Note per un diario parigino
da Chiunque cerca chiunque 1
Les trois Mailletz
Nono capitolo
di
Francesco Forlani
Regina, reginella, quanti passi al tuo castello? Sotto i miei piedi, poco fa nel piazzale qui a Notre Dame, c’era il medaglione che indica il punto zero delle strade di Francia. A partire da quello vengono indicate le distanze delle città sulle cartes francesi. Il mio punto zero è Via G.M. Bosco, 49, Caserta. In questo momento sono a 1586 km dal punto zero delle mie strade.
Dieci passi da elefante. E nemmeno oggi si mangia. Veramente.
Quindici passi da formica. Ce ne sono un migliaio che corrono sotto la mia panchina fingendo indifferenza alle briciole di flan che cadranno.
Cinque passi da serpente. Il rosone poggia sulla capa dei re e le cape dei turisti lo fissano come ipnotizzati.
Dieci passi da gallina. Pollo e patate me li sogno la notte. Avevo letto da qualche parte in Cioran che i poveri mangiano cose dolci. Quello che per i ricchi è un’opzione, il dolce dopo il salato, per i clochard è una necessità. Così capisci i denti guasti. Ma cazzo perché non comprare una fottuta baguette jambon beurre, piuttosto che un Flan. Ma vuoi mettere tu che una fettona gialla che sembra polenta e impacchettata indorata ti tappa la bocca dello stomaco a vita, e non la fa parlare, altro che!
Un passo da gambero. Bisogna tornare sui propri passi.
Devo andare di fronte, attraversare il ponte che mi aspetta Marie la greca. Marie è un’amica di Ioanna e Dimitri. Sono stati loro a presentarmela e abitano nello stesso palazzo in Rue des Anglais. Marie ha qualcosa della Irene Papas. Lo sguardo intenso, i seni grandi e la bocca di una spagnola. Ioanna invece sa tutto della Cvetaeva. Così mi racconta ogni cosa, compreso il suo amore per Rilke. Compreso, che non teneva una lira nemmeno lei e mandava le lettere ai suoi corrispondenti gettandole nei treni diretti nelle città in cui vivevano. Qualcuno le raccoglieva nel corridoio e le recapitava. altre andavano perdute.
La Rue des Anglais è alle spalle della Shakespeare and Company Rue Bûcherie, quinto arrondissement. Ci sta il nipote di Whitman che è talmente vecchio che non può essere nipote, perché minimo minimo è nonno, e allora lo prendi proprio per Whitman anche se non ci somiglia proprio al ritratto che ci sta fuori sulle bancarelle di fronte alla Senna e che recita testualmente : Étranger qui passe tu ne sais pas avec quel désir ardent je te regarde! Di fronte alla prefecture de Police. E infatti ce la vedo bene la scritta sull’uniforme blu notte dei flic, “straniero che passi tu non sai con quale nervoso ardente ti sto a guardare. “ Mi hanno rinnovato la carta di soggiorno solo perché avevo un mezzo contratto. appuntamento tra sei mesi. E senza la Carte non ci lavori mica a Parigi. Però ti leggi Cioran, Hemingway, Cvetaeva, Modigliani che tutti facevano la fame, Miller che alla Shakespeare era di casa, e faceva la fame pure lui, e Anaïs Nin, e pure i compagni antifascisti facevano la fame negli anni trenta, perfino Pertini che per risparmiare andava alla mensa degli anarchici. Baudelaire ci faceva la fame, Rimbaud non ne parliamo e insomma quasi quasi ti dici; vuoi vedere che si diventa famosi solo se hai sofferto nella tua vita almeno una volta la fame? E poi anche oggi, mo, che mi mangio sto cazzo di flan invece del solito pain aux raisins, tutti quegli zuccheri mi hanno fatto pensare a Cioran mica a Giuvann ‘o purtusare di San Nicola la Strada?
Per andare da Marie passo per lo square Viviani. Ci passo sempre da quando mia madre non è morta. Che stava morendo e i miei fratelli non me lo volevano mica dire che stava morendo, però stava male, e l’avevo capito, e così quando il primogenito mi ha detto di stare pronto sono venuto qui, dal mio albero a pregare, a modo mio si intende. E a modo mio il cielo plumbeo della città aveva accolto la mia preghiera. Ai piedi dell’albero più vecchio della città, dalle parti fossilizzate dal tempo come da un Vesuvio – in fondo la piazza si chiamava Viviani no? – un piccione m’aveva cagato su una spalla e poco dopo mi telefonarono i fratelli per dire che mamma stava bene, ora. Per andare da Marie devo passare per la Rue Dante, Poco dopo, in Rue Cujas ci sta Accattone, il cinema dove proiettano dalla morte del poeta tutti i suoi film. Come se Parigi assolvesse il compito di levare la croce ai poveri cristi. Per ogni povero una leggenda, da santi bevitori o santi ospitali come quello a cui è dedicata la chiesa che fa ombra all’albero, quella di St Julien, le pauvre, appunto. Flaubert gli ha persino dedicato un racconto che finisce così: Et voilà l’histoire de saint Julien l’Hospitalier, telle à peu près qu’on la trouve, sur un vitrail d’église, dans mon pays.
