire il “che fare”, immagino, e il cosa chiedere.

    due note veloci:
    sull’espressione “coscienza di classe”: francamente non saprei proprio che altra espressione usare, anche se mi rendo conto che nella narrazione corrente della società senza classi, della “grande classe media”, non si sa appunto come usare un’espressione del genere. credo cmq si possa concordare sul fatto che negli ultimi 20/30 anni è stata portata avanti una politica di classe da parte delle classi ricche, una vera e propria lotta di classe, e quindi è forse il caso tornare a riprendere anche questo concetto, cercando ovviamente di capire in che modo usarlo;
    sull’insufficienza della merce: segnalavo la cosa più sopra, e francesco la confermava con il video del 15enne londinese, ovvero che questa generazione è quella che più “compiutamente” di tutte le ultime è stata educata alla merce, alla sua narrazione mediatica, al suo fascino e così via, eppure alcuni (parecchi?) suoi esponenti sono in giro a spaccare le vetrine ma, soprattutto, a eccepire rispetto l’ordine corrente delle priorità. questa cosa un po’ dovrebbe esimerci dal terrore/adorazione dei media e della loro (innegabile) vocazione totalitaria.
    allo stesso modo, notavo nelle fotografie degli scontri (è una deformazione di chi è cresciuto con i paninari) tutte queste scarpe di marca, queste giacche alla moda, ed era davvero straniante vederli indossati da chi sta tirando un sasso, staccando la segnaletica stradale, attaccando una camionetta dei carabinieri. la cosa mi sembra non tanto una contraddizione da parte dei manifestanti ma proprio l’esposizione del limite di fascinazione e cristallizzazione della merce (e del segno).

  40. L’articolo e’ uno dei piu’ belli che ho avuto modo di leggere ultimamente,unico appunto da muovergli e’ il lasciare pero’ sospese le questioni che sono alla base dell’analisi,indubbiamente tirata giu’con capacita’.
    Direi che comunque la strategia non cambia molto dai periodi turbolenti che caratterizzarono gli anni dal 77 all’82,magari piu’ affinata e impregnata di maggior capacita’ nel saper recintare e contenere,l’esperienza d’altronde hanno avuto modo di farsela negli anni……
    Resta in sospeso pero’ il dibattito sul perche’ oggi si manifesta,ieri era chiaro,vi era un collante ideologico che comunque concentrava le energie,aggregando aldila’della rivendicazione del momento,oggi e’ tutto piu’ nebuloso,perche’ solo chi conduce ha in genere una qualificata proprieta’ verso le posizioni rivendicative,gli altri spesso incanalano rabbie,frustrazione,noia o ricerca di sversamenti adrenalici all’interno di alvei che gli diano momentaneamente un identita’,un senso di appartenenza che nella vita di tutti i giorni non hanno.
    Intendiamoci non voglio assolutamente criticare le manifestazioni,anzi auspico aumentino in numero e intensita’ visto il momento drammatico che sta percorrendo tutta la societa’ occidentale,ma auspico anche che si ritorni ad una solidarieta’ collettiva,appunto a quel senso di appartenenza e di identita’ che noi in passato avevamo anche fuori dal contorno dell’evento o dell’episodio.
    Un saluto con stima e rinnovando i complimenti per l’articolo

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017