ADIEU, VENISE
Visitare il Padiglione Italia della 54a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia organizzato da Vittorio Sgarbi è un’esperienza abissale, nel senso che ci conduce nell’abisso della situazione intellettuale e artistica contemporanea, di cui l’Italia è un’avanguardia ormai riconosciuta in tutto il mondo.
L’idea di Vittorio Sgarbi è stata quella di invitare più di 250 uomini e donne di cultura a scegliere un’opera di un artista italiano vivente e poi di riunire, o meglio, di ammassare in un unico spazio, le Corderie dell’Arsenale, tutte le opere, intitolando l’esposizione L’arte non è cosa nostra.
Credo che, se stiamo al titolo e alla disposizione della mostra, i due intenti maggiori del curatore siano stati in primo luogo affermare che l’arte non è qualcosa che appartiene alla mafia dei critici d’arte, dei galleristi e dei collezionisti, ma a tutti gli uomini e donne di buona cultura e di buona volontà, e, in secondo luogo, che le opere d’arte, private di un giudizio critico in grado di definire una qualsiasi gerarchia di valori, possono essere collocate alla rinfusa, come qualsiasi altra merce, in un deposito.
La giustificazione del curatore alla morale del deposito è stata, riassumendo, la seguente: che cos’è la vita se non caos? E l’arte non è forse l’espressione del caos della vita? E che cosa fanno quei mafiosi di curatori, critici d’arte e galleristi se non mortificare la vitalità degli artisti innalzando loro dei peana in quella specie di cimiteri che sono diventati i musei? E poi chi ha detto che abbiamo bisogno che qualcuno ci ponga degli aut-aut? La sola morale della vita contro la morte è la morale del deposito, la morale, ha dichiarato Vittorio Sgarbi, dell’«et-et», che è la morale della nostra babele linguistica e culturale – dell’integrazione e non dell’esclusione – del nostro mondo post-comunista e post-industriale che ha abbattuto tutte le frontiere del sesso, del’età, della religione, dei costumi, della storia, delle civiltà… Insomma, la morale del Padiglione Italia della 54a Esposizione Internazionale della Biennale di Venezia è la morale della vita e del caos al tempo della morte della nozione di opera, che per sua stessa natura è un cosmo o, almeno, un tentativo di dare una forma al caos della vita.
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La morale del deposito mi sembra celebrare lo status quo. Perciò non è affatto provocatoria, ma retorica. Non è affatto “reazionaria”. Non reagisce al presente, ma lo assume come paradigma: è la morale del presente assoluto. Infatti, che cosa c’è oggi di più culturalmente paradigmatico di un enorme spazio – vedi database, vedi enciclopedia digitale –, dove si affastellano centinaia e centinaia di quadri e installazioni in modo tale che nessuna opera singola possa essere distinta, separata dalle altre e diventare così degna di essere contemplata?
Siamo al paradosso: un celebre critico e storico dell’arte, il curatore del Padiglione Italia Vittorio Sgarbi, organizza una mostra al fine di sottrarla alla critica (krinein significa discernere, separare e non giudicare) e perciò alla Storia. Come possiamo dare valore a un’opera se non la collochiamo in una continuità storica? E come possiamo collocare un’opera in una continuità storica se azzeriamo la nostra capacità critica di separarla dal flusso di tutte le altre, se non riusciamo a distinguere l’insignificante dall’essenziale?
A meno che – ed è ciò che il curatore insinua allestendo il suo Padiglione Italia della Biennale come un grande deposito – lo storico e il critico d’arte abbiano già da tempo abbandonato la loro funzione di custodi del discernimento e si siano arresi all’ipertrofia della produzione artistica, all’arte ridotta a décor, a ornamento dell’essere, a tappezzeria dello sguardo turistico, a sfondo pubblicitario o a location per un’umanità di comparse che pagano il biglietto soltanto per rivedersi, una volta tornate a casa, come attori e attrici protagonisti sui loro grandi schermi al plasma.
A meno che a nessuno, neppure ai critici e agli storici dell’arte, e in particolare al curatore del Padiglione Italia della Biennale, importi più un fico secco dell’arte. Perché un’opera d’arte è qualcosa di complesso e denso. E lo è in funzione anche dei suoi confini. L’opera è una potenza di potenze che, grazie alla sua concentrazione in uno spazio specifico, sprigiona un’immensa energia. Ora questa energia è diversa da quella di un semplice atto, uno di quegli innumerevoli gesti che compiamo perfino senza accorgercene. L’opera è un atto potente di potenzialità, allo stesso tempo deliberato e oscuro, che viene dal passato e chiede futuro. Ora, come si può accogliere la potente potenzialità di un’opera, la sua richiesta di passato e di futuro, se la morale che presiede alla sua esposizione è quella del deposito, della mancanza di confini, dell’ipertrofia e del presente assoluto?
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Se poi con pazienza si scorre la lista degli uomini e delle donne di cultura invitati da Vittorio Sgarbi a indicare un artista da esporre al Padiglione Italia, si possono fare incontri ed incroci assai interessanti. E, prima ancora, ci si può addirittura sorprendere.
Ad esempio, ci si può chiedere: che ci fanno nella lista Walter Siti, Bernardo Bertolucci, Ferzan Ozpetek, Joseph Zoderer, Mimmo Calopresti, Pasquale Pozzessere, Vincenzo Consolo, Antonio Moresco, Furio Colombo, Toni Servillo, Dario Fo, Tiziano Scarpa Tahar Ben Jelloun, Jean Clair, Sebastiano Vassalli, tutti scrittori, giornalisti, registi, attori, filosofi, poeti, uomini di teatro, studiosi e critici d’arte (ma i critici d’arte non erano stati banditi dal curatore Vittorio Sgarbi per pericolo di collusioni mafiose con gli artisti? E che ci fa nella lista lo stesso Vittorio Sgarbi? Si è autoinvitato nelle vesti di anchorman?) da sempre molto polemici, per non dire ostili, rispetto alla cosiddetta gestione politica della cultura italiana degli ultimi vent’anni e da questa spesso ingiustamente emarginati, combattuti o addirittura vessati? Perché hanno accettato l’invito? Non potevano dire di no?
Comprendo meglio il sì di Tullio de Mauro, di Roman Vlad, di Franco Loi, di Emanuele Severino, di Ermanno Olmi, di Claudio Magris, di Andrea Zanzotto, di Ennio Morricone, di Raffaele La Capria, di Giorgio Pressburger, di Tonino Guerra e di altri probi viri che per età e prestigio acquisito immagino siano tirati per la giacca ogni giorno da ogni genere di individui. La questua degli opportunisti deve essere pressante, fastidiosa, a volte insopportabile. Qualche cedimento è umano.
Del tutto naturale invece, secondo la prospettiva ecumenica e inclusiva dell’ «et-et» e non dell’aut-aut proposta dal curatore Vittorio Sgarbi, la presenza nella lista di personaggi del gossip come Vladimir Luxuria e Marina Ripa di Meana, di esponenti della musica popolare come Morgan, Battiato e Lucio Dalla, di comici come Luciana Littizzetto e Gene Gnocchi, di presentatori televisivi come Fabio Fazio, e di autorevoli esponenti del partito di governo come Sandro Bondi, già Ministro della Cultura e poeta in grado di rinnovare in solitudine la sepolta tradizione della poesia bucolica italiana.
