In giro per Città del Messico, “paradiso” per rabdomanti
Da “il Reportage” numero 8, ottobre-dicembre 2011, nelle librerie dal 15 ottobre.
di Alessandro Raveggi
Il viandante dell’antichità, a seguito di faticosi valichi esistenziali, per riaversi dal cammino assegnato dal fato o dalla propria comunità, avrebbe voluto forse trovare ristoro in una fonte dell’eterna giovinezza, come quella celata nelle terre del Prete Gianni o nella Florida di qualche secolo successivo. Il viandante d’oggi, poco avvezzo a soglie e sacrifici del viaggio arcaico, si ristorerà più volentieri in fonti effimere: nell’acqua tonica di uno smunto frigobar in un Holiday Inn della California, oppure nella minerale di un bar veneziano, tanto fresca da illudersi d’acclimatarsi col solo sorso, per poi venir beffati dalla zampata dello scontrino. Per non parlare del sollievo di una doccia bollente a Berlino, dopo deragliamenti notturni al freddo di strada, o di quello di togliersi quell’indefinibile patina, sostanza aristotelica con attributi di più scomparti, nazionalità attigue, salviette, contenitori di cibi, che lasciano sulla pelle i voli intercontinentali, appena arrivati dopo un lungo viaggio in direzioni australi. Le acque, da antico principio bifido di rigenerazione e catastrofe, di purificazione e annientamento, paiono sempre più acque inscatolate, plasticate, intubate, eterne quanto gli scatti di un gettone sul lungomare.
Se penso però al mio arrivo a Città del Messico e alle sue acque, una rabdomanzia di viaggio non sarà facile, e le soglie rituali, ovvero le sorgenti nascoste e ambigue, riaffioreranno. L’accoglienza che la megalopoli mi ha offerto non è stata infatti solo quella di una tiepidezza di clima quasi edenica, col fresco e il soleggiato che dura la maggior parte dell’anno, ma si è anche manifestata col bisogno insistente d’idratazione, per l’estrema asciuttezza della sua aria. E l’arsura ha persino prodotto una piaga orrenda: l’innaturale perdita di sangue dal naso, tanto che un sudario maculato ha riempito le mie tasche per giorni. Colpa dell’inquinamento, dicono in molti. Ma se il rabdomante in città laverà i suoi calzettoni di viaggio, in poche ore questi saranno brutalmente asciutti come sotto l’azione di un’asciugatrice. Avrà poi il tempo d’osservare che le pozzanghere hanno la tenuta massima di un’ora, se viaggia in città da luglio a settembre. Nel tardo pomeriggio cadono giù muri brevi ma intensi di piogge tropicali, che a volte lasciano stranamente ben poco effetto sull’asfalto e sui palmizi dal bavero ingiallito di alcune avenidas, ma che, in molti casi, sommergono dal nulla interi quartieri.
Le acque di Città del Messico, più che con l’inquinamento, complottano così col clima e l’altitudine di oltre 2000 metri per fare della città un’ardente casa degli specchi, labirintica di rovine odierne e antiche che si sorvegliano riflesse l’una sull’altra, con riverberi di fulgore e vegetazione quasi preistorica, ma anche disposta a ricevere l’influsso di acque reali o originarie e a trasformarsi in bacino, in vasca bigia, in scolo: i palazzi fascinosamente crepati e belle époque della zona centrale della città si ammuffiscono, i grattacieli della carpenteriana Santa Fé rifrangono il sole o sgrondano acqua come i canyon sopra i quali tentennano, e i resti della un tempo vermiglia capitale degli aztechi nel Centro Histórico si impolverano, ma anche rendono onore al dio della pioggia, nel Templo Mayor che conserva l’altare dedicato a Tláloc: divinità della pioggia, sciamano capriccioso protettore del cielo, del mais e dei monti, assimilabile a Shenlog, il dio dragone cinese. E c’è da ricordare come la zona metropolitana di oggi sia nata da un piccolo accampamento di nomadi venuti da nord (da un’altrettanto mitica Aztlán) su di un’isoletta predestinale, posta nel mezzo dell’ampio paesaggio lacustre del Valle de México, e che presto si diramò come la letterale Venezia delle Americhe: navigabile, percorribile su zattere, fornita di un formidabile sistema di dighe disegnato dal sovrano ingegnere-poeta Nezahualcóyotl, oggi forse troppo dimenticato nelle diatribe sulla gestione colabrodo dell’acqua pubblica in città, come nel caso del chiamato Sistema Cutzamala.
