Risorgimento, tutta un’altra storia: Massimo Novelli
Con gli occhi di uno sterminatore
Alessandro Bianco di Saint Jorioz
di
Massimo Novelli 1
Dove si riparla della gloriosa casata dei Saint Jorioz, e di un figlio che tardivamente non disonorerà del tutto il nobile padre. I piemontesi hanno le mani per sparare, uno di loro ha pure gli occhi per guardare. Si fa la guerra alla frontiera pontificia, bisogna che niente cambi e niente resti com’è. Quando morì a settantaquattro anni, il 25 febbraio del 1893, nessuno o quasi se ne accorse. Un operaio, forse lo stesso che lo aveva trovato cadavere in un’abitazione dello Stradale di Francia al numero 25, a Torino, andò a denunciare il decesso dell’uomo qualificato come «maggiore a riposo». Venne sepolto il 28. Sui giornali della città, rammentò il Parmentola, «non un necrologio, non un’inserzione ». La famiglia «con lui si estingue completamente».
Qualche giorno prima, il 6 febbraio, se n’era andata la sua compagna Vittorina Théaux d’Aure Forté, più giovane di una ventina d’anni, francese di Evreux, in alta Normandia. Scompariva nel silenzio, tanto delle gazzette quanto della storia, la gloriosa casata dei Bianco di Saint Jorioz, che molto aveva dato alla patria e niente, se non guai e disgrazie a catena, avrebbe ricevuto.
L’ultimo dei Saint Jorioz era il conte Alessandro Bianco. Se suo padre Carlo, il grande rivoluzionario, l’esule del 1821, si era rovinato per avere troppo cospirato per la libertà, il figlio chiudeva la sua esistenza terrena in un oblio altrettanto pesante. Questo anonimato, quella qualifica generica di “maggiore a riposo” che nulla svelava della sua carriera militare, avevano tuttavia una causa precisa. Per capire che cos’era accaduto bisognava risalire a ritroso il tempo, ritornare all’epoca della guerra al brigantaggio nel sud d’Italia e alle frontiere con lo Stato Pontificio, e scoprire poi le tombe di altri defunti come il generale Giuseppe Govone. Soprattutto era necessario rileggere le pagine di un vecchio libro. Il calendario segnava in rosso sangue il 1864, quarto anno di guerra nelle “Meridionali Provincie” del regno d’Italia. L’orrore era diventato ordinaria amministrazione, come le teste decapitate e i villaggi bruciati, la fame e la sete, il puzzo di polvere da sparo, le lacrime delle donne e dei bambini prima di essere ammazzati. Sui giornali si esercitava una contabilità macabra. Uno di quelli, “Il Pungolo”, poteva scrivere a metà marzo che «Un’altra notizia venne ad aumentare l’allegrezza»: gli usseri di Piacenza e i bersaglieri stanziati in Ripacandida «reduci da una perlustrazione, avevano portato in paese le teste di tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole».
Non tutti si rallegravano per il numero delle teste mozzate dei briganti e delle numerose brigantesse. Nel Parlamento di Torino si levarono alte e vibranti le voci di Nino Bixio, che pure non aveva esitato a far fucilare nel sud un bel po’ di gente, e di Giuseppe Ferrari. Il generale garibaldino ricordò invano nell’aula di palazzo Carignano che «se vorrete un’Italia si compia, bisogna farla con giustizia, e non con l’effusione di sangue». E il milanese Ferrari, socialista e federalista, gli fece eco, egualmente inascoltato: «Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Nel suo libro su Garibaldi, Alfonso Scirocco, decano degli storici del Risorgimento, rammenta che «nell’agosto del 1863, con la Legge Pica, fu istituito nel Sud una specie di stato d’assedio, con la sospensione di gran parte delle garanzie costituzionali». Alla fine di quel ’63 «la denunzia di illegalità e arbitri commessi in Sicilia provocò un aspro dibattito alla Camera». Bertani, poi, propose «le dimissioni in massa dei deputati dell’opposizione». Il primo a tradurle in pratica fu Garibaldi: il 21 dicembre, da Caprera, «le comunicò al presidente della Camera», spiegandone le ragioni «nella cecità dimostrata dal Parlamento a proposito della cessione di Nizza e nel “vituperio della Sicilia, che io sarei orgoglioso di chiamare la mia seconda terra d’adozione”».