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Mentre mi aggiravo nel Padiglione ho pensato a Baudelaire – qualcuno a cui cerco di rimanere aggrappato allorché mi sforzo di leggere l’arte contemporanea non come un atollo disperso nell’oceano della storia dell’arte senza legami con i secoli precedenti – e ai suoi resoconti al direttore della «Revue Française» negli anni Cinquanta del XIX secolo. Per lui l’artista si era già all’epoca colpevolmente trasformato in un «adolescente viziato» per il quale l’immaginazione, invece di essere concepita come «regina delle facoltà», era diventata un «pericolo e una fatica», mentre lo studio del passato addirittura «tempo perso». Molte opere del Padiglione Italia mi hanno ricordato anche la celebre frase di Joseph Beuys, proferita alla fine degli anni Sessanta del XX secolo, tanto vuota quanto profetica: «Ogni uomo è un artista; tutto ciò che fate è arte». Mi sono chiesto: di quale modernità vogliamo essere figli? Di quella di Baudelaire o di quella di Beuys?
Quello che è certo è che grazie a Beuys & Company oggi, agli inizi del XXI secolo, la morale del deposito e del presente assoluto è diventata la morale dell’arte e il mestiere dell’artista sempre più prossimo a quello del broker.
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Tuttavia, in apparente contraddizione con la tradizione beuysiana del «basta vivere e sarete artisti», girovagando nel bazar Italia della Biennale, ho riscontrato la presenza minacciosa di un altro genere di artisti, non qualificabili come «adolescenti viziati», ma piuttosto come adulti anacronistici, molto simili a coloro che Baudelaire avrebbe definito «copisti del dizionario», dove il dizionario è il mondo espunto da ogni circostanza, da ogni transitorietà. In altre parole: artisti per i quali il presente è «tempo perso».
M’imbatto in un pastello di Monica Ferrando, dove una ragazza ricoperta da una tunica bianca sembra stia cogliendo qualcosa, forse un fiore. L’uso dei pastelli mi suggerisce la volontà da parte dell’artista di lasciarsi alle spalle decenni e forse un secolo di esperimenti tecnici su materiali i più disparati, che ne so, mi vengono in mente i “sacchi” di Burri, o le “sabbie” di Carmassi. Bene, ma da qualcuno che desidera ricominciare dai fondamenti, pretendo almeno che l’anatomia del corpo umano abbia il suo peso e che il paesaggio non sia un misto di affettazione impressionistica e illustrazione fiabesca… Mi ricorda, in bruttissima copia, alcuni pastelli di Ruggero Savinio. Poi leggo che Monica Ferrando ha tratto il pastello da un libro composto a quattro mani con Giorgio Agamben – che l’ha scelta come artista per il Padiglione Italia – intitolato La ragazza indicibile. La ragazza in questione è Kore-Persefone: storia di rapimenti, stupri, discese all’Ade, ritorni sulla Terra, e soprattutto di misteri, quelli Eleusini. Forse Monica Ferrando, attraverso la sua opera, ha voluto riportare il suo e il nostro sguardo non solo sull’archetipo femminile, ma su ciò che gli iniziati vedevano e tacevano. Tuttavia, qui non ci si trova alle soglie di Eleusi, ma sumus in Arcadia. Dopo qualche minuto, vedo un paio di quadri di Silvio Lacasella, quei suoi pronunciamenti paesaggistici da artista appartato ed epigonale, che devono a Guccione quasi tutto, compreso quel minimo di scatto meditativo. Chi ha scelto Lacasella? Vado a vedere. Interessante e sorprendente! Due poeti molto stimati, Magrelli e Bandini, amano lo stesso pittore. Mi chiedo: può un ottimo poeta amare un artista mediocre? Sì, perché le storie delle arti seguono ritmi diversi e spesso sono soggette a discrasie temporali che non permettono all’inquilino del primo piano di salire ogni giorno dall’inquilino del secondo per chiedergli come sta, né a quello del secondo di bussare con insistenza alla porta di quello del terzo per sapere se ha letto il suo ultimo libro, senza contare che quello del terzo può essere sordo e perciò non sentire nulla, così quando aprirà la porta per scendere giù, l’inquilino del secondo piano se ne sarà già andato al lavoro, etc.
Infine mi blocco davanti a un quadro di Paolo Giorgi, Il risveglio della primavera. Il pittore, in sintonia sia con la stanchezza generale rispetto alle difficili vie dell’arte modernista, sia con il rifiuto dell’eterna trouvaille di molta parte dell’arte contemporanea, sia infine, forse aderendo a suo modo all’ennesima dichiarazione di ritorno alla realtà (l’eterno realismo italiano!) da parte di qualche gruppo di trentenni e quarantenni alla ricerca di rispettabilità, presenta uno stupefacente interno con al centro una ragazza dallo sguardo malinconico distesa su un sofà con tanto di carta da parati al muro e un quadro in cui si vede un panorama di Roma dalla terrazza del Pincio. Di che si tratta? Della mancata lezione di Ugo Attardi che approda all’iconografia illustrativa di Gigino Falcone? Di un frutto di art pompier maturato fuori tempo massimo? O di un’opera concepibile soltanto nel tempo perduto e ovattato di un salotto romano, mentre all’esterno le proteste di migliaia di giovani malinconici hanno trasformato Piazza Venezia in un suburbio di Londra o Los Angeles?
Una sorpresa ulteriore la ricevo appena leggo che Giorgi è stato scelto per il Padiglione Italia sia da Corrado Augias che da Gianni Letta, come dire dalla sinistra e dalla destra italiane perbene e colte. Forse mi sbaglio, ma, tra un salotto e un altro, televisivo o con vista sul Pincio, questo mi sembra un segno inequivocabile di un’ormai definitiva assenza di confini anche in politica.
La destra e la sinistra benpensante frequentano gli stessi salotti e amano gli stessi artisti. D’altra parte, destra e sinistra, in Italia come nel resto d’Europa, una volta al potere, hanno fatto a gara negli ultimi venti anni a occuparsi di arte contemporanea, soprattutto da quando hanno scoperto che di fronte all’opinione pubblica tale propaganda permetteva loro di vestire i panni delle persone di spirito, aperte, moderne (anche nel XXI secolo «il faut être absolument moderne»). Poco importa se nel frattempo le poche Scuole d’arte cadevano a pezzi e i programmi di insegnamento della storia dell’arte si facevano sempre più risibili.
Resto fedele a Josip Brodskji: l’estetica viene prima di tutto, dell’economia, dell’etica, della politica. Non posso aspettarmi nulla di nuovo – nessuna creazione politica, nessuna vera critica al liberalismo finanziario che distrugge il mondo, nessuna riflessione contro l’ideologia progressista che pensa di salvarlo affrancando la tecnica da ogni misura umana – da chi condivide un gusto estetico così anacronisticamente adulto o così viziato dalla mancanza di immaginazione.
Se l’artista non è mai fino in fondo figlio del proprio tempo, lo è in ragione del fatto che la sua opera è un concentrato di potenzialità immaginative che vengono dal passato e che chiedono futuro. Se l’opera ci dice qualcosa del presente è in virtù proprio di questa duplice apertura.
Ma a Venezia, al Padiglione Italia della 54a esposizione internazionale della Biennale d’arte, non c’è futuro e neppure passato. Qui uomini e donne di cultura si aggirano nel deposito del presente assoluto.