Al rabdomante col sangue al naso verrà così prima di tutto da chiedersi: perché sanguino sopra questo lago fantasmatico? C’è acqua solo nelle vasche specchiate dei giardinetti davanti alle brasserie di Polanco? Stagna solo negli smeraldini laghetti del Parque de Chapultepec, dove i messicani pomiciano, sfregando l’uno contro l’altro i corpetti di salvataggio sui loro pedalò? Viene domata solo dai giardinieri artisti di forme perfette delle regge e delle ambasciate fortificate di Palmas? Il rabdomante dovrà intraprendere la sua ricerca in una megalopoli che si sommerge ed emerge polverosa, a tappe, per prove, e che galleggia come su d’uno spettro d’origine prosciugata e intubata, e per questo condannata a sprofondare di qualche centimetro ogni anno verso sotterranei cavi o fangosi. Dove il legame con l’acqua è perciò sofferto e desiderato, ballato persino in danze della pioggia in alcuni festival musicali che in primavera invocavano nei loro manifesti i generosissimi rovesci estivi; maledetto dagli abitanti delle zone di arretratezza, abusivismo e fognature intasate di sozzura, come la Valle de Chalco, che nelle inondazioni del 2010 terrà testa alla Louisiana del 2005 o al Pakistan dimenticato d’oggi.
L’arsura a Città del Messico, quella che ti fa sanguinare all’inizio, rivela quindi l’umido scacco col passare del tempo: se si osservano le cartografie cittadine, come quella mappa vertiginosa del 1522, una rosa atlantidea tracciata per conto di Cortés, o come quelle nel museo celebrativo del Castillo de Chapultepec, reggia-roccaforte di Massimiliano d’Asburgo, passando immaginativamente dal XVI al XIX secolo ci si accorge che non varino solo le tinte, gli orditi e la toponomastica, ma soprattutto il paesaggio di quel complesso lacustre dominato dal lago Texcoco, trasformato adesso in una spianata secca, ma non per questo totalmente arida, per giunta contornata da vulcani (forse) inattivi e vette spesso innevate, che si ergono su d’un cielo stereoscopico e leggerissimo, alpino. Una città dove però ai fiumi si sono sostituiti i viali, dove i fiumi sono stati intubati, inquinati, dissipati in principi termodinamici spinti da motori Gm. Il Viaducto, il viale un po’ desolante che l’attraversa fino all’aeroporto, nasconde per esempio il soffocato Rio de la Piedad.
Il rabdomante d’acque dovrà quindi affrontare varie prove che lo assimileranno ad un viandante antico: pronto a meravigliarsi, a sbagliarsi, a cercare l’acqua, ad affogarci. Appena giunto in città per stabilirmi, nel caloroso marzo del 2009, oltre ai fiotti di sangue al naso, sono stato avvertito del fatto che l’acqua del rubinetto non sarebbe stata assolutamente potabile: era da evitare non solo di bere bicchieri d’acqua senza previa bollitura, ma anche cercare di dissetarsi con granite di piccoli barrocci di raspados, che agognavo smanioso come le urla degli uccelli selvatici del Parque México della Colonia Condesa o in una Coyoacán danzante di bellezze locali e organetti un po’ stonati – raspados che, a pensarci adesso, non ho mai provato. Se si ripiega poi per la più comune acqua in bottiglia, i problemi saranno molteplici. Il costo è superiore a quello di una Coca-Cola delle stesse dimensioni, abusata in città tanto quanto la benzina delle auto; è poi molto più facile incontrare, nelle piccole fondas, le cucine o mense a conduzione familiare per pranzi economici, una agua de sabores, un succo annacquato di limone, arancia, tamarindo e altra frutta più o meno esotica. Se chiederete al cameriere di portarvi un’alternativa “pura” a quell’acqua fruttata a volte dolcissima, allibirà.
