Censure: il passato davanti

Censure: il passato davanti / Giambattista Tirelli

[In via sperimentale, Nazione Indiana mette a disposizione questo articolo anche come ebook, nei formati .epub e .mobi (file zip scaricabile qui)]

Al mio coraggioso Marco che onora le virtù civiche.

Svolgeremo alcune considerazioni motivate innanzitutto dalla volontà di comprendere se per le biblioteche pubbliche si pone, e in quali termini, una questione censura, la cui pericolosità potrebbe derivare dal suo svilupparsi nelle cose: da un’insufficiente comprensione della natura degli interessi che la ripropongono, nonché dalla mancata percezione dei possibili approdi cui potrebbero condurre le tecnologie della comunicazione istantanea globalizzata.

Proveremo ad attualizzare qualche categoria analitica ampiamente utilizzata dagli storici che si sono occupati di censura libraria. Speriamo che lo sforzo di mantenere agganciati, entro un continuo argomentativo, passato e presente e futuro, non offra il fianco a fondate critiche di anacronismo.

1. “Con le stesse sinistre operazioni”

Un apprezzabile e essenziale lavoro di Mario Infelise, dedicato a evidenziare ragioni e forme della plurisecolare censura libraria, si conclude avanzando considerazioni che possono ben fungere da sostanziale asse metodologico di altri ragionamenti tesi a mettere in luce tanto le variabili quanto le costanti politiche e culturali che hanno motivato e motivano l’intervento delle forze dominanti – del potere – nei processi di comunicazione sociale al fine di influire su dinamiche e esiti della formazione intellettuale e morale dei governati, o per dirlo altrimenti, dell’opinione pubblica e quindi sugli orientamenti collettivi cruciali per il consenso ai governanti (considerati non solo sotto il profilo istituzionale).

Va accolto l’invito a evitare valutazioni semplicistiche, e in ultima analisi cieche, ricorrenti a schemi interpretativi manichei, dove si confrontano in secca contrapposizione il bene e il male, l’oppressione e la libertà; dove si sottovalutano le questioni che fondano le legislazioni, o si dimenticano le sinergie del punire giuridicizzato col sorvegliare del conformismo sociale, delle intolleranze ideologiche (secolari e religiose) a danno delle minoranze ritenute devianti.1

Ben sappiamo che non è storicamente data governabilità equiparabile alla pura coercizione. Sempre si esprime, invece, tramite una miscela di costrizioni e persuasioni assai variamente dosate, condizionata dalla natura dei poteri vigenti e dalla loro articolazione più o meno complessa, nonché dall’efficacia delle autonome forze imperative. Non è riscontrabile censura che non sia affiancata da interventi positivi – compresi compromessi e studiate passività – a sostegno dell’ortodossia, o comunque utili a depotenziare gli antagonismi. Proprio così allora: “non è possibile definire una volta per tutte il quadro entro il quale la libertà di espressione può essere esercitata poiché esso tende a configurarsi in maniera sempre nuova, a seconda dell’evolversi delle tecnologie dell’informazione, in funzione dei sistemi istituzionali e di esigenze di carattere sociale”,2 dove le componenti economiche sono sempre presenti e rilevanti.

Sospettiamo tuttavia che cogliere come “spesso la repressione si sia manifestata in epoche [diverse e anche] lontane con le stesse sinistre operazioni”3 dia giustificato segno a non pochi sforzi storicizzanti, nel senso di necessitarne le conclusioni: a fronte di radicali cambiamenti, nel tempo, degli strumenti (i media) di diffusione delle idee registrate e quindi delle armi della battaglia culturale, gli aspiranti all’egemonia repressiva hanno messo in campo strategie (e tattiche conseguenti) sempre tese a realizzare un più o meno penetrante controllo, a seconda delle necessità richieste dalle circostanze, della disponibilità materiale e concettuale delle risorse informative rivolte a utilizzatori reali e potenziali. Insomma: che la critica ai novelli fautori della “licenza de’ superiori” possa con pertinenza ricorrere ad antiche obiezioni, forse è indizio di involuzioni conservatrici nella dimensione politico-sociale, più che di una pigrizia metodologica da ascrivere a chi le indaga.

Vorrà pur dire qualcosa – l’esempio s’impone – che sia del presente ravvicinato (A. D. 2011, era della rete) la minacciata iniziativa di privare le biblioteche pubbliche del glorioso territorio veneto delle pubblicazioni dovute ad autori sgraditi a personaggi dell’amministrazione locale.

La vicenda risulta tanto più preoccupante quanto più i suoi promotori sembra non ne colgano l’enormità, le implicazioni eversive rispetto alle logiche democratiche generali. Dalla stampa locale veneziana si apprende infatti che l’assessore regionale all’istruzione ribatte all’accusa di illiberalità rivendicando la liceità del proprio autonominarsi gestore della “censura morale”, e pure del dare “un indirizzo politico” a insegnanti e bibliotecari affinché non diffondano i libri di autori nemmeno giudicati per le loro opere, ma in ragione delle opinioni manifestate relativamente a un fatto politico-giudiziario specifico.4

L’imperdonabile colpa dei reprobi è la stessa contestata dai coscritti romani – era il 25 d.C. – a Cremuzio Cordo, ossia di non aver chiamato anch’essi bandito chi ritenuto per diffusa opinione tale.

