Padri, cameriere e purgatori
Non ricordo la prima volta che ho avuto in mano la Commedia. Il fatto che non lo ricordi significa che non ho mai avuto una vera relazione con Dante? Può darsi.
Però Dante mi era vicino quando alcune cameriere m’iniziarono all’amore, o meglio alla sfera sessuale dell’amore, che non ha niente a che fare con l’amore, sebbene sia un buon punto di partenza, un punto da cui bisogna partire, per poter poi salire la montagna del purgatorio erotico e approdare alla trasfigurazione del volto dell’amata, alla sua divinizzazione, al paradiso, alla preghiera che tutto duri in eterno.
Così il sesso sarebbe l’inferno, lo smarrimento, il perdersi nella selva, il sentirsi risucchiati dal mulinello della paura, i fare i conti con l’imperfezione terrena, con la caduta, i guasti della carne. Può darsi.
Eppure nel mio ricordo l’inferno non ha nulla di ferino, ma è una grande camera da letto in una dépendance di un hotel in riva al mare. Una camera per cameriere stagionali, senza pretese, dove, questo sì, in assenza d’aria condizionata, si soffocava per il caldo infernale.
Mio padre frequentava una cliente dell’hotel. Io avevo quattordici anni. Un’età in cui non si è né carne né pesce, e mio padre non sapeva se buttarmi a mare o farmi cucinare dall’amico chef, con cui si intratteneva di solito alcuni minuti prima di imboccare una porta sul retro e salire le scale fino al secondo piano, dove una giovane viennese lo aspettava in costume da bagno.
Un pomeriggio decise di lasciarmi in custodia a Erika, che a fine servizio, dopo aver sbarazzato i tavoli della sala da pranzo, mi portò per mano fino alla dépendance. Erika aveva ventidue anni. Non mi sembrava un tipo sofisticato. I suoi gesti erano ruvidi. La sua voce l’avevo paragonata a uno sfregamento di carta vetrata su un muretto di calcestruzzo. Insomma non aveva grilli per la testa.
Le sue due amiche, con cui condivideva la stanza e la corvée ai tavoli, si chiamavano Elsa ed Eleonora. Erano un po’ più anziane. Elsa, soprattutto, aveva superato la trentina. Faceva la cameriera da molto tempo e sembrava essersi rassegnata al suo destino. Era alta e portava una lunga coda di cavallo. Ma non era la sua sola caratteristica equina. Aveva una dentatura pronunciata, e quando rideva mi veniva voglia di prendere una zolletta di zucchero e infilargliela in bocca. Era una cavalla mansueta, che un giorno era stata azzoppata, ma che invece di essere abbattuta, aveva miracolosamente ricominciato a trottare. E da quel giorno il miracolo della vita si trasmetteva ogni volta che sorrideva. Eleonora era una rossa ramata dagli occhi azzurri, dai seni felliniani e le mani piccole alla fine delle quali, al posto delle unghie, c’erano piccoli artigli smaltati di rosso. Emanava desiderio, aspirazioni, e una certa volontà di fuggire. Per lei quel lavoro era una prigione, si capiva, soprattutto dai suoi silenzi, e da come guardava fuori dalla finestra che dava sul giardino dell’hotel. Un giardino di azalee e oleandri. Un piccolo Eden. Ma vicino al mare, senza fiumi dove bagnarsi per dimenticare. Un’altra prigione, almeno da come Eleonora all’improvviso smetteva di inebriarsene.
Quel pomeriggio avevo con me il Purgatorio di Dante. Ero un ginnasiale piuttosto ligio al dovere. Solo qualche anno più tardi sarei diventato un cialtrone. Avvenne allorché la mia prima stagione poetica diede i suoi frutti. Mi sentivo così libero quando scrivevo che non ascoltavo più nessuno. Ma quel pomeriggio il mio talento – così lo chiamavo – se ne stava ancora a cuccia, con una lunga catena al collo. Mancavano pochi giorni alla fine delle lezioni. Per l’indomani dovevo leggere alcuni canti, quelli dedicati ai superbi, e farne un commento.
Mio padre, che pur essendo un professore di filosofia, non riuscì a insegnarmi mai nulla, aveva abbandonato anche l’idea di essermi d’esempio. Tuttavia sulla superbia, qualcosa m’insegnò senza volerlo. Che cos’è c’è infatti di più sottilmente immodesto che vantarsi della propria umiltà?
Era quello che mio padre faceva con tutti, me compreso. Gli veniva spontaneo dichiarare che lui aveva smesso di pubblicare perché si era reso conto che era meglio restare anonimi, non entrare in quel circo delle vanità che era la letteratura in cui tutti s’insuperbivano in fretta e cominciavano a starnazzare come galletti in un pollaio pieno di merda. Meglio restare fuori da quell’inferno. Il discorso poteva avere un suo fondamento se non fosse che mio padre mentre lo pronunciava davanti allo specchio cercasse disperatamente una cravatta da abbinare con il suo gessato nuovo di zecca. Mio padre possedeva centinaia di cravatte e centinaia di modi diversi di instillarmi spremute di umiltà, solo che lo faceva ogni volta pavoneggiandosi della sua scelta di restarsene ai margini, in segreta ammirazione di se stesso.