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fra l’incontrollato “et-et” e l’irriflesso “sumus in Arcadia” si resta, appunto, da “assolutamente moderni” e come già aveva capito Kundera, inconsapevoli “alleati dei propri becchini”.
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la capacità che ha Rizzante di centrare e non lasciare scampo ai problemi è qui a mio avviso impressionante. (ri)trovo parole che ora saranno anche le mie, essendolo già state. e ringrazio,
f.t.
Mai come in quest’epoca l’arte è stata asservita al mercato. E questo vale in generale.
Nel nostro paese poi ci ha il compito di promuovere e gestire i fondi (ormai pochissimi se non inesistenti) per la cultuta viene scelto sulla base di criteri medievali: assoluto servilismo verso il capo-sultano, qualità tanto piu’ presente in coloro che brillano per mediocrità, incompetenza e propensione alla cupidigia.
E’ vero, l’unico criterio che deve giuidare la vita artistica è quello estetico ed è l’unico criterio con il quale si può e si deve giudicare un’opera d’arte.
Ma in questo caso, gli scrittori che hanno accettato questa umiliazione sono esecreabili anche da un punto di vista etico.
Non si può essere corresponsabili, come cittadini, di questo scempio culturale. Non ci sono scuse, non ci si può indignare e poi partecipare a questo schifo.
colpito e affondato (il curatore)
colpito e curato (il lettore)
effeffe
Com’è possibile che questo articolo sia riuscito nel prodigio di suscitarmi, dal niente!, una simpatia umana verso il beffardo Vittorio Sgarbi troppo filogovernativo per essere provocatore la metà di quello che vanta?
Per non cadere subito nella sudicia scappatoia del “i gusti sono gusti” provo a circostanziare: a me sta più che bene che un critico che ama Baudelaire cerchi il coraggio dell’artista nel Padiglione della Biennale della Venezia – tanto vale criticare il festival di Sanremo perché non è il meglio della musica contemporanea – però fare la rassegna col nasino raggrinzato col malincuore alla Morte-a-Venezia…
Gl’avrà fatto schifo tanta roba, dal sito al curatore alla lista dei nominatori alla tavola del buffet, ma, per quella ironia della sorte che si prende gioco anche delle peggiori catastrofi, un artista che sia solo uno, un quadretto, un graffio sul muro, gli sarà piaciuto NONOSTANTE il resto, no? no.
Io, per decenza, dovrei tacere del tutto: a Venezia non ci sono stato, di arte contemporanea quanto mai me ne potrò intendere?, neanche capisco perché Severino è uno dei probi per questioni di prestigio anagrafico e Dario Fo no, ch’eppure di arte ha detto il suo; e in fondo dall’arte cartellinata dal mercato, e da quella promossa dallo Stato in particolare, non che mi aspetto chissà quali ribaltamenti.
Però l’altezzosità di questo articolo, che non trasmette la legittima protesta di un sapere ingiustamente screditato, ma la stizzosa nausea di un visitatore pregiudiziale, mette voglia di voler del bene a quell’arte che già quando da sé si definisce contemporenea si sta incollando il bollino “da-consumare-entro”.
Si consoli, il critico, poteva andare peggio: la mostra avrebbe potuto piacergli!
Un saluto!,
Antonio Coda
http://accademia-inaffidabili.blogspot.com/2011/09/massimo-rizzante-esterna-contro-il.html
il pad ita è brutto come la morte, brutte le opere della vanessa nazionale, di guccione, di paladino, di kounnellis, lo stesso paolini, pistoletto da vomito ma non solo, brutta l’opera di franz west -leone d’oro- e brutti molti pad internazionali, quello tedesco, inglese e bla bla, in breve una delle edizioni peggiori, fors’anche peggio di quella curata da arturo scharz. Di certo c’è che anche ilpad ita di beatrice-buscaroli era abominevole.
Caro Emanuele…
Emanuele è un mio amico pittore, che ci mette delle ore per cesellare un occhio(per “donargli la luce che merita”) con il suo pennello, e che non entrerà mai alla Biennale di Venezia. Perfortuna, mi vien da dire.
L’unico dettaglio che non condivido è che Gianni Letta faccia parte della destra italiana “perbene e colta”, nessuno di questi due aggettivi gli si attaglia, perbenismo di pura facciata e misera cultura giornalistica sono il massimo che gli concederei.
Sul resto concordo completamente.
Effeffe, sarebbe bello riuscire a pubblicare questo testo anche sul blog Tq. Scritto in modo esemplare, è molto interessante anche per la nostra riflessione intorno al tema dei padri e dei figli, per esempio laddove dice: “Se l’artista non è mai fino in fondo figlio del proprio tempo, lo è in ragione del fatto che la sua opera è un concentrato di potenzialità immaginative che vengono dal passato e che chiedono futuro…”
“Dopo qualche minuto, vedo un paio di quadri di Silvio Lacasella, quei suoi pronunciamenti paesaggistici da artista appartato ed epigonale, che devono a Guccione quasi tutto, compreso quel minimo di scatto meditativo. Chi ha scelto Lacasella? Vado a vedere. Interessante e sorprendente! Due poeti molto stimati, Magrelli e Bandini, amano lo stesso pittore. Mi chiedo: può un ottimo poeta amare un artista mediocre? ”
non che a me piaccia Lacasella, ma cosa sai FARE TU di migliore?
Di scrivere quattro frasi in italiano scolastico sono capaci tutti….
per il resto, da che mondo vieni? la Biennale è sempre stata un’esposizione del tizio indicato da quella galleria, del caio nipote di quel politico, del sempronio figlio della nobildonna
questa volta sgarbi ha indicato nomi e cognomi o doveva incaricare qualche curatorello da liceo che imparate a memoria quattro paginette dell’Argan crede di poter dare indicazioni agli altri…
Purtroppo oggi scrivere “critica” è una pratica di autoerotismo, purtroppo molto diffusa
toh che tu fossi un liceale, c’avevo preso! parolaio e saccente…
Massimo RIZZANTE: Maturità classica (1982) e Laurea in Lettere Moderne all’Università di Urbino (1986/1987). Nel 1989 vince una borsa post-lauream per l’estero presso l’Università di Leuven, in Belgio, dove studia letterature comparate, teoria della ricezione, storia e teoria della traduzione. Segue un corso di teoria del romanzo presso l’Università di Nimega, in Olanda. Nel corso del 1990 partecipa ai seminari di Letterature Comparate all’Università di Klagenfurt. Nel 1990 vince un concorso nazionale del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica per il dottorato all’estero presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. Studia, durante gli anni ’91/’92 e ’92/’93 (Diplôme d’études approfondies en Sciences du Langage, D.E.A.), Sociologia della letteratura con J. Leenhardt, Poetica con G. Genette, Storia dell’Umanesimo con Y. Hersant, Romanzo europeo con M. Kundera. Partecipa inoltre ai seminari di semiotica di C. Bremond, di sociologia di P. Bourdieu e di filosofia di J. Derrida. Dal 1992 al 1997 ha fatto parte del “Circolo seminariale sul Romanzo Europeo” diretto da M. Kundera all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi.
e che c’entri con la pittura se non come i cavoli a merenda?
vorrei far notare ai redattori di nazioneindiana, di solito molto solleciti a rimuovere commenti che anche solo da lontano sfiorano la cosiddetta netiquette, che qui sopra il signor luiino se ne va un po’ troppo per la tangente a dire sconcerie e assurdità. io qui vorrei limitarmi a ricordare che massimo rizzante, dopodomani, riceverà il premio dedalus a pordenone per la critica letteraria, per il suo NON SIAMO GLI ULTIMI. anche di questo, sarebbe opportuno che qualcuno desse notizia.