Lo storico accadimento è proprio Mario Infelise a ricordarcelo,5 a proposito di origini della censura, citando il Tacito degli Annali, dove racconta che il nostalgico delle virtù repubblicane Cremuzio, certo della condanna, “uscì dal senato e si lasciò morire di fame. I senatori decretarono il rogo, per mano degli edili, dei suoi libri; ma sopravvissero, prima nascosti e poi divulgati.”6

Bisogna qui sottolineare che l’auspicio dei nostri contemporanei insipienti veneti (tridentini espurgatori ad honorem) sarebbe di rendere indisponibili ai cittadini documenti già accessibili, cioè eliminarli funzionalmente: ancora roghi di fatto.

Distruzione e occultamento dei libri sono azioni analoghe per scopo e risultato; almeno finché la segregazione è efficace e dà, a chi la mette in atto, l’accesso esclusivo ai supporti documentari in termini di consultazione e studio. Si pensi all’organizzazione delle biblioteche impiegate nella battaglia controriformista. Spesso previdero la realizzazione di ricetti segreti destinati a ospitare i libri proibiti ai fedeli, ma non ai custodi dell’ortodossia dottrinaria e perciò documentaria. L’obbiettivo, naturalmente, era il non impedirsi la conoscenza degli avversari necessaria a meglio contrastarli. Inscindibile conoscenza bibliografica e di contenuti.7

È evidente il prioritario scopo della censura applicata alla biblioteca: definire il profilo culturale – filosofico, scientifico, letterario – della raccolta e determinare così le condizioni della sua reale disponibilità (pubblicità).8

L’episodio che vede affannarsi mediocri protagonisti risulta paradigmatico della variegata fenomenologia censoria prima tratteggiata, nella quale sembra ineluttabile che gli intolleranti riescano “solo a provocare disonore a sé e notorietà alle loro vittime.”9

A noi immersi nei flussi gratuiti della comunicazione di massa è familiare l’effetto pubblicitario indotto dalle pressioni proibizioniste in generale, e in particolare da quelle esercitate in campo culturale. Per l’ostracismo librario la cosa è ampiamente provata e documentata (anche nelle carte dell’Inquisizione) per ogni tempo e luogo.

Ma a fronte delle dure repliche della realtà, le Chiese e gli Stati dovettero compiere una progressiva conversione strategica delle pratiche censorie e puntare più sulla risposta culturale che sulla non risolutiva azione repressiva preventiva. La Chiesa cattolica, in particolare, non lesinò i mezzi tipografici e le risorse intellettuali necessari a dispiegare in tale chiave una controffensiva che divenne permanente: inaugurata per contrastare la Riforma, si prolungò prima contro i Lumi e poi – ancora si manifesta – in antagonismo alle varie declinazioni della laicità (spesso tacciate di laicismo).

Le pretese di controllo culturale dichiarate dagli aspiranti censori padani presentano rozze caratteristiche da rimarcare: l’apparente inconsapevolezza intorno alla irrealizzabilità pratica dei limitati obiettivi prospettati – interdizione in una Provincia sola – dovuta innanzitutto alla molteplicità dei canali di comunicazione alternativi; la mancata promozione di buoni maestri. Si tratta, ci sembra, di eclatanti prove del fatto che si sentono impegnati non in una contesa per far prevalere autonome letture della realtà, ma solo a impedire l’espressione di quelle giudicate avverse; non nella controversia delle idee, ma nell’eliminazione dei termini di confronto.

Con la miltoniana Areopagitica possiamo ripetere che la loro proposta censoria non può “sottrarsi al novero dei tentativi inutili e vani. E chi avesse voglia di scherzare non potrebbe fare a meno di paragonarla alla trovata di quel bell’ingegno che pensò d’imprigionare le cornacchie chiudendo il cancello del parco”;10 eppoi ribadire che “la migliore e più ferma soppressione del falso ne è la confutazione.”11

Altri costruttori del consenso sociale, assai più avvertiti, sanno invece quali siano le leve su cui agire per stare nella partita per l’egemonia. Sì, non si può evitare di buttarla in politica.

Sia però prima concesso rammentare che la nemesi della censura brandita da chi fu censurato è di antica data e sempre palesa le incoerenze degli immemori delle ingiustizie patite. Ancora John Milton non sbagliava, a metà Seicento, a cogliere la gigantesca contraddizione insita nelle misure di controllo preventivo della stampa disposte dai riformati, nonostante rivendicasse orgogliosamente d’esserne parte. Il poeta denunciava, con precoce sensibilità, un sopruso non nuovo e destinato a perpetuarsi nei secoli, fino a manifestarsi negli autentici tradimenti consumati da sedicenti epigoni del pensiero liberaldemocratico, dunque anche sub specie Popolo della libertà.

2. Privatizzatori di risorse strategiche

Le grandi linee dell’effettuale e formale mutamento costituzionale cui ambisce la destra italiana, e persegue con aperta determinazione e qualche risultato, rivelano il disegno di spostare decisamente gli equilibri dei poteri a favore dell’esecutivo,12 appropriarsi dei principali spazi di iniziativa legislativa e piegare a domestiche priorità l’azione della magistratura.

