Note Book : Silvia Tessitore
di
Silvia Tessitore 1
Insomma, è nato. S’intitola Eleven in September. E’ il mio quinto libro. A circa otto anni dal quarto, un altro libro in cui si parlava di una torre atterrata – una piccola torre medioevale, abbracciata a una costola degli Uffizi – e di vittime innocenti. Era la torre dei Georgofili, abbattuta a Firenze dal tritolo mafioso. Tutti e quattro i libri precedenti avevano un editore, e ben due di questi – gli ultimi due – sono stati pubblicati da Zona, la “mia” casa editrice. Questo quinto libro, invece, non ha un editore: è disponibile solo come self-publishing (su ilmiolibro.it, o su ordinazione presso le Feltrinelli), ogni singola copia viene stampata per chi la acquista, questo è il succo. Non avrà una promozione “tradizionale”, non spedirò copie in giro per recensioni. Provo a spiegarvi perché.
Ho sempre nutrito una forma di acuta compassione, quasi preconcetta, per quei personaggi – direttori di collana o editori essi stessi – che “si sono pubblicati” i propri libri, eppure per un verso o per l’altro è quel che è successo anche a me. A mia discolpa posso solo dire che in nessuno dei due casi ho ceduto alla lusinga della vanità: ho sofferto duramente il mio piccolo grande “conflitto d’interessi”, come ben sa chi mi conosce, e ho lavorato con passione e impegno, dando agli altri (com’è mio costume) sempre più di quanto abbia mai offerto a me stessa. Non ho goduto di particolari privilegi, anzi: i miei due libri han venduto meno di altri, sono stati presentati meno di altri, non sono stati promossi più degli altri.
Orbene: in questo nostro ambiente – il mondo dell’editoria – si dice che spesso uno diventi editore perché è uno scrittore mancato, così come dei produttori cinematografici e discografici si dice siano attori e musicisti mancati (ogni mondo ha le sue perfidie). Io spero di cuore di non rientrare in questa supposta casistica, smentita per altro da illustri eccezioni, anche perché in coscienza ho sempre fatto tutt’e due le cose: temo però che (nell’ambiente medesimo) il fatto ch’io scriva da ben prima di fare l’editore non mi affranchi dal sospetto (piuttosto l’avvalori) d’essere anch’io uno di quei patetici casi umani. Rispondo a quel sospetto come rispondo di solito a quanti mi chiedono che lavoro io faccia: sono di mestiere giornalista, ma da 14 anni faccio l’editore.
Eleven in September è stato sottoposto a varie case editrici, almeno una dozzina (e dico almeno), piccole e grandi, tutte di rispetto, e non è stato accettato. In soli due casi ho ricevuto a) una lettera con la classica formula sbrigativa, b) un’immotivata espressione di superbia e cattiva educazione. Nessuno mi ha chiesto soldi, e ho apprezzato il buon gusto. Almeno una decina sono stati invece i commenti (scritti) approfonditi e circostanziati in maniera assai puntuale, segno che il lavoro è stato letto, che ha suscitato interesse, e di questo non posso che rallegrarmi. Ma le discordanze tra i rispettivi punti di vista erano veramente paradossali: non ve n’erano due coincidenti – come si dice – neanche a pagarli. Data la mia esperienza, e quel po’ di mestiere, avevo tutta la disponibilità a rivedere il mio lavoro a partire da un giusto rilievo mossomi da un occhio esterno ed esperto, quanto o più del mio: ma quale?
Mi ci sono arrovellata non poco.
Quando mi resi conto che addivenire a una sintesi di quei giudizi così variegati e discordanti era praticamente impossibile, iniziai a pormi un’altra domanda: a quali criteri si riferivano i miei colleghi nel valutare il mio lavoro? Quali che fossero, e tutti rispettabili, giungevano a una conclusione unanime: il lavoro così non va bene, non è “pubblicabile”. E non per difetto di lingua o d’espressione: per alcuni “c’ero troppo io”, per altri “io c’ero troppo poco”, per alcuni c’era “troppa” New York, per altri ce n’era “troppo poca”, qualcuno si chiedeva se violare l’embargo dei novelist americani, che ancora non avevano elaborato il lutto, fosse la cosa giusta da fare (in segno di rispetto, beninteso). Insomma, era come girare attorno a un prisma sfaccettato, dieci centrimetri più in là e il colore della luce era del tutto diverso. Il trionfo della soggettività più pura. Che io rispetto, beninteso, a prescindere. I commenti più lusinghieri e incoraggianti mi sono arrivati da alcuni amici scrittori, ai quali sono molto grata specie perché a questi scrittori non sono legata da vincoli professionali.
