Memorandum su Genova
di Marco Rovelli
[Dieci anni fa ero a Genova, e quei giorni sono stati uno spartiacque decisivo, generazionale. Non sono più mancato, a ogni luglio, in piazza Alimonda. Ogni volta era come rinnovare un patto, un impegno comune. Lo è ancora]
I. 19 /20 luglio 2001
E’ giovedì sera, sotto il tendone della piazza. Fuori diluvia, sono lievemente e felicemente ubriaco, e in questa calca ci sto bene. E’ come se fossimo insieme davvero. E per esserlo davvero basta saperlo. Prima sono rotolato sugli scogli mentre pisciavo alla luna, scogli appuntiti sotto la mia carne liquida, e neanche un graffio, forse perché le mie ossa sono più appuntite delle rocce. Allora continuo a bere, e a cantare.
Ritorno nella piazza alle sei del pomeriggio di venerdì. ‘Hanno ammazzato un ragazzo’ mi dice una compagna, ‘gli hanno sparato’. Ci guardiamo, e lo sguardo non vede più nulla. Continua a piangere. Vado verso gli scogli. Per vergogna, per necessità di un posto. Perché il pianto si fermi, ma sento uno strappo nella carne, avrei potuto esserci io al suo posto, e stavolta non è solo un modo di dire. Quel pianto mi sta ancora addosso, oggi che sono passati anni da quel venti luglio. Quando hanno ucciso mio fratello.
II. 27 gennaio, giorno della Memoria. Un sogno: Genova che affiora
Oggi c’è solo Memoria al lavoro, una grande Macchina memoriale che, come dev’essere nell’Ultimo giorno, ricapitola il senso, il dispiegarsi del vissuto. La Macchina ha lavorato nel sonno, nel mio sonno pomeridiano, e ha ricapitolato i miei morti.
Quella da cui mi sono svegliato era una sorta di processione sul marciapiede di binario morto di una ferrovia, con candele e cartelli, aperta dall’icona criminale di tutto questo, Bush. Era lui ad aprire quella sorta di processione. La processione sul binario morto era accompagnata da un canto che metteva Bush sotto accusa, quasi dovesse espiare – senza che lui, però, lo sapesse. Lui guidava il corteo come fa il Capo, ma non si avvedeva che si trattasse di un rito espiatorio. Quel canto che risuonava tutt’intorno era una domanda: Che cosa avete fatto, così ripeteva incessantemente, Che cosa avete fatto. Era il Canto dei deportati– il suo senso più profondo. Io piangevo, a testa china, in silenzio, in solitudine. Procedendo sul marciapiede di binario morto di una ferrovia.
Poi, camminando, scontravo il volto di un carabiniere che stava ai margini del binario e controllava l’ordine della processione. Allora il mio sguardo si è sdoppiato. Rivivevo il passato, e di riviverlo ero consapevole. Rivivevo il passato, e mi guardavo da fuori mentre lo rivivevo. Quel passato aveva un nome: Genova. Dopo aver scontrato quel volto toccava scappare, e nello scappare gridavo, accusavo. Era, anche quella, una forma di domanda accusatoria. Avrei potuto non scappare, anche di questo ero consapevole: lo scontro era stato del tutto fortuito, infatti. Ma ciò che è fortuito è anche necessario, e così mi toccava rivivere il passato, e scappare, e gridare Bastardi. Mi allontanavo dalla processione, scappavo in avanti. E lì, da solo, un drappello di carabinieri veniva verso di me con spranghe e pugni di ferro.
Allora, nel cuore della rivisitazione, quella al mio lager, quello di Genova del luglio 2001, mi svegliavo, evitando il cuore di quel dolore. Che, sapevo, aveva un nome: Carlo – che era me.
Il pianto è nascosto, il senso è nascosto. Ed è tutto qui: viene alla luce, spezzando il circolo, strappando il copione, nel canto che purifica e rinnova.
III. 20 luglio, ogni anno
Non sono più mancato a Genova, in quei giorni di luglio. In piazza Carlo Giuliani (già piazza Alimonda) si celebra il patto di non dimenticare. Non dimenticare non significa ricordare. Significa donare, donarsi. Lo si sente nello sguardo, uno sguardo comune, quasi circolare, un filo rosso che lega l’una all’altra le pupille. Lo si sente nel cerchio davanti alla cancellata incancellabile e resistente a ogni riverniciatura. Lo si sente nell’applauso di piazza Alimonda delle 17,27. Quell’applauso, nell’ora che moriva Carlo. Il dito che ci tocca tutti, e spreme la carne, e l’occhio. I tre bambini che danzano al centro dell’applauso, come saltassero fuori dallo schiocco delle mani. Haidi sfregata dai nostri baci. Qui stiamo ancora, in quest’anello incantatore, e quest’incanto non è illusione, ma una danza circolare che scuote il corpo, come la dea su Shiva dormiente, e il fiore di loto sono quei bambini che sanno, dall’alto della loro insipienza, il tremore del nostro contagio, sanno che il nostro non è un ricordo, ma un dono, un dono che noi tutti – noi quelli vivi e noi quelli morti – facciamo a noi stessi. E qui non c’è me.
IV. L’aria di Genova
Ci sono fratture del tempo che non possono essere ricomposte. Non c’è gesso o ferro che tenga, per ricombinare ciò che è stato scardinato. E in quei giorni di luglio molti mondi sono stati scardinati. C’è un prima Genova e un dopo Genova, nel tempo e nella storia di molti. Eppure si direbbe che in quei giorni, a Genova, volessimo gettare all’aria il mondo. Ma quel mondo era già rovesciato, ed era già in aria. In aria, allora, gettavamo le nostre parole che volevano farlo tornare coi piedi per terra, quel mondo. Le lanciavamo come boomerang, e come bombe che facessero esplodere i castelli in aria che immobilizzano i popoli. Castelli circondati da zone rosse di silenzio e da fossati pieni di sabbie mobili, i castelli della finanza e dei rapaci divenuti déi, costruiti su segrete che scendono in profondità abissali. Volevamo farli esplodere quei castelli in aria, quell’immagine che rovescia il mondo come un’illusione ottica e ce lo fa credere vero, giorno dopo giorno. Volevamo farli esplodere quei castelli in aria, che recintano la vita e ne fanno moneta, e l’aria stessa è attinenza del castello, sua emanazione che inaliamo come i gas in quei giorni a Genova. Volevamo farli esplodere quei castelli in aria, che riempiono il mondo di lupi e di paura e fanno credere che solo in essi è la salvezza. Volevamo farli esplodere quei castelli in aria, così imponenti da soffocare la vista e irretire il desiderio, un desiderio che non libera ma asservisce.
Vogliamo farli esplodere, anche se non siamo certi del frutto delle nostre azioni. Ma siamo certi che cosa sarà del mondo senza le nostre azioni.
[Pubblicato nel libro Per sempre ragazzo, a cura di Paola Staccioli, ed. Tropea]
[…] del frutto delle nostre azioni. Ma siamo certi che cosa sarà del mondo senza le nostre azioni. (Marco Rovelli, Nazione Indiana) Questo articolo è stato pubblicato in frammenti, l'altra faccia della luna, voci. Includi tra i […]