Il vecchio albero è una finta Acacia. In inglese si chiama black locust, Akazienbaum in tedesco, azz.! Robinia in italiano. Io a Marie la chiamo Robinia mia e lei ride ogni volta. Marie è tosta e guadagna un sacco di soldi come barista al Trois Mailletz. E’ molto rispettata dal padrone ma pure dai cantanti che al piano eseguono arie della lirica in mezzo a oceaniche folle di bevitori di birra e super alcolici. Al piano di sotto, nella cave va in onda lo spettacolo ma per quello si deve pagare. Al Trois Mailletz ci hanno suonato nel dopoguerra i miglioi jazzisti del novecento.
Sidney Bechet, Mezz Mezzrow, Bud Powell, Bill Coleman, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Count Basie et son grand orchestre, Louis Armstrong. Ella Fitzgerald, Billie Holliday, ma soprattutto lui, Coltrane. Mo ci fanno world music lì sotto. Marie quando mi vede arrivare prima mi tiene il broncio, come a dire, cazzo è ora di arrivare? poi, che gli avventori già cercano di capire come fare a restituirle il buon umore, fa un grande sorriso come a dire che il dispiacere del ritardo non dovrà mai superare per intensità il piacere del ritrovarsi. Saggezza da greca antica e moderna. Marie dice che non sta bene che io sia così povero e intanto mi versa da bere che lei può farlo, gratis. – Te la devono dare una borsa, d’ufficio! Ci sono degli emeriti pirla che campano con le borse e tu no, c’est con, quoi!
Le prime parole di Argot le imparo da lei. Però quando incontro qualcuno che mi dice che lo pagano per fare le cose che ama penso sempre che così dovrebbe essere per principio, e infatti così è in generale ma non per me. Poi si fa mezzanotte e Marie Robinia mi da le chiavi. Salgo nel suo studiolo che ha un bagno, un cucinino e un letto immenso in cui cado come se avessi macinato chilometri di universo, 1586 per andare e lo stesso a tornare, in nome della madre ritrovata. Verso le tre, tre e mezza Marie rientra ma non la sento chiudere la porta. Sento invece il suo respiro in mezzo alle gambe, e qualsiasi cosa accada ogni notte dalle tre e mezza assolvo da tre settimane a un compito di cui non farei mai a meno. che è quello di guardare estasiato Marie prenderlo in bocca, soffiarci su richiudendo le labbra come una vulva, e mischiar la lingua all’inguine e sudare saliva alla maniera di una medusa perduta chissà in quali mari. Poi facciamo l’amore e così mi ricongiungo a quella parte di me che fino ad allora era un rapito organismo vivente all’infuori di me. Penso alla lotta di classe. Ché ogni volta che un povero scopa è come se s’inculasse un ricco!. Del resto le gioie del capitale non riposano sulle terga dei poveri cristi?
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acacia robinia… forse anche gaggìa (no, niente: ricordi)
– ché ogni volta che un povero scopa è come se s’inculasse un ricco! –
questa qui – e il pezzo – stamattina, mi hanno messo di buonumore e mi è scappato di commentare!
Bellissimo. Trovo particolarmente talentuosa la scrittura di Francesco. Mi sembra che il libro sia grande come se Parigi fosse la città dell’ispirazione dello scrittore esiliato in una città dove l’immaginazione deve crescere per fare dimenticare come il punto d’infanzia è allontanato, a un volo di farfalla, direi.
Quando ero sotto cielo grigio, mi accadeva di osservare una mappa, di sognare i nomi della Campania, di chiudere gli occhi, di vedere animare il mare, il mio mare, di pensare a luogo solare, agli alberi della mia infanzia. Non avevo eletto il mio albero, come l’ha fatto Francesco, nessuno albero mi rammentava quelli della mia infanzia.
Ma avevo eletto una parte del cielo per sognare.
Amo nel testo di Francesco l’ambiente artistico, bohême, erotico del ricordo, il suo gioco con la sincerità, la leggenda degli grandi scrittori chi hanno fatto di Parigi la città delle anime della penna. Parigi vista da un napoletano ritrova la sua umanità… Perché Francesco, come napoletano, si porta con lui l’intelligenza, il ridere, la leggerezza finta, la malinconia nacosta, il desiderio di vivere, in somma felice.
grazie a entrambe
(mi è scappato pure a me di commentare)
effeffe