Fulcro dell’autentico rivoluzionamento istituzionale è la frantumazione degli interessi per agevolare la preminenza delle alleanze che derivano potere dalla forza economica e dalla collocazione strategica nelle sedi dove si prendono le fondamentali decisioni sistemiche.

Sia a livello sociale che culturale lo scenario prevede il trionfo dei cosiddetti gruppi forti, rinvigoriti dal vantaggio di competere con concorrenti polverizzati (presupposto per evoluzioni oligopolistiche sovranazionali) e dall’estenuazione dall’immateriale condizionamento che promana dal comune sentire.

La governabilità del processo necessita di una riunificazione in larga parte ideologica della rappresentanza sociale, anche cementata da un individualismo alimentato dal rapporto diretto con l’individualità mitica di un capo.

L’accreditamento della specialità individuale del leader è fattore della lotta per il consenso, necessariamente combattuta con le armi di persuasione collettiva e in primo luogo con i media di massa, nei quali la televisione ha ruolo cruciale.

La linea scelta dalla destra governante, un ipotetico leniniano-mcluhaniano potrebbe riassumerla con la formula “Esecutivizzazione + mediasettizzazione”.

Non c’è populismo senza quota di popolo abbagliato. E ben si badi: l’estensione sufficiente di questo segmento sociale sedato è, almeno nelle cosiddette democrazie rappresentative, quella che consente la vittoria elettorale; dunque una frazione non necessariamente grande di cittadini, il cui peso può essere reso più determinante attraverso i meccanismi elettorali che premiano la maggioranza relativa.

Il dividere per imperare è tattica sempre produttiva e mentre cerca di strutturare assetti neocorporativi, parallelamente destruttura gli istituti del pubblico interesse per creare i presupposti oggettivi della loro delegittimazione.
La marginalizzazione del ruolo pubblico, in economia e nei processi educativi, attraverso la parcellizzazione degli interessi e della loro rappresentazione istituzionale, è la sostanza essenziale delle politiche di appropriazione privata della produzione sociale. Il loro inesorabile esito, ripetiamolo, è il trionfo dei soggetti forti, cioè un riassetto strutturale oligopolistico. Esempio clamoroso, leggibile quale esperimento di laboratorio, lo si è avuto con la riconversione postcomunista dell’ex Unione Sovietica. Lì l’inversione dell’economia si è appoggiata all’irresistibile azione dello Stato forgiato dal socialismo reale: interessi privati prima creati a tavolino e poi garantiti dalla cogenza della nuova legalità. In altri termini: utilizzare la forza autoritativa statale in direzione autolimitativa per aprire spazi ai processi di privativizzazione e in siffatto modo costituzionalizzarli a posteriori; fare acquisire a nuovi ceti, in una partita truccata, forza regolatrice (censoria) poco avversabile perché incorporata nei meccanismi di costruzione e espressione della rappresentanza politica. L’ordinario si fa costituzionale.

Anche i nostri privatizzatori di risorse strategiche sembra agiscano secondo logiche orientali,13 certo adeguandole a uno scenario dove complessa è l’articolazione dei poteri e degli interessi consolidati, e dove la statualità forte affidata al primato dell’esecutivo (declinazione della statualità di parte, privatizzata) è in costruzione ma fortemente contrastata: proprio strani questi predicatori liberali che razzolano come neogiacobini (autoinvestiti della rappresentanza integrale del popolo sovrano).14

La privatizzazione forzata – garantita dallo Stato – non può sopportare riaggregazioni intorno a un ampio “per sé” proteso a raggiungere lo sbocco politico generale. Di qui la perseveranza con cui la destra lavora a minare le basi socioculturali favorevoli alla formazione di siffatta sintesi, a inaridire dunque il terreno da cui potrebbe trarre alimento. Ecco la contrazione degli spazi d’iniziativa economica pubblica di qualche rilevanza; la balcanizzazione della scuola e dei riferimenti pedagogici, con il lento e inesorabile ridimensionamento di quella statale (infatti la si vuole piegare alle convenienze delle imprese – necessariamente di breve periodo, vista la rapidità del mutamento del globale quadro economico in cui competono – utilizzando motivazioni derisorie degli studi interdisciplinari d’impianto umanistico). Di qui l’attacco all’unità sindacale dei lavoratori imperniato sulla promozione della contrattazione individuale; la diminuzione fino all’insignificanza del contributo pubblico a sostegno ai progetti culturali senza finalità di lucro, e così marginalizzare le produzioni indipendenti; l’indebolimento fino allo stremo dei canali pubblici di informazione/autoformazione, fra i quali si situano le biblioteche. Non si ipotizzano un altro teatro, un diverso cinema, biblioteche riposizionate, bensì drastici rovesciamenti o liquidazioni di tutto quanto non sia collocabile in sorvegliate dinamiche economiciste.

L’opzione non prevede entrismi ma il più rapido smantellamento possibile degli istituti del pluralismo e di quelli concepiti per realizzare equilibri frutto del libero confronto che concretizza il contratto sociale.

Risultato prevedibile? La moltiplicazione dei conflitti d’interesse conseguente all’esasperata granulare polarizzazione socioculturale.