Steso sul letto di Erika, che con la sua crudele assenza di pudore si era svestita e mi si era allungata accanto, avevo cominciato a leggere il canto XI del Purgatorio.
Ora la prima cosa da fare era capire che cosa Erika avesse in mente. Non ci volle molto. Non che a Erika mancasse la capacità di ragionare. Solo che il suo pensiero le era del tutto indifferente. Agiva come sotto dettatura. E chi dettava era il suo corpo. Così il risultato fu che mi ritrovai una mano dentro i pantaloncini. La seconda cosa da fare era capire come Dante avesse punito i superbi, e in fondo se stesso.
Avevo quattordici anni, ma non ero completamente uno sprovveduto. Appartengo a una generazione, l’ultima, che a quell’età si era già divorata il romanzo russo e francese, Hermann Hesse, La montagna incantata e Così parlò Zarathustra. Perciò le tossine della grandezza e perfino il virus dell’onnipotenza avevano già colonizzato le mie fibre, per altro non ancora del tutto sviluppate. Bastava vedere come Dante si comportava con Virgilio per capire che si sentiva più importante.
Per quanto i superbi fossero schiacciati dal peso dei loro massi e a malapena riuscissero a trascinarsi avanti e a biascicare qualche parola – era questa la punizione – Dante non mi è mai sembrato particolarmente preoccupato della loro condizione. Lui, il suo macigno, la sua opera immensa, la portava sulle spalle con leggerezza. Nessun problema di cervicale, sebbene fosse costretto dalle circostanze a chiedere scusa e a tarparsi le ali dell’orgoglio che lo avrebbero fatto volare senza troppi saliscendi e cornici dritto al cospetto di Dio. Dante con il capo chino! Non riesco a immaginarlo. Certo il nobile Omberto, piegato dalla colpa, lo costringe per ascoltarlo a faccia in giù. E proprio in quel momento Dante riconosce Oderisi da Gubbio, un grande miniaturista, «onor» dell’arte dell’«alluminar». E qui inizia una tirata un po’ sospetta sull’«onor» artistico, terreno che niente ha a che vedere con la «gloria» eterna. Perché sospetta? Per la stessa ragione per cui mio padre pontificava sulla vanità dell’arte gingillandosi davanti allo specchio prima di un appuntamento con la sua giovane viennese. «Non è il mondan romore altro ch’un fiato/di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,/e muta nome perché muta lato». L’onore dell’arte non è che un «fiato di vento», una brezza di mare passeggera che muta nome a seconda dei luoghi da cui proviene.
Ad esempio, qui spirava uno scirocco che ammorbava i sensi e le lenzuola. Da dove veniva? Mah… La finestra che dava sul giardino era aperta, ma la sola cosa che ricordo era un profumo nauseabondo di fiori in decomposizione. Erika si era avvicinata con le labbra al mio prepuzio e con la lingua gli infliggeva dei colpetti regolari in modo da aumentare la mia eccitazione. La cosa non mi disturbava. A parte la temperatura, che sembrava aumentare ogni minuto, ero piuttosto tranquillo, e libero. Di quella libertà che avrei sperimentato solo qualche anno dopo scrivendo le mie prime poesie.
Ero sereno, e questo dipendeva, me ne rendevo sempre più conto, dalla natura così poco sentimentale di Erika, dai suoi gesti dettati da un’umiltà tutta terrena, corporea, un’umiltà che non si guardava allo specchio, che non aspirava né all’onore né alla gloria, né a essere ringraziata.
Il contrario di quello che Dante e mio padre, ciascuno a suo modo, continuavano a fare, il primo, grazie alla sua opera, in eterno, il secondo, grazie alla sua scelta di non essere uno scrittore, per il breve tempo che gli sarebbe rimasto…
Nota
Il pezzo fa parte di un libro che uscirà a dicembre 2011 intitolato:
Ombre come cosa salda. Il Purgatorio letto dai poeti Canti X-XXVII, a cura di Marco Munaro,Testi di: Mikołajevski, Rizzante, Crico, Crosara, Brancale,
Antonello, Panero, Pravo, Scotto, Rueff, Fo, Arnaudo,
Casagrande, Morre, Panfido, Vallerugo, Dapunt
Immagini di:
Antaridi, Disan, Guerrato e allievi
Il Ponte del Sale, Rovigo 2011
Per ordini scrivere a:
ilpontedelsale@libero.it
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“Lodo l’amore delle cameriste!”.
forse c+è un refuso:
Io avevo quattordici (anni)
Natura e cultura. A quattordici anni. Certa gente ha proprio tutte le fortune!
;-)))
Gianni tu invece facevi il culturista, e si vede.:-)
Intanto vorrei dire a quanti sostengono che non su possa essere più cose alla volta, che Massimo Rizzante è l’unico che io conosca in Italia ad essere straordinario (in epoca di ordinari accademici) come saggista, narratore e poeta. Il che sarebbe abbastanza ordinario se a queste capacità non si aggiungesse quella di essere un grande giocatore di tennis.
effeffe
sottoscrivo le parole di effeffe e il fatto di saper giocare e bene a tennis rafforza il mio convincimento.
c.