Il tuo sforzo – alquanto meschino e pretestuoso – di ridicolizzare l’articolo dell’autore (visto che ti sei studiato il curriculum, ti farebbe bene studiarti anche la sua bibliografia e leggere magari i suoi libri di critica e di poesia)
è alquanto sgangherato e patetico.
1) Pretende di zittire l’autore accusandolo di non essere un critico d’arte, laddove il tuo amato sgarbi ha costruito questo database, escludendo proprio i critici d’arte, anzi teorizzando che gli stessi altro non sono che dei mafiosi (lui che di mafia se ne intende alquanto evidentemente)
2) Rizzante non è entrato nel merito delle opere d’arte ma del progetto che è alla base di questa esposizione. Per giudicare il quale non mi sembra occorre essere critici d’arte.
3) Retoricamente ti chiedi se un poeta può amare un artista mediocre (discorso che con l’articolo c’entra “come i cavoli a merenda” e poi da mediocre studentello che ha fatto il suo copia incolla, disprezzi Rizzante che, guarda caso è un poeta. Non sei molto bravo a pescare dal “caos” dalla melassa della rete. Se scorri questo blog troverai le poesie dell’ultima raccolta di Rizzante, ancora inedita, che ti consiglio di leggere.
Per quanto mi riguarda, ribadisco, c’e’ anche un problema etico. Puo’ questo paese permettersi ancora di assistere allo scempio della cultura
che si sta facendo, al disprezzo che questo governo non manca mai di ostentare nei confronti della cultura ? possiamo permetterci ancora di scegliere un bondi come ministro dellòa cultura e uno sgarbi alla biennale?.
E tutti gli scrittori che hanno accettato, possono continuare a far finta di niente?
E lei che curriculum ha signor luiino? Il pezzo di rizzante, scritto magistralmente (ma lui lavora così), suggerisce, nel metodo, i link imprescindibili che il critico intelligente intercetta tra le arti per interpretare e comunicare. Si chiama comparazione. La cerchi sul vocabolario signor luiino, così esce dal suo recinto, prende un po’ d’aria e magari trova anche il coraggio di mostrare la faccia.
ottimo articolo, peccato le solite logorree polemiche.
tornando al post, il livello culturale è questo, che altro aspettarsi?
http://www.youtube.com/watch?v=9ZXuET1dn6c
Un sentito grazie a Rizzante per il preciso e puntuale articolo (ben scritto, caro lulino) e grazie per aver pensato a Baudelaire sulle cui opere poetiche e testi critici sull’arte dovrebbero riflettere gran parte degli “artisti” contemporanei.
è cosi difficle cogliere la bellezza, la precisone il tono di uno scritto eccelso come questo?
per luiino si
che faccia parte di questa nuova cultura italiana?
un caro saluto a massimo rizzante
c.
ho visto la Biennale, ma per l’idiosincrasia che nutro nei confronti di Sgarbi, non ho visto il padiglione da lui curato, me ne sono tenuto alla larga. Biennale insufficiente, una delle più brutte delle sei edizioni che ho visitato in passato.
Che si provi stima e affetto verso Massimo Rizzante e il suo prosare non può che far piacere; certo, sarebbe più interessante ascoltare riflessioni sulla sua stroncatura da non-addetto-ai-lavori che critica il critico Sgarbi che ha consultato, per la scelta degli artisti al Padiglione, dei non-addetti-ai-lavori, però, come è stato incantatamente ripetuto, Rizzante scrive bene, è per lo più poeta, perciò dica, dica, purché dica.
Naturalmente non c’è speranza di mantenere la copertura: essere in disaccordo con la visceralità scontenta e bacchettaia del Rizzante di Minoranza, equivale a dichiararsi un fan dello Sgarbi di Maggioranza.
Eppure a me quell’idea caotica di opere ammucchiate che possono venir distinte e scelte e selezionate direttamente dall’usufruitore di passaggio non mi sembra proprio la svendita della sapienza artistica, ma un nuovo corpo a corpo tra l’artista e colui che ne può essere folgorato, dato che uno che si trova al Padiglione di Venezia comunque non ci è capitato per caso, comunque è uno che cammina verso un incontro di bellezza, sempre non si sia perduto sulla strada dei mercati generali.. e che voglia lasciarsi catturare dalla visione invece che essere trascinato per mano da un compilatore di taccuini va a suo onore.
Poi chiederà, il folgorato, s’informerà, cercherà di sgrossare la sua impressione, per scoprire poi, magari, che s’è infatuato di una crosta pazzesca, quando non di un talento apprezzato da tutti ( e se poi sarà un talento apprezzato da lui per ragioni che lui per primo saprà formulare, non sarà comunque un avanzamento? una vittoria dell’arte? o anche rispetto alla bellezza ci si deve dividere tra prime file e ultimi banchi?)
Questo articolo di Rizzante credo sia fuorviante e viziato da un senso di autoinvestitura. Però è scritto bene! Forse è questo che conta, non provare a capire cosa resta e cosa va dell’arte come esperienza, come disorientamento e riorientamento, e non come lezione.
Un saluto!,
Antonio Coda
Secondo me Sgarbi ha fatto l’errore di gran parte dei curatori d’arte: ha ceduto alla tentazione di essere egli stesso un’artista, ha voluto creare un artefatto di artefatti, prendendone furbescamente le distanze: affidando ad altri autorevoli soggetti la scelta delle opere; come dire ?…”si è parato il culo”; ha esegiuto un’istallazione, il cui risultato è il caos da magazzino. Tu vai a vedere la Biennale di Venezia..e vedi L’OPERA di Sgarbi. E’ come dire che il suo egocentrismo ha avuto nuovamente la sua opportunità di sfogo.
Non so quanto le opere ci abbiano guadagnato e quanto siano state rispettate. Ogni opera va osservata nella sua giusta collocazione e non va mai sovraposta, infrapposta, retroposta. Almeno che il suo valore non sia da magazzino. Che Sgarbi ci abbia voluto dire qualcosa sulle opere esposte ?!?.
.. non ci credo, da piccolo egocentrico si trasformerebbe in un grande critico.
.. e anche artista. ^__-
Ares ha colto un punto non da poco.
di questa biennale ci ricorderemo più per la – caotica – direzione Sgarbi, che per le opere ammassate.
è stata la sua – ovviamente discussa- opera d’arte.
la sua personale “merda d’artista”.
Voglio raccontare la mia esperienza personale, anzi quella di un mio amico, invitato a partecipare alla biennale 2011.
Dunque, il mio amico, che non immaginava che avrebbe preso parte alla biennale di venezia, un giorno incontra Sgarbi alla presentazione di non so quale evento.
Sgarbi che già conosce il suo lavoro, tra una battuta e l’altra, sempre con la sua claque intorno, gli dice . “Ti porto alla Biennale.” Il mio amico pensa a una battuta, anche perchè siamo già intorno al mese di marzo e la biennale aprirà solo tre mesi dopo.