In tale contesto stanno le biblioteche pubbliche: scandalosamente gratuite, solo indirettamente produttive di ricchezza materiale, e di tutti per vocazione; intrinsecamente avversarie dei particolarismi, sia nella versione dei localismi identitari che degli specialismi strumentali; mezzi della cittadinanza consapevole.

Verso queste biblioteche la censura da attendersi dalle autorità neocorporative è la più radicale: il progressivo indebolimento fino alla consunzione.

Previsioni diverse potrebbero essere giustificate per il futuro di altre biblioteche: pubbliche solo per afferenza istituzionale e campo per ruoli innocui variamente interpretabili (compreso il ritorno a prioritarie funzioni celebrative del campanile).

Ma, qui giunti, è inevitabile interrogarci sul presente che viviamo, il quale suscita l’allarme di Giovanni Solimine fino a denunciare che “di questo passo si va inesorabilmente verso la chiusura.”15

I giochi non sono fatti, almeno finché la lotta politica generale resta aperta a sbocchi alternativi. Anche per questo non sono accettabili ignavie di chi si dice pensieroso per le sorti delle biblioteche pubbliche, né incoerenze teoriche e operative.

I bibliotecari presi dall’economia della biblioteca (come se fosse ambito di una indifferenziata economia della cultura), dalle mirabolanti virtù del mercato, quando non abbiano personali spinte all’innamoramento (comprese le ambizioni accademiche) temiamo non siano immuni dalla subalternità a un pensiero che ha fatto passi da gigante nel lavoro di disseminazione della sfiducia, del disprezzo anzi, verso ogni richiamo all’utilità non immediatamente monetizzabile.

Eppure la biblioteca pubblica non può lavorare che rivolgendosi a tutti i cittadini, rifacendosi cioè a un canone culturale nemmeno indirettamente specialistico (proprio non orientato all’economicismo) e dunque confermando anch’essa, alla luce dei cambiamenti e dei bisogni generali della società servita, l’apertura privilegiata a ricontestualizzate istanze umanistiche, ch’è come dire democratiche: “non per profitto”.16

Non riteniamo perciò una forzatura polemica interpretare come frutto censorio l’opacità delle biblioteche pubbliche derivata da gestioni non all’altezza della loro missione: pseudoservizi che si autoperpetuano prescindendo dal valore d’uso. Sicché ai bibliotecari incapaci è giustificato imputare la connivenza coi censori in stretta accezione, sotto forma di oggettiva compartecipazione al sistema che questi costruiscono.

Chi combatte le interdizioni può legittimamente appellarsi alla deontologia professionale dei bibliotecari, ma ancor più deve pretendere da essi che la interpretino come dovere di onorare il mestiere.17

Quando poi volgiamo l’attenzione ai titolari istituzionali delle biblioteche – non di unica casacca – non di rado li vediamo disinteressati al loro produttivo funzionamento, o addirittura scientemente impegnati a minarne la vitalità.
Si sa della cura rivolta dalle organizzazioni censorie al controllo della vita quotidiana, del loro insinuarsi nell’intimità dei fedeli/sudditi affinché interiorizzassero il timore di inesorabili punizioni per ogni cedimento a tentazioni trasgressive, fra le quali avevano posto significativo le private letture. E particolarmente perniciosa era ritenuta la lettura di autori contemporanei non allineati, giacché il loro intervenire sul presente li faceva percepire come incombenti pericoli per l’ordine costituito e la sua credibilità. Fu così per i philosophes e, guarda caso, lo è per Roberto Saviano in alcune verdi contrade.

Se non stupisce che i dominanti siano assai sensibili a tutto ciò che contribuisce a plasmare i connotati della contemporaneità di cui partecipano, allora ben si spiegano le coazioni a ripetere verificabili nelle interferenze di non isolati amministratori locali nella scelta dei periodici da mettere a disposizione del pubblico nelle biblioteche comunali, e innanzitutto dei quotidiani e dei settimanali. Operazioni immancabilmente aperte dall’invocazione di maggiore pluralismo politico-culturale e altrettanto immancabilmente sfocianti nel suo impoverimento, nella riduzione dell’ampiezza e della varietà dell’offerta informativa.

Deprimenti criteri selettivi del personale impiegato nelle biblioteche pubbliche e tagli dei finanziamenti destinati al loro funzionamento ordinario, non sono tipici dei soli momenti di crisi economica generale; si registrano anche in fasi di relativa prosperità e perlopiù inaugurati decurtando le somme destinate al rinnovamento delle raccolte (scelta coerente di una volontà tesa a prosciugare le fonti della ricchezza ideale).

3. “Se mi portano via i neuroni devo stare zitto?”