Finito il marzo dalla sete, arriverà l’aprile ancor più riarso, e sarà un aprile di perlustrazione, tra le camminate nei parchi come il Parque Hundido, punzecchiato dalle incursioni di frastuono degli ejes principali, o della prospiciente Avenida de los Insurgentes, e le affannose camminate sotterranee in una metropolitana di dodici linee che accoglie ogni giorno fino a otto milioni di persone, creando vagoni di coltivazione batterica molto avanzata e sostegni untuosi al tatto, che richiameranno continuamente a un’idratazione e detersione impellenti. A fine aprile, verrò persino sorpreso da un’epidemia contagiosa, la adesso arcinota “febbre suina”, che trasformerà la città in uno scenario desolato di quarantena, molto asettico e straniante per un viaggiatore chiuso in casa in cerca di sorgenti, ma anche di radici. In quarantena, preserverete le vostre vie respiratorie sanguinanti, vi laverete costantemente le mani e sostituirete l’acqua insaponata con un “liquido spermatico” normalmente usato in condizioni d’eccezione: il gel antibatterico, una delle fortune degli ultimi tempi delle ditte farmaceutiche messicane, venduto in ampolline sempre in tasca pronte a strizzarsi tra le dita all’occorrenza. Il suono squittente del dosatore dell’ampolla che fa entrare aria e dona lo “sperma” battericida riempirà le strade semi-deserte, prive ora di altri rabdomanti stranieri, bloccati ai propri check-in d’origine dall’Organizzazione mondiale della Sanità.
Transiterà anche l’apocalisse e scemerà un po’ il sangue dalle narici. Città del Messico è infatti città d’apocalissi in transito più che città dell’apocalisse tout court, città delle piaghe ricorsive con lunghe pause salvifiche, più che di giudizi universali. Per questo, è piena di un’umanità tenace. In maggio, visito una delle attrazioni della città: il parco fluviale Xochimilco, dove i canali ricordano l’antica rete navigabile della città, anche per flora e fauna. Il parco, a sud, è percorso tutto il dì da colonne di trajineras, gondolone simili a carri carnevaleschi con nomi di donna apposti in testa, manovrate da taciturni mestizos dei dintorni. Le trajineras hanno un tettino che le copre dal sole e un tavolo per accogliere passeggeri che vogliano ingozzarsi di alcool. Gli adolescenti più ormonali della città vanno infatti a consacrarsi a quel tavolo d’alcolista, alcuni formano battelli danzanti di musica monocorde, tutti stretti in una trajinera che forse affonderà. Ne passano altre, una di mariachi che strimpellano singhiozzanti ballate messicane, alcune invece paradossali di casalinghe con fornelli a gas che ti vendono questuanti quesadillas, quando le acque di Xochimilco con apatia lacustre fanno emergere anche una fauna sgradevole, poco autoctona: sacchetti di plastica, pellicole e bolle untuose, rigurgiti di turisti. Ciononostante, l’umanità è pronta subito a ritornare con una ventata nell’afrore, tuffandosi verso di me, che scruto le case fantasma stile Mississipi che si incontrano negli isolotti lungo il tragitto, sotto le forme pingui dei bambini locali: si lanciano provocatori verso la nostra barcarola, giocando a schizzarci. Riemergendo tra sacchetti di plastica, si spintonano accompagnati da cani randagi e bambine, sguaiati come in un chiamato Sábado de Gloria, il sabato precedente la Pasqua, quando si lanceranno gavettoni in una sorta di Ferragosto.
Giugno è invece un fazzoletto fresco e bianco di bagliore diurno, senza più sangue al naso, adatto per farsi una domenica nel Centro – oggi decentratissimo rispetto alla macchia urbana – con un buon paio d’occhiali scuri per il riverbero del sole. Vado al mercato di chincaglierie nella Alameda, davanti al cupolone arancione fiammante del Palacio de Bellas Artes, per calle Madero ci sono famiglie in gita domenicale con i tipici bicchieroni di succo di arancia gustosissimo, ma anche nefaste e immancabili Coca-cola. Arrivo fino al Zócalo, la piazza principale che verrà a breve occupata dai sit-in permanenti del sindacato degli elettricisti, davanti alla Catedral dal suo tono affumicato come un vascello appena tirato su da fondali marini. Il rabdomante che sono passerà poi alla deliziosa terrazza della Libreria Porrúa e, asciugandosi la fronte per un ritrovato sudore italico scordato da alcuni mesi, scorgerò la Torre Latinoamericana, che offre una vista panoramica della città dall’alto e che per costruzione pare uscita da A come Andromeda. Da dietro la struttura balistica della torre, camminano però delle nuvole inaspettate, srotolate come dai monti, cucite nell’inverno dallo stregone con la faccia fatta di serpenti, Tláloc.