All’epoca del mio primo viaggio a New York, nel 2005, il magazine del New York Times di domenica 11 settembre diceva che negli Stati Uniti occuparsi da un punto di vista narrativo dell’attacco alle Twin Towers veniva ancora giudicato despicable or quaint, addirittura spregevole o eccentrico. Benché per tutto il decennio precedente, dalla caduta del muro di Berlino in avanti, terrorismo e spionaggio fossero stati pane quotidiano (in senso proprio) per la narrativa popolare americana. Sull’11 settembre il silenzio l’ha rotto il cinema, l’hanno rotto gli undici registi che realizzarono i corti di 11 settembre 2001 – non casualmente corti, per pudore, ma anche per esaltare la poesia che una narrazione più estesa probabilmente non avrebbe saputo esprimere (vedi infatti il successivo film di Oliver Stone: in cessione al patetismo più deteriore). I narratori sono arrivati solo dopo. Insomma, ce n’è voluto per elaborare, e forse non s’è finito.
Di questo lavoro io so che l’ho ri-digerito da cima a fondo tante di quelle volte che è tempo di dirsi addio: questa esperienza (e parlo del mio rapporto con l’11 settembre) la porto ancora addosso, e devo separarmene. Eleven in September è un po’ cambiato, nel tempo, ma non nei fondamentali: ho deciso di pubblicarlo come self-publishing per mantenere un profilo del tutto autonomo rispetto a questo mondo dell’editoria italiana e alle sue logiche, ormai scoperte e usurate, alle quali noi piccoli editori facciamo ancora finta di opporre la nostra buona fede.
Ma qui non c’è più buona fede che tenga.
Ormai questo mondo, quello dell’editoria, mi appartiene quanto a un operaio può appartenere la fabbrica per cui lavora. Ognuno di noi, piccoli editori di progetto, in questi ultimi dieci-quindici anni ha provato a dare il meglio di sé a un mercato che credevamo si allargasse per accoglierci, e che invece cresceva e si evolveva per espellerci, escluderci: noi siamo le scorie residuali di un mondo che vive di ben altri e alti fatturati, occupiamo gli spazi di ricetto di magazzini gonfi di chi questo mercato l’ha saturato e lo ha spaccato, rompiamo le balle ai distributori perché siamo costretti a correre per non cadere, ma non abbiamo potere: non possiamo comprare gli spazi in libreria, non possiamo comprare gli spazi in vetrina, non possiamo comprare le recensioni, tutto questo è in vendita (e non da oggi), e noi non possiamo. Oggi più che mai, non possiamo.
Eppure c’è chi non fa alcuna differenza tra editore e editore, tra me e Mondadori (per fare un esempio volutamente sballato, ma che tragicamente corrisponde a verità), e chiede a chiunque gli stessi standard, le stesse prestazioni, come fossimo tutti uguali. Per noi piccoli, per dire, l’abolizione delle agevolazioni tariffarie per i pieghi di libro è stata una mazzata, a Mondadori – che si fa le leggi ad aziendam e così ruba miliardi alle tasche di tutti, pure le mie – gliene frega veramente poco. Anzi, come mi chiese l’impiegata dell’ufficio postale la mattina che scoprii mio malgrado che le agevolazioni, senza preavviso alcuno, erano state cancellate: “Signora, ma ancora non l’ha capito che in questo Paese ne deve campare uno solo e tutti gli altri devono morire?”. Ovviamente, non mi auguro né penso che la signora avesse ragione, ma c’è andata certo molto vicino. In termini di libertà e di mercato: che sono poi più o meno la stessa cosa, perché come si dice, senza soldi non si cantano messe. Il mercato editoriale italiano è corrotto ormai alla radice: la grande distribuzione è stata la grande illusione di un banchetto allargato, del quale ci toccano solo briciole. E via via che la crisi cresce, diminuiscono anche le briciole.
In ogni caso, io continuerò a fare l’editore. La mia piccola battaglia non finisce certo qui. Ma come autore posso affrancarmi sia dal mio personale conflitto d’interessi che dalle insanabili divergenze degli editor, dal servilismo ch’è sempre necessario per guadagnarsi una recensione o una segnalazione, dalle mode e dagli stilemi del momento, attraverso questa invenzione che è il self-publishing. Mi affido agli amici, mi affido alla rete, all’interesse autentico di chi questo libro lo comprerà. Punto. Non è né una sfida né una provocazione: è piuttosto una presa di posizione, e solo in quanto tale accetto di spiegarla.
Tornando all’11 settembre, il decennale è un anniversario troppo importante, e io ho un debito, verso tutti quelli che mi hanno consegnato le proprie storie perché non fossero dimenticate. Verso la mia stessa esperienza. Era questo il momento per pubblicare questo libro. Ma non vedo perché dovrei infilarlo nel tritacarne del “sistema”. Ho bisogno dell’aiuto di tutti: ma è sempre di questo che ha bisogno un autore, quindi: aiutatemi a diffondere Eleven in September. Prima di tutto, COMPRATELO.
