Quel che resta. Sparire in Irpinia a novembre.

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di Riccardo Pensa

A ottobre 2010, a poco più di un mese dal trentennale del terremoto in Irpinia, credevo davvero di avere in mano gli elementi giusti per una mia inchiesta originale sull’argomento. Ero stato in Irpinia solo due volte, e per visite lampo di lavoro, durante le quali non avevo avuto il tempo sufficiente, né il modo di cogliere le suggestioni che quei luoghi potevano offrire e che pur mi interessavano. Tuttavia, con vera sorpresa, mi era parso che proprio i luoghi, con la complicità di alcune circostanze, in quella scarsità di tempo e attenzione, non avessero indugiato a sollecitarmi, per offrirmi una chiave di accesso parziale ma sicura alla loro essenza, una rivelazione tutta mia, pagata per niente cara.

Ora non dubito che tale trama si sia svolta, ma credo di riconoscere dov’è che ho sbagliato a interpretarne i segni e il tranello che celava.

La prima volta in Irpinia è d’agosto. Visita ad un amico di Grottaminarda per preparare l’organizzazione di un seminario sui rifiuti. Ripartito per la Basilicata mi fermo a pranzo a Calitri e lì, sotto un sole cocente, il primo segnale. Dal bar finisco per addentrarmi, in cima al paese, per il borgo antico, del quale registro di colpo, sbigottito, lo stato di abbandono in cui versa. A parte poche case ristrutturate e forse abitate, il resto del quartiere sembra fermo al terremoto dell’80. Un fossile indifferente alla vegetazione che lo avvolge: la vita tornata allo stadio vegetale. Non incontro nessuno per i vicoli stretti che percorro, nemmeno un gatto, e la musica di una radio proveniente da qualche appartamento non fa che perfezionare il senso di irrealtà che pervade quel posto. Tornato a casa, giro le foto scattate all’amico di Grotta, e con le stesse commento su L’espresso-online un articolo di Fabrizio Gatti, che secondo una coincidenza che mi pare formidabile, denuncia proprio in quei giorni l’abbandono dei borghi intorno a L’Aquila.

Sono quindi di nuovo a Grottaminarda ai primi di ottobre, per il seminario. A Grotta il terremoto non si vede davvero e, ad ogni modo, io sono più interessato a visitare le vicine discariche di Difesa Grande e Savignano. Una mattina però mi alzo presto, e decido di fare un giro da solo per il paese, prima che cominci il lavoro. Cammino fino in cima al castello d’Aquino, poi, invece di ridiscendere subito, come avevo fatto le altre volte accompagnato dall’amico, svolto l’angolo, ed ecco un posto che non avevo visto: il quartiere Fratta. Pochi passi lungo un viottolo che scende dissestato e di nuovo, come a Calitri, sempre più marcati i segni dell’abbandono. Mi ritrovo a girare in una terra di nessuno, un luogo rimosso dal resto della vita, che pure scorre regolare e caotica a pochi isolati di distanza. Non ho con me la macchina fotografica e non porto prove che non servono all’amico grottese, ma una domanda: “Perché non mi avevi detto niente?” “Perché è una ferita aperta.”

“Ferite aperte” doveva intitolarsi questo reportage, avrebbe raccontato dei borghi e dei luoghi abbandonati dell’Irpinia e sarebbe stata la mia inchiesta.

Pianifico di tornare in Irpinia proprio per la settimana del 23 novembre, la data del terremoto. Nel frattempo mi dedico a qualche lettura propedeutica al lavoro che voglio svolgere. Trovo particolarmente interessanti le analisi di Angelo Verderosa sulla ricostruzione. Prendo gli appunti che mi interessano su di una mappa, immaginando già gli spostamenti. Lo stesso faccio leggendo Viaggio nel cratere di Franco Arminio, ma a questo punto qualcosa nel mio piano comincia a incrinarsi. Mentre seleziono col bisturi gli acccenni alle rovine dell’Irpinia (Conza della Campania, p. 24; Senerchia, p. 51; Melito, p. 68; Montecalvo, p.79), tutte le altre parole di Arminio mi restano addosso, e mi inquietano. Del passaggio a Senerchia segno la frase “Entro nelle rovine del paese vecchio come si entra in una cattedrale, le case sono intere o appena diroccate” e mi ritrovo a dover fare i conti con questa:

Non sono e non sarò mai un turista, uno che esce per svagarsi. Sto qui per soffrire in un modo diverso da quello che mi accade nella ceralacca del mio paese. E quasi mi dispiace quando ci sono giorni come questi in cui pure la sofferenza è difettosa. Devo tornare a Senerchia quando non c’è nessuno da ascoltare e quando non devo scrivere niente di quello che ho visto. Devo tornarci con una donna che cammina in punta di piedi e si allontana tra le case, cerca quelle più in alto e lì si va a posare come un’aquila e mi aspetta.

Così la mia terza visita in Irpinia sarà un’idea che porto avanti affiché si sgretoli del tutto, affinché non ne debba più scrivere, per vedere cosa mi resterà fra le mani in sua assenza.