Fu tra quelle polemiche roventi, quegli eccidi nel Mezzogiorno, che nel 1864 G. Daelli e C., editori in Milano, diedero alle stampe un volume ponderoso intitolato Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863: studio storico-politico-statistico-morale-militare. Sulle prime pochi se ne curarono, soltanto il nome dell’autore riavvolse un nastro di memoria negli ambienti militari e della corte sabauda. Se il nome di Carlo Bianco era ormai un ricordo sbiadito, venato forse da qualche vecchio rimorso, quello del figlio era abbastanza noto: si trattava del conte Alessandro, capitano nel Corpo Reale di Stato Maggiore Generale, già sottotenente nell’Aosta Cavalleria, ufficiale d’ordinanza del generale Bava nella guerra del ’49 e autore, nel ’54, di Le storie delle caserme, un grosso centone d’aneddoti di vita militare. Come dice Parmentola, aveva potuto iniziare la sua carriera dopo il suicidio del padre: morto nell’esilio di Bruxelles il propugnatore della guerra rivoluzionaria per bande, «Carlo Alberto può dare, il 16 settembre 1843, ad Alessandro il grado di sottotenente in Aosta Cavalleria; e il 17 ottobre successivo immetterlo nella piena proprietà dei beni confiscati».
Nel ’64, dunque, rientrato dai confini della frontiera pontificia, gli venne l’idea, malaugurata col senno di poi, di utilizzare le sue esperienze di quella guerra per cimentarsi in un’opera voluminosa ed enciclopedica sul fenomeno, ovvero «un quadro disegnato di natura e colla prontezza e precisione della fotografia delle origini, delle azioni e delle conseguenze del brigantaggio», distinguendone intanto uno «politico» e «il comune», giacché «gli stessi motivi che conducono al brigantaggio cambiano a seconda delle provincie e della loro indole, giacitura, ricchezza e coltura».
«Io non accuso, racconto», precisò. Invece nei ministeri, negli alti comandi, a palazzo Reale, s’interpretò l’esatto contrario. Tanto che, letta l’opera del conte Alessandro, in quegli ambienti dall’allegrezza per gli scannamenti dei briganti si passò all’ira e alla rabbia. Per quel libro, insomma, come scrisse Giuseppe Manno, gran storico del Risorgimento, Alessandro «perdette il suo grado di capitano di Stato Maggiore».
Che cosa c’era di tanto esplosivo in quelle considerazioni sul brigantaggio, che per il Ferraris erano «un raro volumetto» (si fa per dire in quanto alle dimensioni…) di «alto interesse per la conoscenza della “questione meridionale” del tempo», e che rivela, in Alessandro, «la ardente e ardita indole paterna»?
Se ci si fosse fermati alla dedica, «al luogotenente generale cav. Giuseppe Govone», non ci sarebbe stato niente da eccepire. «Questo studio imperfetto», vi appose il capitano, «ma onesto vero incontroverso / dalle sue opere e fatiche e negozi / e da suoi ammaestramenti / nelle meridionali provincie inspirato / l’autore / riverentemente e affettuosamente / offre» al «cuore generoso e fiero» di Govone, che i briganti aveva cacciato e represso, instancabile e spietato, dall’Abruzzo alla Sicilia, arrivando nell’estate del ’63 a rastrellare centocinquantaquattro comuni con metodi, si disse, «coloniali», che si tradussero nei blocchi degli abitati, nel taglio degli acquedotti e nei divieti d’ingresso e d’uscita fino alla cattura di «tutti i renitenti, i disertori e malfattori».
Bastava cominciare a leggere, tuttavia, per comprendere come il saggio di Alessandro fosse tutt’altro che retorico e celebrativo, di maniera, dell’operato regio, nonostante l’apparente condivisione dei motivi che avevano portato alla repressione e i molti giudizi poco lusinghieri sulla storia, sui costumi e sulle abitudini dei meridionali.
Tutto «in questo Paese», esordiva, «favorisce il brigantaggio: la povertà dei coloni agricoli; la rapacità e la protervia dei nobili e dei signori; l’ignoranza turpe in cui è giaciuta questa popolazione; l’influenza deleteria del prete ». Parlando del brigantaggio «comune», poi, sottolineava la difficoltà di sradicarlo a meno che il governo non facesse «un lavoro penoso ed ingrato di rigenerazione e di educazione», il quale «non è per anco incominciato, qualunque siano le illusioni di cui si pasce il governo in proposito. E ch’io non vedo finora probabilità di poter incominciare con successo».