Fatto sta che qualche tempo dopo il mio amico riceve una telefonata da una società XY che a nome del Prof. Sgarbi (con il quale non avrà più contatti in proposito dal giorno dell’incontro) gli ribadisce l’invito, specificando che dovrà mandare un’opera entro pochi giorni al tale indirizzo, a sue spese (di lui artista, non di sgarbi).
Ma che la cosa fondamentale per la sua partecipazione è che si trovi un personaggio noto della cultura italiana che gli dia la sua investitura.
Il mio amico per fortuna uno lo conosce, uno scrittore non famosissimo e non sulla cresta dell’onda ma sufficientemente noto per andar bene. Lo scrittore per sua fortuna accetta, il mio amico paga € 200 per il trasporto dell’opera e la cosa è fatta.
Tempo dopo il mio amico riceve una telefonata dalla solita società XY che gli chiede di inviargli la foto dell’opera per il catalogo. Quale foto, risponde il mio amico, non ho nessuna foto…
In qualche modo ci pensano loro e l’opera del mio amico risulta regolarmente nel catalogo. Il mio amico va all’inaugurazione del padiglione italia, vede il suo quadro appeso su in alto, si beve un bicchiere e se ne torna a casa.
In seguito la società XY lo chiama per chiedergli se vuole comprare il catalogo con il 30% di sconto, un’offerta speciale solo per gli artisti presenti in mostra.
Però ne dovrà comprare un minimo di 5 copie. Il mio amico va in libreria e ne compra una copia a prezzo intero.
Ora aspetta la fine della manifestazione per rientrare in possesso della sua opera. Dà quasi per scontato che la spedizione di ritorno sarà a carico del destinatario e ha già messo da parte i soldi per non trovarsi impreparato con il corriere. Spera solo che non gliela rendano danneggiata.
Finora nessuno sui media ha mai parlato della sua partecipazione, nè in bene ma neanche in male.
L’opera è sul catalogo ? … venda l’opera maggiorata del 100% allegando il catalogo della biennale. In tempi successivi, in successivi cataloghi, precisi che è stato esposto in una collettiva alla biennale di Venezia 2011… se la tiri un po’ insomma. Nessun acquirente l’ha chiamata per l’acquisto di altre sue opere ????.
… hem.. forse non è piaciuto ???
… a parte che l’opera si usa regalarla al curatore.. o, se non sbaglio, si lascia il 40% del venduto alla galleria.
Una vergogna: mi è capitato di sentire migliardari chiedere lo “sconto” per un opera da 500,00/700,00 €.
Uscite dal
..circuito
Ma che la cosa fondamentale per la sua partecipazione è che si trovi un personaggio noto della cultura italiana che gli dia la sua investitura.
Lo scrittore per sua fortuna accetta, il mio amico paga € 200 per il trasporto dell’opera e la cosa è fatta.”
Immagino che lo scrittore che si presta a questo “favore” (nell’accezione mafiosa del termine) si sentirà a credito con l’artista in questione.
Questa storia raccontata Luzz Biteyear ci dice come funzionano le strutture di potere in questo paese: in modo clientelare quando va bene, mafioso sempre più spesso.
Il fondamento di ogni selezione, è sempre la famiglia, le relazioni informali, l’appartenenza a una fazione, una corporazione a una cordata.
Con la differenza che mentre prima veniva comunque richiesto un minimo di competenza e idoneità, ora non più e non c’è nemmeno bisogno di nasconderlo. Anzi! l’ostentazione serve simbolicamente ad affermare il proprio potere.
leggo su un quotidiano:
Annamaria Vessella, moglie di Pisacane, deputato dei Responsabili, diventa Ad dell’Isa, Istituto di sviluppo agroalimentare, società finanziaria con socio unico il ministero delle Politiche agricole retto da Romano, fondatore insieme a Pisacane del movimento Popolari di Italia domani.
Tutto questo per dire che siamo di fronte a un imperativo etico prima ancora che culturale o politico.
Bisogna fermare questo scempio prima che sia troppo tardi, smettere di lamentarsi e cominciare a fare delle scelte nette e coraggiose, a partire da chi ha più visibilità
Il commento di Luzz Biteyear è di una forza illustrativa appagante – e per essere ineccepibile dovrebbe fare lo sforzo di fare nomi e cognomi, se non il suo, almeno quello dell’artista, non perché ci sia qualcosa di non trasparente in quello che ha raccontato: è anzi tutto di una prosaica trasparenza che dà proprio il senso delle cose. Il nome e cognome dell’artista interpellato, e magari anche quello dello scrittore di aiuto, concluderebbe l’esercizio di verità.
Chiederei troppo a chiedere ai redattori di Nazione Indiana di dare a questo commento la stessa visibilità del post nel quale è stato pubblicato?
Sempre che Luzz Biteyear dia il suo nome e cognome, d’accordo.
Se, per ragioni di spazio, si dovesse per forza scegliere tra l’uno e l’altro, io la capirei, la redazione, se mantenesse il commento pure se a discapito dell’articolo di Rizzante, perché, a sostanza, il commento di Luzz Biteyear è molto avvantaggiato, perché intanto una sostanza ce l’ha.
Beh, io lo preferisco anche nella forma, ma poi questi sono gusti.
Un saluto!,
Antonio Coda
va bè
Carmelo lo scrittore non è a credito, credo che ci abbia guadagnato un pochinino anche lui a vedere il suo nome sul catalogo…
Luzz Biteyear lo definisce(lo scrittore):
“uno scrittore non famosissimo e non sulla cresta dell’onda ma sufficientemente noto per andar bene”
…avrà goduto un pò anche lui… per la riesumazione..
@ Ares
A pensarci bene hai ragione tu: ci guadagna lo scrittore, ci guadagna il pittore, ci guadagna lo showman televisivo, tutti ci guadagnano in un sistema feudale.
Gli unici a perderci sono i lettori e quei cittadini che non si rassegnano ad osservare impotenti questo sistema di servitù per il piacere e l’interesse del principe.
Nella prossima edizione il sistema si potrebbe perfezionare.
Si potrebbe indire un concorso televisivo per creare una giuria mista stile sanremo. Metà formata da “esperti” (“scrittori” uomini di spettacolo, politici) e metà formata da telespettatori estratti a sorte, per decidere ognuno dei quali l’opera da “mettere in deposito”.
Dice, un mio amico (di quelli specializzati in segnazioni) di aver trovato casualmente questo articolo in internet. Potrebbe anche essere vero. Fatto sta che adesso l’ho letto anch’io. Con qualche giorno di ritardo, ma questo non conta.
Allora, dico subito che non conosco Massimo Rizzante. Sono un buon lettore di poesia, purtroppo però le sue ancora non mi è capitato di leggerle. Sarà questione di giorni immagino. Questo lo dico per sottolineare che non vi sono ruggini o rapporti di antipatia personale, né con lui né, tantomeno, con la sua qualità poetica.
Ma se la mia opinione si deve basare su quel poco che di lui ho letto (questo articolo) ne esce un’mmagine carica di eccessi umorali che non aiutano la forza dei suoi argomenti.
Una buona parte di quello che ha scritto lo condivido. Poi però il buono frana sul terreno impercorribile della bile. Ed è un peccato.
Prendiamo il caso mio. Quello che giustifica la mia presenza qui. Non mi dilungherò certo su me stesso, mi sembrerebbe inelegante e anche un po’ patetico.