Quando parto, il 21 novembre, è una giornata grigia, di pioggia spesso molto intensa, che nella velocità autostradale concede alla vista l’orizzonte minimo per proseguire. Arrivo nel tardo pomeriggio a Lioni. Alla pioggia si sono aggiunti il buio e il vento, e per strada perdo la lente a contatto dell’occhio sinistro, unico rimedio al mio cheratocono avanzato. Ci passano sopra le auto e io mi rassegno ad una mezza cecità che già presentivo. Nella sala del consiglio comunale assisto a un dibattito sul terremoto. Riesco a percepire soprattutto una sensazione forte di inverno in Irpinia. Non ne seguirò altri di questi appuntamenti. Sono qui più per la stagione che per la ricorrenza. Per dormire sono ospite a Caposele. Solo nella stanzetta della Pubblica Assistenza, dove tornerò tutte le sere per i giorni successivi, sento il santuario di Materdomini che incombe sopra di me, e tutta l’Irpinia là fuori che trama senza volontà, e il mio progetto abbandonarsi dolcemente al sonno.

Nei giorni seguenti la pioggia non mi abbandona mai. Il tempo però è anche incerto, e ogni tanto, per poco, concede il sole. L’occhio destro fa il suo dovere, mentre il sinistro rende la vista d’insieme ovattata oltre l’effetto della foschia, e lo chiudo quando mi serve un po’ di nitidezza. Esco la mattina presto, per tornare alla base prima del buio. Non sempre ci riesco. Mi lascio guidare dal navigatore preso in prestito da mio fratello, che però, per portarmi alla meta, mi fa sperdere per stradine occupate da frane, cani, volpi, mucche. Tutto procede per dissipazione, ma il disagio iniziale svanisce man mano che capisco e accetto questa condizione. È un gioco che prende forma, quello di una doppia sparizione: la mia e quella dell’Irpinia. L’essenza promessa forse sta nell’assenza. Di ogni determinazione, come aveva sentito Carlo Levi. Con questo spirito affronto il patto di concentrare l’obiettivo sui borghi abbandonati e le rovine. Non più un’inchiesta ma una derive. Per Baudrillard “viviamo perlopiù secondo gli schemi della volontà e della rappresentazione, ma il nocciolo della storia è altrove.” Nella sua idea, “la fotografia rende conto dello stato del mondo in nostra assenza”, e questi luoghi d’Irpinia rendono più facile assecondare la sua intuizione.


7 COMMENTS

  1. Irpinia, paese dell’abbandono, di natura bella sotto neve o pioggia, senza cupo orizzonte, colore oro quando il sole diventa selvatico,
    luogo dove la solitudine possiede un nome, il primo nome di questo mondo.
    Come lo scrive Riccardo Pensa, Irpinia non è fatta per il turista.
    Chi viene nel luogo ritanato nella solitudine ha nel cuore la significazione dell’abbandono. Anche la bellezza nell’anima. Chi cammina tiene il cuore immerso nel paesaggio,
    non c’è distanza.

    Non ho mai visitato Irpinia, è per me la terra poetica di Franco Arminio,
    ha una fratellanza con la mia terra natale, si scrive con le case di un oro
    mitico, del sole sbiadito con gli anni; subentra il vento dentro i muri; qualcosa è perduto. Il nostro mondo si è allontanato della terra immane.

    Grazie a Maria Luisa per questo post dedicato a una terra splendide, questo testo scava ricordi di solitudine e di amore per Irpinia.

  2. caro riccardo
    molto bene il testo, molto bene le foto. raramente un forestiero è stato così accorto….

  3. Le foto sono bellissime.
    Ho visto fantasmi nelle case.
    Sogno che queste case siano abitate,
    che la vita sia di ritorno.
    Spero un giorno camminare tra le pietre
    e la memoria di Irpinia
    e forse comprare una casa per svegliare
    del suo sonno dal lungo tempo.

  4. Ho sempre creduto che la mia terra, l’Irpinia, non fosse una terra facile: da vivere, da scrivere, da fotografare…, è stato bello verificare che qualcuno invece è riuscito in questo scopo…ho subito pensato, dopo aver letto il tuo articolo e osservato le tue foto, ” sarà stato più facile per qualcuno che osserva dall’esterno” ma poi invece, ho capito che è stata la mia convinzione che ha limitato nel tempo la capacità di interpretarla e valutarla come meriterebbe…che forse non è così difficile, solo ancora un pò ostica…magari impegnandomi un pò di più….da irpina.
    L’unica cosa che credo abbia condizionato lievemente il tuo “giudizio”, la tua “visione” è che hai fatto queste foto volendo ricordare il terremoto che ha come smontato queste terre, che però sono anche altro…mi piacerebbe poter vedere ” con i tuoi occhi” non solo quel che resta ma quel che c’è, quello che credi ci sia…appena puoi, misurati con la presenza…darai di certo nuovi e utili incentivi anche ad altri irpini inconsapevoli…grazie.

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