Un altro sogno di Madeleine
di Marco Rovelli
[Transeuropa ha chiesto a diversi scrittori di leggere l’inizio del romanzo Madeleine dorme di Sarah Shun-lien Bynum fino al punto in cui la protagonista si addormenta, per poi provare a continuare da lì. Questo è il sogno che ho scritto. mr]
Madeleine si guardava intorno, non c’erano più né alto né basso. Il sogno ruotava su se stesso, dovevano aver dato troppo olio ai cardini. Era una giostra impazzita, i cavalli rococò schiumavano rabbia e fatica. Il maestro di cerimonia, di cui Madeleine sentiva la presenza senza vederlo, si diede alla fuga. Dal momento della fuga – ma il sogno era appena cominciato – i cavalli avevano preso a schiumare di gioia. Che Madeleine non capiva bene come fosse possibile, ma si sa che nei sogni è così che accade, e lei sapeva perfettamente di essere in un sogno. Madeleine era il solo essere umano, ma tutt’altro che sola, in quella giostra senza testa: dal momento che non c’erano né alto né basso, Madeleine scoprì con sorpresa che non era a testa in giù, ma stava in un vuoto diffuso, e provava la sensazione di stare in più posti contemporaneamente. E per quanto sapesse di essere in un sogno, riuscì per qualche istante a godersi quella sensazione ominosa. No, disse a se stessa (ma la voce risuonò per ogni dove), a casa non ci torno. Si guardò attorno ancora, e vide che non c’erano confini. La giostra non finiva, schiere di cavallucci imbizzarriti si stendevano a perdita di vista, e ognuno saltellava a modo suo. Con la sensazione complessiva, però, che quelle onde aritmiche producessero un’unica frequenza d’onda, concordia discorde. Successe allora una cosa strana: ancora nel pieno del sogno (un pieno vuoto, evidentemente), Madeleine cominciò a interpretare il sogno che stava vivendo. Pensò al liquido amniotico, alla sua unità primordiale. Fu un attimo: la punizione non tardò ad arrivare. Venne scaraventata fuori dalla giostra, un volo infinito e senza tempo, dunque un unico immenso istante, un volo sopra la schiera interminata dei cavalli schiumanti e balzellanti. Si trovò in una distesa verde, come fosse un prato, ma senza erba. Si percepiva solo l’assenza dei cavalli. Era planata di schianto su quella distesa, ma dolcemente. Si alzò come al rallentatore, presa di spavento. Uno spavento a scatti, che durò troppo. Non c’era nessuno intorno a lei, adesso. Stavolta era davvero sola. Urlò, e non accadde nulla. Urlò ancora, e ancora nulla. Urlò per la terza volta, e senti un rumore. Un piccolo, inudibile rumore. Sapeva che era inudibile, e pure lo sentì, e questo la fece spaventare ancor di più. Il rumore era d’incrinatura. Qualcosa s’incrinava, come un vetro, o una stoffa leggera (nel sogno le cose si confondevano). Si guardò intorno. Ancora nulla. Abbassò lo sguardo, e il rumore questa volta lo vide. Veniva dal suo corpo. Era come se ci fosse una cerniera che s’apriva. E seppe, in un istante, che non poteva far nulla per fermarne l’apertura. Tra poco sarebbe stata totalmente aperta, e il suo corpo si sarebbe diviso in mille parti, frammenti che avrebbero presto riempito quel vuoto cosmico in cui si trovava. In cui non si trovava, piuttosto. Seppe che stava per spezzarsi, e si abbandonò allo spezzamento. Fu come un gessetto sulla lavagna, il suo stridere acutissimo, miliardi di quegli scheletri animali che formano il gesso si misero in movimento, e vibrarono, producendo quel suono che riempì, ancora in un istante, l’intero spazio pienovuoto, e lei si perse in quel riempimento. Fu felice, finalmente, coincidente con quello stridor di vite. Felice, immensamente felice. Non sarebbe mai tornata a casa.