La recrudescenza delle iniziative censorie è sempre contestuale all’importanza e all’intensità dei movimenti di antagonismo politico e culturale, ma acuisce parallelamente alla crescita quantitativa e all’efficacia della diffusione degli strumenti di comunicazione che li fanno conoscere. Lo si è visto nella fase di spettacolare dilatazione della produzione libraria dovuta alla stampa tipografica, quando i ceti egemoni si sono trovati a fare i conti con la necessità di controllare gli ampi effetti liberatori dovuti alla nuova tecnologia (miracolosa) presentatasi come radicale rottura delle pratiche artigianali di copiatura manoscritta. Bisogna tuttavia rilevare un dato importante: mentre la sorveglianza della pur ristretta e disseminata produzione calligrafica era sostanzialmente impensabile, la nuova stampa seriale offriva possibilità di controllo dovute al fatto che richiedeva una struttura tecnica e una organizzazione difficilmente occultabili. Solo la moltiplicazione e la diffusione territoriale delle officine di stampa ricostituirono condizioni di obiettiva incontrollabilità della produzione libraria e della sua circolazione: controprova di quanto più la produzione è concentrata, tanto più il suo controllo è facilitato. E si è già potuto constatare che ciò vale anche per la rete, per “Internet bifronte” che “aiuta i dimostranti e difende i regimi”.18

C’è una dialettica centralizzazione produttiva/controllabilità cui è indispensabile porre attenzione. Ne è lontano esempio il rovesciamento funzionale conosciuto da famosissime opere d’informazione bibliografica.19

La circolazione dei documenti stampati è stata favorita anche dall’efficacia dei mezzi di segnalazione al pubblico, cioè dall’incisività informazionale dei repertori bibliografici: di quegli strumenti a lungo definiti “biblioteche”, a loro volta, proprio perché potenti disseminatori di notizie librarie, controllati dalle autorità custodi dell’ortodossia intellettuale e dei costumi.

La biblioteca repertorio quale ideale progetto della raccolta reale insinua riflessioni angoscianti se volgiamo lo sguardo al futuro del controllo delle memorie registrate, del processo documentario di produzione/circolazione/fruizione, alla luce delle vicende del passato.

Pensiamo al ribaltamento di finalità conosciuto dalla Bibliotheca universalis di Konrad Gesner: concepita dall’autore anche per aiutare “la costituzione di biblioteche pubbliche, ‘le sole – affermava – in grado di conservare i libri a lunghissima scadenza e, nello stesso tempo, a tenerli a portata di mano per l’uso immediato del lettore’”,20 venne cinicamente e proficuamente utilizzata dai censori cattolici. Nell’appassionato lavoro bibliografico gesneriano, pur ritenendolo eretico, essi trovarono, bell’e pronte, “già accuratamente raggruppate, grazie alla classificazione, le opere filosofiche e teologiche che si volevano inserire nell’Indice dei libri proibiti.”21 E non ci può confortare che a sua volta l’Index cattolico sia spesso servito a facilitare le ricerche (certo assai rischiose) operate dai riformati, oltre che dagli avidi di pagine rese ancor più desiderabili dai divieti di lettura totale o parziale.

L’inquietudine ci prende immaginando che a un attacco censorio incisivo possa essere esposto l’equivalente fisico della universale biblioteca repertorio, ed è accresciuta dall’ambivalente presa d’atto che le tecnologie digitali possono compattare il ciclo della documentalità al punto di far coincidere il momento della produzione dei contenuti con quello della pubblicazione.

Tommaso Giordano, in un lucido recente intervento, ha proposto agli interlocutori di riflettere sull’urgenza di dare soluzione ai problemi che la conservazione di lungo periodo delle memorie registrate deve affrontare passando dal trattamento dei documenti analogici a quello delle risorse digitali. Ha formulato un chiaro quesito: se e come non banali virtù, storicamente accertate, della tradizionale organizzazione conservativa sperimentata in contesto analogico dovranno/potranno venire salvaguardate in ambiente digitale (da considerare in tutta la sua enorme novità e non solo sotto il profilo tecnologico). Egli risponde positivamente e sostiene la necessità di continuare a impegnare, in puntuali pratiche cooperative, molteplici soggetti istituzionali e biblioteche di ogni tipologia, con la consapevole ambizione di “tutelare la diversità culturale e la libertà intellettuale”.22

Il vice direttore della Biblioteca dell’Istituto universitario europeo di Fiesole sembra convinto sia preferibile optare per assetti organizzativi distribuiti, e sia possibile farlo senza perdere i vantaggi che in termini di efficacia ed economie di scala possono venire dall’impiego delle tecnologie elettroniche.

Il quadro così abbozzato è tuttavia osservabile con ulteriori preoccupazioni se pensiamo alle implicazioni antropologico-culturali dei processi di conservazione delle memoria; se li riferiamo alla individuale capacità umana di memorizzare e mantenere l’accesso incondizionato al memorizzato, in altre parole di salvaguardare la sovranità su esso. Si tratta nientemeno dell’orizzonte ove ora si collocano le grandi questioni – queste sì permanenti – implicate dalla censura.

Mantengono formidabile forza euristica molti costrutti metaforici mcluhaniani, e rimane intatta l’attualità dell’invito a considerare che “possiamo, se vogliamo, riflettere sulle cose prima di produrle”23: a farlo in anticipo sui punti di svolta oltre i quali non è più possibile il recupero di margini sufficienti a compiere scelte correttive sostanziali, dove il “medium […] ha il potere di imporre agli incauti i propri presupposti.”24 Infatti la strada su cui già siamo incamminati punta a una meta interpretabile come altro arrivo di tappa sul lungo percorso di esternalizzazione tecnologica della sensorialità umana: amputazione, per sostituirli, di organi non più in grado di svolgere in modo adeguato, per dimensione e velocità, le funzioni richieste dalla dinamica sociale.