Dirò solo, per prima cosa, che io al Padiglione Italia della Biennale non ho “un paio di quadri” ma uno solo, per giunta appeso in alto, come un abito
all’interno di un pulilampo, in questo caso “incelofanato” da una pessima illuminazione. Mi congratulo dunque con Rizzante per la sua perfetta vista.
Per seconda, che se è vero che con Fernando Bandini, per forza di cose, esiste un rapporto di amicizia, essendo entrambi residenti nel borgo palladiano chiamato Vicenza, con Valerio Magrelli questa frequentazione non esiste. Saranno infatti almeno due anni che non lo vedo e altrettanti che non lo sentivo. Perciò nessun rapporto di pianerottolo o arance postinfluenzali.
Inoltre, Nè con l’uno né con l’altro io ho avuto contatti pre-invito per ottenere un accredito di favore. Mi spiace, so che in altri, tantissimi casi ciò è avvenuto, ma nel mio no. Altrimenti non lo scriverei certo pubblicamente.
A Massimo Rizzanti può bruciare, all’interno del suo pensiero, ripeto: in parte condivisibile, che due poeti di grande spessore (e dalla qualità umana inattaccabile) abbiano aderito all’iniziativa sgarbiana.
Che farci? Avranno trovato che fosse una buona occasione per segnalare un artista (forse pessimo, ma non a loro giudizio). Tutto qui.
Una sola considerazione sulle parole che Rizzardi rivolge al mio lavoro. Dire che sono un epigone di Guccione significa che non conosce la mia pittura. Non è una colpa, così come non lo è che io non conosca le sue poesie. Però io non le commento, dopo averne letta una stampata con un inchiostro
che si mangia alcune parole.
Con alcuni autori, si stabilisce un dialogo interiore. Accadrà così anche a Rizzante. Guccione è uno di questi, mi interessa il suo pensiero sul nulla e suull’impossibilità di tradurlo in pittura, più ancora del suo modo di dipingere. Così lontano dal mio. Basti, a Rizzardi, capire che lui dipinge ciò che vede, io no. Ma non importa.
Cordiali saluti
@silvio lacasella
Mi scusi se approfitto della sua presenza per farle alcune domande, posso vero ? …
… ma , lei, cosa ne pensa del padiglione Italiano, le piace l’allestimento, le piace come è stata collocata la sua opera? E’ soddisfatto della sua presenza in biennale, il valore della sua opera è stato ripagato in qualche modo?
..Che ne pensa di… del “magazzino” (così è stato definito un po’ da tutti)?
Chi è Rizzardi?
Rizzardi è Rizzante….
mentre Rizzante non è Rizzardi
Cosa ne penso del Padiglione Italia?
L’ho scritto mi sembra.
E’ un pulilampo con gli abiti appesi in attesa di essere ritirati.
Detto questo, posso con facilità capire quale fosse l’obiettivo di Sgarbi,
Primo: specchiare in breve sintesi (sì… “breve”) e modo traumatico ciò che ci circonda.
Secondo: dimostrare che affidando la scelta a menti non irregimentate il panorama risultante è completamente differente da quanto il mercato vuole delineare.
Terzo: dare la possibilità ai “soliti esclusi” di venire per una volta inclusi
Che poi il risultato sia quello che abbiamo visto, è un altro discorso.
Ma, come sanno i poeti più sensibili, non si spara nel mucchio… assomigliando involontariamente ma in modo combaciante al bersaglio che si vuole abbattere
Detto questo, lunga vita all’arte e alla poesia. Se possibile….
Trova che sia stato dato il giusto rispetto alla sua opera, ritiene che sia stata valorizzata come merita?
Non capisco come mai me lo chiede nuovamente. Devo dire: “no, non sono stato soddisfatto e tantomeno valorizzato”? Guardi, per quanto mi riguarda, per me la Biennale è stata un momento positivo. Mi riparo sotto l’ombrello di due persone che stimo moltissimo e che hanno avuto la bontà di segnalarmi.
Che poi le opere soffrano enormemente, lo vede chiunque. I quadri di alcuni artisti quasi non si vedono. Non so se avrei lasciato il mio se non me lo avessero abbassato di un paio di metri, qualche minuto prima dell’inaugurazione. Neppure l’occhio formidabile di Rizzante sarebbe riuscito a vederlo. Il mio, fa fatica anche adesso.
Io troverei insopportabile questa collocazione dispersiva: come se l’arte fosse qualcosa da ammassare anonima in un magazzino.
Rizzante, credo, le abbia dato un po’ di risalto, nel suo piccolo le ha dato ciò che Sgarbi non ha saputo fare.
…poi, a ciascuno di noi spetterà il personale giudizio sull’opera.
Sono nuovo in questo commentario e noto con meraviglia che nessuno ha colto il senso vero e assolutamente indispensabile dell’articolo di Massimo Rizzante. Mi viene da chiedere, quasi da gridare, MA L’AVETE LETTO L’ARTICOLO, O STATE SOLO PARLANDOVI ADDOSSO.
Rizzante non si è proposto come critico, nessuno può affermare questo.
Ha commentato il Padiglione Italia da intellettuale, da poeta, oserei dire da visitatore attento e si è posto 4 domande, intorno a queste 4 domande ha scritto ciò che ha scritto.
L’avevate capito ?????? Non mi sembra .
Allora vediamo di fare un discorso che ha un senso:
1° Tutti quegli intellettuali che… cito l’articolo “Ad esempio, ci si può chiedere: che ci fanno nella lista – seguono i nomi e cognomi – tutti scrittori, giornalisti, registi, attori, filosofi, poeti, uomini di teatro, studiosi e critici d’arte (ma i critici d’arte non erano stati banditi dal curatore Vittorio Sgarbi per pericolo di collusioni mafiose con gli artisti? E che ci fa nella lista lo stesso Vittorio Sgarbi? Si è autoinvitato nelle vesti di anchorman?) da sempre molto polemici, per non dire ostili, rispetto alla cosiddetta gestione politica della cultura italiana degli ultimi vent’anni e da questa spesso ingiustamente emarginati, combattuti o addirittura vessati? Perché hanno accettato l’invito? Non potevano dire di no?
Questo merita un commento.
2° Si è d’accordo o no che la mostra anzichè trasgressiva come voleva essere nelle intenzioni del Vittorio nazionale è invece “La
morale del deposito dove viene celebrato lo status quo. Perciò non è affatto provocatoria, ma retorica. Non è affatto “reazionaria”. Non reagisce al presente, ma lo assume come paradigma: è la morale del presente assoluto.
Anche questo merita un commento….
3° Siamo figli di Beuys o di Baudelaire ?
Infine 4° “La destra e la sinistra benpensante frequentano gli stessi salotti e amano gli stessi artisti ????????
D’altra parte, destra e sinistra, in Italia come nel resto d’Europa, una volta al potere, hanno fatto a gara negli ultimi venti anni a occuparsi di arte contemporanea… ecc, ecc,
Allora vogliamo parlare dell’essenzialità o delle futilità.
Rizzante non vuole criticare La Casella, Sgarbi, Corrado Augias o Gianni Letta, si è fatto queste domande a voce alta e voi che commentate….. non potete far finta di non aver capito, perchè altrimenti siamo nella mer… più totale, non meniamo il can per l’aia commentiamo realmente, non facciamo folklore con i curriculum e i finti nomi errati… se La Casella non conosce Rizzante, non ha
letto gki ultimi libri di Milan Kundera, poichè gli ultimi dell’Adelphj sono tradotti da lui ed è anche riportato, a meno che non si creda che Kundera scriva in italiano.