In un crescendo di rilievi, d’annotazioni critiche, di descrizioni cronistiche, il capitano dello Stato Maggiore giungeva a identificare nientemeno che nel «piemontesismo » la causa principale dello strazio del Mezzogiorno: «ecco un’altra parola gravissima, dolorosissima, che non dovrebbe esistere nel Dizionario italiano. Essa esprime un dualismo che si traduce per discorsi, e si sa che l’Italia della discordia fu sempre prostrata. Ma quando i fatti provano che le leggi che si mandano non sono buone per le Provincie Meridionali; che le condizioni economiche di queste sono toto caelo diverse da quelle, e così le spirituali, le cordiali, di abitudini, di costumanze, di tendenze, ecc., ecc., perché si danno e si fanno agire? Bisognava non toccare, non innovare, aspettare e lasciar correre tutto come esisteva, ed appena appena accomodare il tanto necessario ai principi costituzionali iniziati». Passare «dal meglio al peggio quando si aspetta un bene migliore è un violentare di fronte un popolo, un disgradirlo, umiliarlo, offenderlo in tutti gl’interessi economici, morali e politici ancora».
L’Italia, pertanto, «non era e non è fatta: le leggi son provvisorie, e per le cose provvisorie voi create un profondo
malcontento?»
Chi leggeva si stava rendendo conto di avere davanti agli occhi una vera e propria requisitoria sul tradimento degli ideali risorgimentali, un’analisi ponderata della conquista regia del sud e non della liberazione di questo, una disamina acuta delle ragioni della “questione meridionale”. Non si sa, forse si saprà mai, se Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nello scrivere il suo Gattopardo avesse consultato il libro di Alessandro Bianco. Ma è ragionevole credere che questo brano potrebbe tranquillamente essere stato scritto da lui:
Il 1860 trovò questo popolo del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia. Tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto; i ricchi non sentono pietà; gli agiati serrano gli uncini della loro borsa; i restanti indifferenti o impotenti. Niuno può o vuol l’altro aiutare, sconforto da per tutto. Ci aveva provato Garibaldi, nel 1860. Nessuno però ricordava più i decreti con i quali, da Alcamo a Palermo, a Cosenza, aveva abolito la tassa sul macinato e i dazi sull’importazione di cereali e di legumi, stabilendo la divisione delle terre comunali e i sussidi alle famiglie più povere.
In Calabria si era spinto più avanti. Il 31 agosto aveva firmato il seguente provvedimento: «Gli abitanti di Cosenza e Casali esercitano gratuitamente gli usi di pascolo e semina delle terre demaniali della Sila e ciò provvisoriamente sino a definitive disposizioni». Carte morte, seppellite.
Anche Alessandro Bianco di Saint Jorioz, finalmente ricongiunto al padre, venne congedato dal regio esercito di Vittorio Emanuele II.
- Della storia di Alessandro Bianco di Saint Jorioz, “reporter soldato” si faceva accenno nell’articolo che Massimo ha pubblicato oggi su Repubblica -edizione torinese, e così gli ho chiesto di darci in anteprima il capitolo del suo nuovo libro, La cambiale dei Mille e altre storie del Risorgimento- Interlinea Edizioni,Novara, interamente dedicata a questa interessante voce della nostra storia. effeffe🡅
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[…] This post was mentioned on Twitter by Angelo Ricci and Francesco Cingolani, nazioneindiana. nazioneindiana said: Risorgimento, tutta un'altra storia: Massimo Novelli: http://bit.ly/fI19dj [francesco forlani – 7 febbraio 2011] […]
grazie per questo testo! nell’anno delle celebrazioni, dopo 150 anni, si dovrebbe avere il coraggio di divulgare la contro-storia dell’unità d’italia, o almeno del post-unità. capiremmo meglio perché siamo ancora nelle mani di mafiosi e palazzinari. e perché non siamo soltanto una repubblica fondata sulle stragi (portella la prima, falcone, borsellino e le stragi del 93 la seconda), ma anche uno stato fondato sulle stragi, come quella dei pugnalatori di palermo (1862).
Considerando che il confine tra rivendicazione di diritti violati e vittimismo è sempre labile, il pezzo risulta vibrante e onesto.
Per i briganti meridionali non ho mai nutrito simpatie, faccio fatica a dimenticare che i loro nonni – ed erano decine di migliaia al guinzaglio del cardinale Ruffo di Calabria, sospeso a divinis – scannarono i giacobini del 99, in nome di una vandea peggiore dell’originale.