Ancora una volta si tratta di surrogare facoltà intellettuali della specie. Di nuovo l’operazione prevede amputazioni degli organi di senso per convertirli in aggeggi (ora elettronici) con ingigantite capacità di stoccaggio e elaborazione. Ma la dolorosità dell’intervento reclama l’anestesia preventiva: narcosi che intorpidisca il corpo e con esso la coscienza di una perdita.

L’astuzia insita nel processo sta nell’avallare l’assunto che non si tratterebbe di vere sottrazioni, giacché quei prolungamenti sarebbero sempre a libera disposizione. Però è lecito sospettare non sia così: avremo a che fare con un miraggio procurato, paragonabile alla sindrome nota in neurologia come dell’arto fantasma.

Resteranno attive nelle teste le aree una volta dedite al controllo delle parti corporee protesizzate. Lì, allucinate, continueranno a percepire segnali in realtà dovuti a un’assenza. Proprio la condizione “di chi è ipnotizzato dal suo proprio essere, amputato ed estensivamente assunto in una nuova forma tecnica.”25 L’effetto è dovuto al marchingegno che ricorre a “una massiva riorganizzazione delle aree topografiche cerebrali [dove] le zone che controllano le parti del corpo rimaste intatte”26 integrano , entro un nuovo equilibrio, quelle ormai senza compiti informativi.

Nulla sembra cambiato, ma tutto lo è: si è ridisegnato “contemporaneamente l’intero campo dei sensi”27. Come nella testa di Ahab risarcito con un arto d’avorio, ma il cui “corpo dilaniato e l’anima squarciata sanguinarono l’uno nell’altra e, confondendosi, lo fecero impazzire.”28

È ormai qui il tempo del sistema nervoso centrale fuori di noi, dell’intera memoria elaborata posta (migrata/amputata) sul web e da riattivare/rielaborare in streaming. E l’avvento dell’ebook ci sta dentro.

Il dibattito mantenuto nell’orizzonte della rivoluzione materiale del libro è puro diversivo, proprio in senso militare: scaramuccia per distogliere l’attenzione dal fronte dove si combattono le battaglie decisive con in palio la presa sull’encefalo del mondo.

Le armi spianate, per lo più fatte di rassicurante plastica, non sono però caricate a salve. Nei conflitti avviati, o che incombono, non è certo l’acciaio che serve. Si manovrano attrezzi variamente siglati, tipo quanto “concepito per vivere esclusivamente su internet e per dominare [?] la grande nuvola di codici binari che sovrasta le nostre vite moderne”29: cirri digitali di tessuto cerebrale.

Quel che s’intravede ha poco da spartire coi timori di Ray Bradbury: non le memorie registrate messe al rogo, ma tolte quelle psichiche. E non si tratta di cronaca marziana.

Induce qualche turbamento che proprio nella fase in cui sono venuti meno gli ostacoli materiali per la conservazione ravvicinata di immense risorse documentarie coordinate – impregiudicata la più ampia ed efficiente condivisione – si ipotizzi di spostare e concentrare le archiviazioni, e i software di elaborazione, in remoto, alla possibile mercé di pochi depositari sovrani (magari uno, onnipotente).

Forse non è peregrina la messa in guardia affinché non ci si debba trovare, stupiti e inermi, a onorare una resa nemmeno trattata; a constatare di avere consegnato sensi e senso “agli interessi commerciali [dominanti], alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo […] i nostri occhi, le orecchie e i nervi [e scoprire che] in realtà non abbiamo più diritti.”30

La chiara visione storica di quali sono stati i fattori organizzativi e istituzionali che hanno messo a rischio mortale la disponibilità delle fonti indispensabili all’esercizio e allo sviluppo della libertà di studio e ricerca e del diritto all’informazione attivo e passivo – e al contrario di quali ne hanno favorito la difesa e la crescita – dovrebbe fungere da bussola anche per le scelte strategiche di ristrutturazione del sistema di produzione, conservazione e trasmissione del sapere raccolto con tecnologie digitali.

Crediamo allora sia indispensabile puntare all’assetto multipolare, nel quale sedi operative e fonti trattate abbiano autorità e gradi di ridondanza sufficienti a minimizzare le possibilità di interdizione (proibire) o manipolazione (espurgare) a opera di chiunque. Il suo obiettivo centrale non può che essere l’effettivo libero uso individuale e sociale delle risorse documentarie, a cominciare da quelle cumulate nella lunga era della registrazione analogica.
I problemi pratici da affrontare sono certo complessi, ma la loro soluzione non può ricorrere a scorciatoie tecnicistiche, e ancor meno prescindere da un rigoroso principio direttivo democratico.

Segnaliamo la necessità di uscire dall’equivoco mascherato dal disinvolto uso della formula “possesso/accesso” per sottolineare l’essenzialità del secondo elemento della coppia rispetto alla presunta scarsa rilevanza funzionale del primo; come se la piena disponibilità di una risorsa fosse del tutto indipendente dalla sua effettiva titolarità. No, non è mai stato così. La sottovalutazione è forse stata coperta anche dall’equivoco linguistico, giacché l’accesso non è altro che possesso. La distinzione gravida di conseguenze è tra proprietà e possesso. Alla proprietà si connette il diritto di completa disponibilità delle cose.