Con sincera simpatia, prometto che non lo faccio più….
Con simpatia per tutti
Sull’articolo di L.M. dal titolo “Massimo Rizzante esterna contro il presente assoluto (una delle conseguenze del realismo estetico), si potrebbe rispondere visto che è così e così sarà, perchè hai da ridire con chi non è d’accordo?
lascialo cuocere nel suo brodo, a te sta bene, quindi ??????
Lui ha diritto di allarmarsi e allarmarsi, a te sta bene non essere contro chi è contro, altrimenti difendi qualcosa…..e in questo caso sarebbe interessante scoprire cosa difendi, e se per caso dici niente è grave… molto grave.
ohps! ci sono ricascato….. scusate
Secondo me dipende dalle stagioni che “non son più quelle di una volta” e dal conseguente cambiamento climatico, oltre che metereologico. Non c’è altra spiegazione. Questo è il mio ultimo brevissimo intervento, solo per dire due cose (che poi, più che dirle le ripeto).
Ho cercato in tutti i modi di non parlarmi addosso, e credo di esserci riuscito. Seconda cosa, ho persino scritto che condivito in larga misura il contenuto dell’intervento di Ruzzanti, dopo aver sottolineato che parte della sua efficacia l’ha persa entrando a gamba tesa dove non avrebbe dovuto. Caro Andros, lei che non ha tradotto Kundera, vedo che dice ugualmente la sua
(sa, volevo anche farle notare, a proposito di “finti nomi errati”, che il mio cognome è tutta una parola e non staccato come l’ha scritto lei)
Stop
Saluto Massimo Rizzante.
Sulla vicenda sono intervenuto varie volte.
Per esempio, qui:
http://www.ilprimoamore.com/testo_2317.html
In questi giorni è uscito su “Artribune” un mio intervento, che vi incollo qui sotto:
Ancora il Padiglione Italia? Per pietà, basta. Però la Biennale è ancora aperta, i cadaveri caldi, le pistole fumanti: c’è chi ha parlato di “delitto perfetto” da parte di Vittorio Sgarbi e dei trecento intellettuali assassini dell’arte (fra i quali anch’io). E c’è chi si è messo in discussione, come Emanuela De Cecco, cercando di analizzare la sua irritazione di fronte al Padiglione. Condivido le sue conclusioni, ma in maniera opposta alla sua: questo Padiglione, è vero, lascerà le cose come stanno, ma perché curatori e critici non hanno nessuna voglia di vedere se contiene qualcosa di buono. E non parlo delle opere (comunque, un critico, un curatore dovrebbe saperle distinguere anche nel caos più totale: a maggior ragione se sono indicate da trecento persone che non sono del tutto stupide né disinformate). Parlo proprio del fatto che intellettuali e artisti abbiano partecipato in così tanti. Le spiegazioni che i curatori e i critici indignati danno a questo fatto sono consolatorie (per loro), non serviranno ad altro che a serrare i loro ranghi e confermarne il ruolo.
Francesca Pasini e Giorgio Verzotti chiedono ai trecento killer: “Possibile che sia stato così difficile dire di no?” Al nostro sì imputano connivenza col berlusconismo, o ingenuità, e anche narcisismo. Ma è ovvio che era immensamente più facile dire no. Credono che non lo sapessimo, che dicendo sì avremmo fatto una brutta figura politica, e avremmo fatto indignare tutta l’intellettualità artistica italiana (curatori e critici)?
Pasini e Verzotti si dicono “attoniti” per il numero e la qualità dei killer. Ma proprio questo avrebbe dovuto fare massa critica nelle valutazioni dei due studiosi. Invece no: o traditori, o puerili, o vanesi. Quartum non datur, per Pasini e Verzotti. Non li ha sfiorati il dubbio che ci potessero essere molti intellettuali e artisti, lì dentro, ai quali è parso meno peggio, per una volta, persino stare dalla parte di Sgarbi, piuttosto che sorbirsi un altro Padiglione Curitalia, l’ennesimo show curatoriale, in cui più che le opere si mette in mostra il potere mondano e le idee sull’arte del curatore, con tutti i suoi spossanti italianissimi equilibrismi nella selezione degli artisti.
Giacinto di Pietrantonio ha fatto un rilievo interessante: l’amore degli artisti contemporanei italiani per filosofi e scrittori non è ricambiato, perché questi ultimi prediligono artisti retrivi. Può darsi, ma è un bilancio troppo generico. L’arte non è statistica. Non si fa con le “medie”. Contano le eccezioni. Di Pietrantonio cita le predilezioni conservatrici di Pasolini: ma c’era anche il Gruppo 63, che supportava l’arte più innovativa.
Ma anche se fosse, allora c’è qualcosa che non va nella capacità dell’arte contemporanea, o meglio nei suoi intellettuali (curatori e critici) di dialogare con il resto della cultura italiana. L’intellettualità artistica italiana vive in una bolla separata, in un’altera autonomia di scelte e di consacrazioni che di fatto è autismo culturale?
Di fronte ad alcune opere del Padiglione Italia lontanissime dai miei gusti, non ho reagito attribuendole all’insipienza o impreparazione del selezionatore. Non è che quegli intellettuali non amino l’arte contemporanea: vogliono proprio dirci chiaro e tondo che di contemporaneità c’è n’è un’altra, e che loro amano quella.
Colpito e….. affondato! Ha ragione, ma sà…. sono un distratto……….e a volte superficiale, ho assimilato il suo nome al mio.
Silvio, non m’intendo di arte nè di letteratura, nulla …. sono un dilettante e non un pro-fession-ista di qualcosa….. so solo che le “cose” ci fanno da specchio e così come incosciamente in esse ci rispecchiamo, le “cose” che diciamo ci ri-velano.(da re- addietro e velàre da velum = tirare addietro il velo).
Non era mia intenzione difendere Rizzante, quanto non era mia intenzione accusare lei di parlarsi addosso.
Certo ha tentato di difendere la sua posizione.
C’è riuscito?… non mi sembrava questo il problema.
Ho detto la mia su ciò che ho capito che volesse dire Rizzante e che molti che lo hanno attaccato non mi sembrava che avessero colto.
Mi sbaglio ????
bene Ho sbagliato,
Ma mi sembra che ancora lei al di là di una condivisione quasi formale delle argomentazioni di Rizzante, ancora continua a non cogliere.
Nulla togliendo ai poeti che lo hanno segnalato, dovevate non vedere un’opportunità, ma qualcos’altro.
CUCCHI HA PORTATO UN’OPERA 30 X 30 E L’HA ESPOSTA AD ALTEZZA VISTA SU UN PANNELLO 3 metri X 3 metri NERO.
Ma di che cosa stiamo parlando????? …. adesso gli stupidi e gli impotenti difendono la stupidità e l’impotenza????
Io sono stato invitato ancora nel dicembre 2010 e dopo due telefonate ho capito come funzionava e ho detto no.
Nessuno mi conosce e avrei potuto guadagnare qualcosa dall’esserci piuttosto che no, ma ho detto no per principio, per dignità, non si può essere invitati alla Biennale di Venezia e pagarsi la spedizione dell’opera,
E’ INDECENTE e contro ogni logica dell’invito.