Perché siamo quasi in luglio, e quello sciamano programma la sua lunga parata di piogge col timer, a comando: da’ un occhio all’orologio, e osserverai che il suo rubinetto mitico si aprirà alla stessa ora. L’effetto non è in realtà alleviante: la pioggia è verace e fitta, diversa dall’annaffiamento paranoico che dura mesi a Firenze, la vegetazione abbondante della città respira, ma qualche fiore di buganvillea o floripondio si inzuppa, marcisce e scola fino alle fogne, intasandole. Le acque ristoratrici cominciano così ad annoiare il cammino del rabdomante, fanno saltare la luce almeno una volta al giorno, le strade s’addensano tenebrose con le fiammelle dei fuochi delle taquerias accese e i fischi dei parcheggiatori abusivi. Acque purificatrici, quindi, ma anche acque insalubri, nocive. Come scriveva Durán, la laguna di México era in origine divisa in due: una centrale, di acqua salata, amargay pestilifera e una di acqua dulce y buena, florida di pesci, che si trovava a lei esterna, superiore in altezza. Peste e dolcezza che incontro anche oggi, in vasi comunicanti.
Agosto e settembre sono infine mesi di piogge che inondano viali e sottopassaggi della città, rallentando il procedere già faticoso della metropoli. Ma anche i mesi delle campagne comunali contro la siccità: sembra di stare in un paese mediterraneo di fronte all’emergenza estiva! Un busillis, per me rabdomante ora colpito da fin troppe acque – riposta idealmente la mia bacchetta biforcuta, ben adatta per comprendere i risvolti delle sorgenti impure della città – e che quasi ogni venerdì colmo una grande bacinella d’acqua della doccia, perché il portiere del mio condominio chiude il rifornimento idrico fino al lunedì successivo. Strane misure d’emergenza del Messico, che reprime le sue fonti originarie per recuperarne le più nefaste conseguenze, che intuba e perde parecchia acqua nel cammino.
Un cammino rapido nel ritornare all’inizio di questa rabdomanzia, quando il rabdomante, tollerante della asciuttezza dell’aria o del timer delle piogge, vive da ottobre a marzo in un autunno e inverno soleggiati, che riservano però ancora sorprese: torna l’arsura a mezzogiorno quando le vette si innevano, le bevande gelate e l’aria condizionata non sono solo una mania da frigidarium americano, ma nemmeno le sciarpe al mattino. Tláloc, il cui nome significa beffardamente Colui Che È Fatto di Terra o Colui che Viene dalla Terra, ti adocchia da quel cielo alpino e attende nuovi sacrifici di viaggiatori rabdomanti che arrivano all’Aeroporto Benito Juarez, insanguinando i fazzoletti. Sono necessari pare, quei sacrifici di sangue, per consentire il suo metodico lavorìo dell’estate.
Le mie mucose rigenerate possono però ora sottrarsi alle sue stregonerie, e dirigersi verso gli odori idiosincratici dei mercati. Dal naso si passa alla lingua, una lingua anch’essa biforcuta, mentre lappa le contraddizioni di una megalopoli come Città del Messico, un labirinto che per due anni e mezzo è stata una splendida casa degli specchi: una casa con quel giorno d’apocalisse amara e non potabile alla settimana, che ti mantiene vivo nella dolcezza altrettanto nociva di acque dolci e fruttate.
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Un reportage interessante e magnifico. Ho avuto l’impressione di scoprire una città strana, con illusione, rovente. Una città quasi inventata. Una città con il miraggio, la follia della sete: una città senza acqua è per me una città dell’inferno, una città che subisce un castigo, una città del dolore. Ma Alessandro Raveggi nella sua scrittura poetica crea una leggenda, mostra come la realtà, l’arsura puo avere la luce dell’ incanto.
Ottimo pezzo.
Interessante anche la rivista, non la conoscevo.