Diverso il discorso sulle vessazioni,, di natura economica e costituzionale, patite dai sudditi dell’ex Regno. Il quale si mostrava degno del consesso europeo soltanto per ciò che riguarda la monumentalità voluta dai borboni. Certo il bilancio dello stato era in pareggio, rispetto al passivo dei savoia, ma per neghittosità ad investire in sicurezza, infrastrutture, strade, fogne e tutto il resto, visti come farina del diavolo e fonte di attentati alla corona,
grazie, Effeffe, di questo pezzo così illuminante sulla nostra non sempre onorevole storia patria. La pallida e morbosa stirpe dei Savoia ha sempre portato solo danni e patimenti a donne e uomini della penisola italica
Ho letto in bozza buona parte del nuovo libro di Massimo Novelli (un capitolo è stato pubblicato in anteprima sul numero 3 della rivista “il Reportage” con il titolo “Il giallo della cambiale dei Mille”) e posso assicurare che è esattamente quella contro-storia del Risorgimento di cui, nell’anno dei festeggiamenti, si sentiva il bisogno, ricca di retroscena, personaggi “minori” e verità dimenticate. Novelli non si limita a grattare la patina celebrativa della storiografia ufficiale, ma scava a fondo e con passione. Documenti alla mano giunge sempre a mettere in discussione un luogo comune, una verità di comodo. Il libro non trascura le fonti ufficiali, ma le “contamina” riassegnando un ruolo decisivo a un soggetto storico che troppo spesso a giochi fatti viene escluso, il popolo.
….la pallida eccetera eccetera….
Ma non ho capito, senza i Savoia, e il mio non vuole essere un canto elegiaco, chi l’avrebbe fatta l’unità d’Italia? il papa? re bomba? don Leopoldo del bengodi? gli austriaci? quel mascalzone del duca di Modena? Elisa Baciocchi? senza i piemontesi non l’avrebbe fatta nessuno, perchè nessuno se ne fregava, men che meno i milanesi, i quali al più sognavano una larga autonomia e un vago federalismo non si capisce fatto da chi e con chi. Senza quella gente là, ricordiamocelo, saremmo rimasti una frammentazione balcanica in perenne eruzione.
Io non voglio nascondere gli orrori della cosiddetta guerra di conquista piemontese, ad esempio in meridione, però qui a furia di cercare lo scoop fantastorico a tutti i costi si rischia di gettare l’acqua col bambino. Ho partecipato a non pochi convegni sui risvolti oscuri del Risorgimento: una girandola di stroppole tra cui ancora ricordo la storia patrocinata da un tale, persino ex presidente di un ordine giornalistico, secondo il quale Cavour avrebbe corrotto i generali di Franceschiello, Garibaldi sapeva tutto e che insomma l’impresa fu poco più di una passeggiata. Sì, andatelo a raccontare ai pro pronipoti dei soldati napoletani della battaglia del Volturno e dell’assedio di Gaeta. Vi massacreranno.
Ma d’altra parte andatelo a raccontare anche ai discendenti di quelli di Novara, di Custoza uno e due, di Medici del Vascello e Villa Pamphili, di Venezia, di San Martino, di Mentana, di Curtatone, Montanara, del vallone di Rovito, di Belfiore, e ce ne sarebbero ancora a decine, ma non li cito se no il rischio di retorica è dietro l’angolo.
Soprattutto andatelo a raccontare ai posteri di Pisacane, artefice con Marx e Mazzini della I Internazionale a Londra, teorico convinto del federalismo come unico rimedio per quell’ectoplasma di paese ( ma nessuno lo sa, e nessuno ne scrive mai, va a capire, forse perchè non è trendy) in nome del quale ideale federalista morì morto ammazzato ordinando ai suoi di non sparare sui contadini coi forconi e inferociti ( i poveri contadini di Sapri che il comunista Piasacane si illudeva di liberare), andatelo a raccontare, e concludo, al sottoscritto, che di questo povero disgraziato è indegno pro e pro e pronipote.
Dimenticavo uno che non può essere dimenticato: Pilade Bronzetti e i suoi 227 garibaldini, sterminati a Castel Morrone dai 4000 svizzeri di Von Mekel.
Bronzetti lo sapeva che li avrebbero fatti a pezzi, tutti, ma sapeva pure che se non avesse mantenuto la posizione fino al pomeriggio Von Mekel sarebbe piombato alle spalle di Bixio e addio controstoria.