Se lei m’invitasse a cena a Vicenza all’Antico Ristorante agli Schioppi nel cuore del centro storico di Vicenza, all’angolo di piazza Castello, o alla Trattoria Due Spade di Sandrigo e mi dice t’invito ma ogni uno si paga il suo, io le rispondo grazie vado quando voglio non quando m’invita lei.
E io che sono un sognatore penso così, vado alla Biennale quando voglio non quando sono invitato a spese mie …. e siccome forse il tutto no è chiaro mi firmo per esteso come del resto ha fatto lei….
Mi dispiacerebbe se non intervenisse più, mi è molto simpatico suo Andros De Rola
a quel che so Goffredo Fofi ha detto no, anzi non gli ha proprio risposto a Sgarbi. Ce ne saranno stati altri sicuramente che hanno deciso che avevano di meglio da fare….
Provo ad alleviare l’angoscia di Andros De Rola di fronte al sospetto che sia stato l’unico ad aver letto l’articolo di Rizzante così come andava letto.
Polemizzare su chi ha candidato chi, e su chi ha candidato chi poteva candidare chi, stura una regressione infinita a menocché a un certo punto uno non si voglia fidare, e mi rendo conto poi che qualcuno si fida più di Rizzante che di Sgarbi, e, a naso, anche io mi fiderei più di Rizzante che di Sgarbi, fosse solo perché il primo mi sembra molto meno imbozzolato in una ragnatela di interessi, però, leggendo l’elenco dei proponenti nell’articolo, ci ho ritrovato delle personalità autorevoli della cultura che, se si sfugge alla logica del fango a tutti i costi, un contributo sincero credo l’abbiano apportato. Che poi la loro selezione possa peccare di ingenuità, siano anche i visitatori della mostra a deciderlo. Povera l’arte, essù!, se davvero tutto inizia e tutto finisce in quel Padiglione lì, che sembra fatto apposta più per attirare l’attenzione su chi non c’è che chi su chi c’è – oltre che su chi ci ha mandato chi.
Sull’allestimento stile deposito – dove comunque c’è a chi tocca la parete principale e a chi la controsoffittatura quasi – più che vederci un protagonismo del curatore ci vedo una realizzazione della sua idea dell’arte non “gerarchizzata” dai giudizi degli esperti, e a me questa trovata non sembra spregevole, perché rimette la responsabilità della visione al visitatore: sarà maniera magari strampalata di vedere la questione, ma io la leggo così: se Rizzante è riuscito a focalizzare l’opera di Lacasella nonostante si trovasse in una posizione così scomoda, questo va sia ad onore dell’attenzione di cui è capace Rizzante sia dell’opera di Lacasella che si fa guardare anche lassù.
Inoltre se un vantaggio c’è, nella confusione generale in cielo e in terra che va sotto il nome di postmodernismo, è quello che non solo i padri sono stati definitivamente uccisi: adesso, in più, ciascuno può farsi adottare da chi più gli piace: sia esso Beuyis, Baudlaire o chi per loro. Il rapporto di filiazione è importante, fondamentale, sì, ma quando è reputeremo di aver raggiunto la maggiore età e di poter proporci noi – noi come abitanti del nostro tempo – come padri di chi verrà dopo?
Infine, sbigottire perché le Teste di Serie della Destra e della Sinistra sono fatte in serie anche per quel che riguarda il gusto o più onestamente la promozione dell’arte nostrana, mi sembra un tentativo di fare moralismo sensazionalistico: senza scervellarsi su questioni come diversità antropologica e migliorismo morale, si potrebbe vedere anche di buon occhio che politici di parte avversa abbiano raggiunto la maturità per scontrarsi su una riforma pensionistica concordando lo stesso sulla qualità di un’opera d’arte. La pretesa di una divergenza assoluta nelle preferenze estetiche oltre che nelle proposte legislative sa troppo di Berlino Prima della Caduta del Muro ( del resto a me andrebbe anche bene un politico che di arte ne sappia poco quanto me – basta non sia il Ministro della Cultura – a patto che in Parlamento ci vada e che in Parlamento ci porti delle riforme necessarie per la collettività).
Queste mie non sono altro – e che altro possono essere? – che considerazioni personali. Resto comunque del parere che questo articolo di Rizzante – questo articolo, e non il resto della sua produzione letteraria, delle sue poesie e delle sue traduzioni di Kundera – sia brutto, non nello stile – ma questo non fa che rendermelo più indigesto – ma nella intenzione, accidiosa più che apertamente critica e bellicosa.
Un saluto!
Antonio Coda
le questioni toccate sono davvero tante ma mi sembra si siano persi di vista alcuni punti non secondari. per esempio, che la figura del deposito (sia esso museo, wunderkammer o quant’altro) ossessiona tutta l’arte moderna (in questo sgarbi è solo uno che va ad orecchio). usarla come chiave di lettura negativa mi sembra parecchio incauto e, almeno, riduttivo. allo stesso modo andrebbe anche notato che, per prima cosa, beuys è un erede di baudelaire e del suo poeta senza aureola. in seconda luogo, sgarbi non è sicuramente un erede di beuys dato che se beuys diceva che erano tutti artisti sgarbi dice che lo sono (solo) quelli scelti dal consiglio dei trecento. cioè: se beuys smontava la figura dell’autore come filtro sulla produzione di arte, sgarbi la rimonta, usando come scheletro non più la questione estetica ma il carisma del vip, del personaggio (mediaticamente) importante, che le fa da mallevadore (quindi svilendola molto più del discorso beuysiano). per altro mi sembra anche parecchio incauto usare beuys come esempio di un’arte da broker (mi abbandono all’immaginazione e oso pensare che i broker beuys li avrebbe fatti sbranare dal coyote di “i like america and america likes me”).
l’argomento del “meno peggio” che solleva scarpa, invece, mi sembra che si commenti da solo (è davvero incredibile vedere che c’è ancora qualcuno che considera un personaggio come quello messo in scena da sgarbi nel mondo dell’arte meno peggio di qualcosa ;-).
Di tutte le mie argomentazioni (comprese quelle espresse nell’intervento che avevo linkato), Gherardo Bortolotti nel commento qui sopra coglie solo due parole. Si vede che alle altre non ha risposta. Poi, commette la classica scorrettezza argomentativa nell’attribuire un “tutto” a chi sta analizzando “una parte”: io non giudico un “personaggio”, ma valuto le singole idee, le singole iniziative, una per una, di volta in volta.
Faccio notare, comunque, che Bruno Muzzolini (l’artista che ha accettato la mia proposta di partecipare a questo padiglione) ha costruito una sorta di stanza separata in cui si può vedere il suo bellissimo video. Voglio dire che ci sono stati vari modi di partecipare (non è vero che tutti i selezionatori sono incompetenti, non è vero che tutti hanno selezionato il cugino, non è vero che ecc. ecc.), e alcuni artisti sono venuti a curare personalmente l’allestimento delle proprie opere, separandole o tutelandone la visione.
Mi pare che una parte di coloro che intervengono (non solo qui) siano puri commentatori, ovvero dicano la loro opinione basata non su esperienza e informazione reale ma su notizie, resoconti, reportage generali e generici, senza conoscere come sono andate le cose, e i singoli percorsi, e le scelte artistiche individuali, i modi in cui ha partecipato ciascuno, che non sono tutti uguali.