Online qui su ilmiolibro , dove – insieme alla scheda – è disponibile anche un ampio assaggio del testo. C’è di buono che il sito mi segnala addirittura i nomi degli acquirenti: il massimo, posso avere un rapporto one-to-one con ogni lettore. Oppure ordinatelo presso una qualunque libreria Feltrinelli: ho pagato (48 euro: la cifra è alla mia portata) per attivare questo canale di vendita, e pago una lauta percentuale per ogni libro venduto, ma l’ho fatto per i tanti amici che conosco e che non comprano online. Vi anticipo che gli eventuali “proventi” delle vendite saranno investiti in un nuovo viaggio, in un nuovo racconto. E che commenti, giudizi, pareri e quant’altro su Eleven in September saranno pubblicati sul mio blog http://silviatessitore.blogspot.com. Grazie a tutti, in anticipo e a prescindere.
NOTE- A Silvia e al suo libro, faccio i miei più sentiti auguri. effeffe 🡅
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da questo articolo ho capito che:
i libri sono degradati al rango di merci e come tali trattati. Devono cioè rispondere a un modello standard concepito per vendere il maggior numero di copie.
i consigli che vengono dati alla “scrittrice” non attengono allla qualità della scrittura (questo paese si sa è un paee di amici,partenti, corporazioni, e un amico si guarderebbe bene dal dare un giudizio critico leale e sincero a un’amica) ma cercano di valkutare il giusto dosaggio degli ingredienti che possono decidere il destino mercantile di un libro, a prescindere dalla sua qualità, per l’appunto.
I piccoli editori, o perlomeno, gran parte dei piccoli editori non hanno niente da invidiare ai grandi editori, negli aspetti negativi si intende. Vorrebbero più vetrine, piu’ spazio, più critici compiacenti, più possibilità di crescita quantitativa. Nessuno rivendica la qualità delle proprie produzioni, o l’impegno critico rigoroso, ispirato esclusivamente a criteri di qualità, nella scelta e selezione dei libri.
Della qualità di un libro non importa un bel niente a nessuno.
Infine Mondadori.
da tempo non compro più libri di autori italiani pubblicati dalle case editrici del nostro amato sultano, con buona pace di tutti coloro che anche da questo blog hanno promesso ponti, opposizioni dall’interno ed altre amenità.
Considero un atto quasi rivoluzionario, legegre quei libri nelle biblioteche o su copie pirata.
se devo essere sincero, avrei preferito che tu silvia, avessi esortato a LEGGERE IL TUO LIBRO, cercando di convincerci della sua qualità
invece a quanto pare l’unica cosa che ti interessa è che il tuo libro SI COMPRI.
madre de dios !!!!!!!!!!!!
Conosco Silvia e il suo progetto sull’11 settembre. So che è un progetto che nasce da una passione lontana. Non sono esperto di letteratura. Lo comprerò e non mi scandalizzo del fatto che Silvia inviti a comprarlo. Se vogliamo sperimentare alternative alla grande distribuzione e alle sue norme, dobbiamo anche trovare il modo di vivere del nostro lavoro. Silvia non vivrà dei proventi della vendita di questo libro. Se riuscisse a farlo ne sarei contento. Significherebbe che anche altri potrebbero farlo e nuove strade si aprirebbe per la lettura. Non sarebbe il distributore adecidere se vale o no la pena di venderlo, ma forse l’esercizio critico di chi legge. Poi ci sta pure il consiglio di un amico, ma dichiarato e non sussurrato all’orecchio dell’editore dal giornalista influente. In bocca al lupo, Silvia. Anche per noi.
ineccepibile, il discorso di Silvia.
solo che, mentre l’impiegata della “sua” Posta, le ha detto: “Signora, ma ancora non l’ha capito che in questo Paese ne deve campare uno solo e tutti gli altri devono morire?”, a me, l’ultima volta che ho spedito un libro, la “mia” impiegata m’ha guardato, io l’ho guardata, le ho detto tutto: “fatto?”, come per dire *che c’è?*, e lei m’ha fatto: “lo vuoi un gratta e vinci?”. ecco, un gratta e vinci, in Posta, ora, ti chiedono se vuoi un gratta e vinci.
e-
Questo pezzo fa venire molti nodi al pettine, altroché. In questi tempi di dibattiti sull’editoria “di qualità”, la storia della totale discordanza dei punti di vista degli editori interpellati dimostra quantomeno la difficoltà di stabilire dei criteri condivisi. La strada del selfpublishing non è certo facile, ma se Silvia crede nel suo libro riuscirà in qualche modo a farlo camminare sulle proprie gambe…
@Enpi: ma a te è andata benone! A me, oltre a volermi rifilare il gratta & vinci, ogni volta cercano pure di convincermi a prendere la loro sim per il cellulare… :-)
Io muoio dalla curiosità per il libro – lo compro lo leggo e poi vi dico … Lo recensisco! Promesso!
auguri silvia!
mi hai convinto, Silvia, lo compro.
in bocca al lupo per la tua avventura.
fabrizio
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