L’organizzazione policentrica delle condizioni di conservazione e recupero delle memorie (ovviamente pensiamo alle raccolte pubbliche) dovrebbe basarsi sul mantenimento integrale della sovranità d’uso derivante dalla proprietà. Per le biblioteche le implicazioni di ciò sono manifeste, innanzitutto rispetto agli accordi con partner commerciali per la digitalizzazione e la messa a disposizione delle preesistenze analogiche, e nondimeno per la stesura degli articolati contrattuali d’acquisizione della disponibilità non effimera della produzione documentaria corrente.

Nella contesa lanciata dai tagliatori di teste necessita tenere “conto della sterminata capacità che l’uomo ha di ipnotizzare se stesso fino a perdere la consapevolezza dell’esistente sfida [e] che, per sopravvivere, la forza di volontà è necessaria quanto l’intelligenza”31, [p.76] giacché questa non si dispiegherà senza che quella l’incalzi.

È il caso – ecco l’eco gramsciana – di appellarci a quell’intelligenza avvertita che “oggi […] abbiamo anche bisogno della volontà di essere straordinariamente informati e consapevoli”32 su come e dove si vuole montare la ghigliottina a cui intendono trascinarci.

Ma pure possiamo farci dare voce da un infuriato e lungimirante artista e ripetere con lui: “Ce l’ho con l’energia nera che ci sta sommergendo, con la perdita del pensiero, dell’anima, della consapevolezza. Con i direttori di riviste patinate che si credono giornalisti, con l’omicidio plurimo della cultura, con la delinquenza intellettuale. Perché se mi portano via i risparmi da una banca posso incazzarmi, ma se mi portano via i neuroni devo stare zitto?”33

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[1] Si veda, a riguardo di approcci problematizzanti: La censura nel secolo dei Lumi : una visione internazionale / a cura di Edoardo Tortarolo ; saggi di Patrizia Delpiano … [et al.]. – Torino : UTET libreria, 2011.

[2] I libri proibiti : da Gutenberg all’Encyclopedie / Mario Infelise. – Roma : Laterza, 1999, p. 123.

[3] Ibidem.

[4] Non diamo ulteriore conto della questione (peraltro assai nota grazie all’eco avuta anche sulla stampa nazionale) per l’ovvio motivo che non può avere qui, da nessun punto di vista, oggettiva importanza. Chi volesse documentarsi veda, nel sito dell’Associazione italiana biblioteche, all’URL: <http://www.aib.it/aib/cen/stampa/c1101.htm> (ultima consultazione 01.05.2011).

[5] I libri proibiti / M. Infelise, cit., p. 3. Anche Luciano Canfora ha in più d’una occasione ricordato l’episodio: Studi di storia della storiografia romana. – Bari : Edipuglia, 1993, p. 221-239 — Libro e libertà. – Roma ; Bari : Laterza, 1994, p. 64-65.

[6] Riscontrabile in qualunque ed. di: Annali / Cornelio Tacito, Libro IV, 34-35.

[7] Sulla “necessità di conoscere gli scritti dei loro avversari per poterne dare confutazioni argomentate” (p. 41), si veda: Vicende censorie in Inghilterra tra ‘500 e ‘600 / Luigi Balsamo, p. 31-52, in: La censura libraria nell’ Europa del secolo XVI : convegno internazionale di studi, Cividale del Friuli, 9-10 novembre 1995 / a cura di Ugo Rozzo. – Udine : Forum, 1997.

[8] A proposito di condizioni di disponibilità appaiono esemplari gli ostacoli frapposti dalla Chiesa romana controriformista alla stampa e alla circolazione della Bibbia volgarizzata. Sono illuminanti le ricerche dedicate a questo tema da Gigliola Fragnito: La Bibbia al rogo : la censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura : 1471-1605. – Bologna : Il mulino, 1997 — Proibito capire : la Chiesa e il volgare nella prima età moderna. – Bologna : Il mulino, 2005.

[9] Annali / Tacito, cit., ibidem.

[10] Rimandiamo a una delle recenti riproposizioni del celeberrimo testo miltoniano: Areopagitica : discorso per la libertà di stampa / John Milton ; introduzione, traduzione, note e apparati di Mariano Gatti e Hilary Gatti. – Milano : Bompiani, 2002, p. 35.

[11] Ivi, p. 85.

[12] Bisognerà pur dire che non è mancata la corrività dello schieramento opposto, promotore di una profonda revisione dell’Amministrazione locale nel segno dell’ampliamento non bilanciato dei poteri dei sindaci e dei presidenti delle giunte regionali, e dei loro assessori. L’operazione, nobilitata dal richiamo alla “governabilità”, ha dato i frutti che necessariamente produce ogni deriva dirigista che sente come inutile zavorra le procedure del controllo democratico formale e sostanziale. Gli inconsulti furori censori (o apologetici) di qualunque “governatore”, o sindaco, o assessore, sarebbero impensabili entro un quadro normativo dove i loro poteri personali fossero del tutto compatibili con i princìpi di garanzia.

[13] È stato indagato con approccio eccessivamente psicologistico l’evidente trasporto berlusconiano verso le figure di conclamati oligarchi e per Vladimir Putin in primo luogo.

[14] “Come giustamente è stato notato, l’intenzione del contrappeso del giudizio di costituzionalità non è di natura giacobina, ma moderata, in quanto i giacobini non ammettevano contrappesi all’esercizio del potere legislativo e spostavano tutto il discorso sul principio assoluto e non contrastabile del popolo sovrano.” Così a p. 32 di: Costituzionalizzare la censura / Antonio Trampus, p. 3-41, in : La censura nel secolo dei Lumi / a cura di E. Tortarolo, cit.

[15] L’Italia che legge / Giovanni Solimine. – Roma ; Bari : Laterza, 2010, p. 51.

[16] L’allusione, forse troppo scontata, evoca: Non per profitto : perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica / Martha C. Nussbaum. – Bologna : Il mulino, 2011.

[17] Cfr.: La censura in biblioteca : ma non c’è l’etica del bibliotecario? / Fausto Rosa. – AIB Notizie, 2 (2010), p. 4-5. Disponibile anche all’URL: <http://www.aib.it/aib/editoria/n22/0202.htm3> (ultima consultazione 01.05.2011).

[18] La citazione riproduce il titolo dell’articolo di Andreas Whittam-Smith, giornalista del quotidiano inglese The Indipendent, ripreso su L’unità del 7 febbraio 2011.

[19] La nostra mente va alla valenza esemplare dei fondamentali studi dedicati da Luigi Balsamo all’opera di Konrad Gesner e alle opposte fatiche normalizzatrici del gesuita Antonio Possevino. Riviamo ad alcuni suoi magistrali lavori: La bibliografia : storia di una tradizione. – Firenze : Sansoni, 1984 — Il canone bibliografico di Konrad Gesner e il concetto di biblioteca pubblica nel Cinquecento, p. 77-95, in: Studi di biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi / a cura di Giorgio De Gregori e Maria Valenti con la collaborazione di Giovanna Merola. – Roma : Associazione italiana biblioteche, 1976 — Antonio Possevino S. I. bibliografo della Controriforma e diffusione della sua opera in area anglicana. – Firenze : Olschki, 2006.

[20] La bibliografia / L. Balsamo, cit., p. 29.

[21] Ivi, p. 37. L’autore sottolinea l’imprevisto uso fatto delle Pandectae a fini selettivi.

[22] L’occasione è stata il convegno “L’Italia delle biblioteche. Scommettendo sul futuro nel 150º anniversario dell’unità nazionale”, Milano, Palazzo delle Stelline, 3-4 marzo 2011. Citiamo dal fascicoletto lì distribuito, riportante la versione provvisoria dell’intervento: Dalla memoria cartacea alla memoria digitale : verso nuovi modelli di riferimento / Tommaso Giordano, p. 7.

[23] Gli strumenti del comunicare / Marshall McLuhan. – Milano : Garzanti, 1977, p. 54.

[24] Ivi, p. 20.

[25] Ivi, p. 15.

[26] Lo spavento per l’arto fantasma / Bianca Fossati, p 18-20, in: Occhio clinico : rivista di pratica medica, 2 (feb. 2008), p. 20. Raggiungibile all’URL <http://www.occhioclinico.it/cms/files/oc080218.pdf> (ultima consultazione 01.05.2011). Nel contributo si ricorda anche la sofferenza del capitano Ahab.

[27] Gli strumenti del comunicare / M. McLuhan, cit., p. 51.

[28] Moby Dick / Herman Melville ; introduzione di Vito Amoruso ; traduzione di Lara Fantoni. – Roma : La repubblica, 2004, p. 242.

[29] Così all’URL <http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/12/27/news/prova_cr-48-10547730/index.html?ref=search> (ultima consultazione 01.05.2011), sotto la firma di Paolo Pontoniere, a proposito del Cr-48 di Google.

[30] Gli strumenti del comunicare / M. McLuhan, cit., p. 74. Qui sia permesso respingere quella che abbiamo inteso come intimazione alla concretezza. Alludiamo al passaggio conclusivo dell’ interessante articolo: Ebook, DRM e biblioteche : una mappa sintetica sulle prospettive del “digital lending” per libri e altri media in Italia / Giulio Blasi, in: Bibliotime, 3 (nov. 2010). Il contributo è raggiungibile all’URL <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-xiii-3/blasi.htm> (ultima consultazione 01.05.2011). Non sappiamo se anche il sociologo canadese soffrisse di “tic ‘crociano italico’”: propensione all’indugio del filosofare invece che fare, a occuparsi “di storia della tecnologia” piuttosto che innovare. Chissà. Azzardiamo tuttavia che la sua tensione a capire postulasse tutt’altro che l’immobilità. Ci piace pensare che esortasse, semplicemente, a valutare la pericolosità di ogni nuovismo acritico (tautologia, ovviamente).

[31] Gli strumenti del comunicare / M. McLuhan, cit., p. 76.

[32] Ibidem.

[33] Così Alessandro Bergonzoni nella veramente bella intervista rilasciata a Sara Chiappori e apparsa, il 5 marzo 2011, nelle pagine milanesi del quotidiano La Repubblica. Titolo della conversazione: “Non sono soltanto un comico ma uno che ricerca l’invisibile”. Leggibile all’URL: <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/03/05/non-sono-soltanto-un-comico-ma-uno.html> (ultima consultazione 01.05.2011).

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