NUOVI INQUADERNATI 7.
VINCENZO FRUNGILLO
La fine di Lucrezio
“Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo”.
Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.
La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere;
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione;
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.
Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen!
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.
Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera
in una fusione che non s’avvera.
Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.
Adesso sento crescere la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega mortale del clinamen.
Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.
Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende…
(il gallo nasce non dall’uovo
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.
Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto.
Resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.
Una
è la regola,
ma varia la misura,
tornano i corpi verso la fonte,
poi se ne allontanano per repulsione,
così gli astri, così la luce, così il sole
ripetono la rivoluzione, la regola prima della generazione
e anche se alla fine il vulcano mi darà ragione,
tutto intorno sarà solo cenere e distruzione,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna d’Iperione.
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda, Memmio,
il sole.
Vincenzo Frungillo nasce nel 1973 a Napoli. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo libro di versi Fanciulli sulla via maestra (Palomar, Bari). Nel 2007 è stato finalista del Premio Delfini con Ogni cinque bracciate. Un estratto. Nel 2009 pubblica Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, (Le Lettere, collana Fuori Formato, con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis). Un piccolo estratto del libro è stato tradotto in Germania, una parte più ampia è in corso di traduzione negli Stati Uniti. Nel 2011 è tra gli autori di La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone). Parte del primo capitolo del romanzo inedito Il genio degli avanzi verrà pubblicato in dicembre per La Libellula. Rivista di italianistica. E’ redattore di Puntocritico e Absoluteville.
Azzurra D’Agostino
Yari Bernasconi
Eleonora Pinzuti
Mariagiorgia Ulbar
Fabio Donalisio
Marco Simonelli
Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.
Versi lapidari e sapienziali insieme, la potenza del domandare originario. Degna rilettura di Lucrezio!
mi sembra un gran testo.
La poesia di Vincenzo Frungillo mi sembra la più degna erede di quella tendenza poematica che si diffonde nel secondo Novecento e che conta tra i suoi più grandi autori Majorino, Pagliarani, fino ad arrivare a Luigi Ballerini.
Come si poteva notare nel suo poema del 2008, Ogni cinque bracciate, mi pare che si superino le classiche distinzioni e conflitti tra Neoavanguardia e, in un certo senso, ritorno all’ordine, facendo confluire in un solo testo le due tendenze egemoni del secondo scorcio del secolo scorso. Non a caso, di certo, Ogni cinque bracciate era prefato da Elio Pagliarani – che, benché si tenti di “disnovissimizzarlo”, apriva l’antologia dei novissimi del 1961 – ed aveva una postfazione di Milo De Angelis, tra i più importanti rappresentanti della tendenza “parolainnamorata”.
Il poema “narrativo”, che con tanto clamore era stato accolto dalla critica, adesso diventa un vero e proprio Long poem, per utilizzare una categoria anglosassone. Poema filosofico che, nella nostra tradizione, in un modo o nell’altro è stato sempre riassorbito dallo stile epistolare – ricordo in questo caso sì i Sepolcri e sì anche le Lezioni di Fisica o Fecaloro. E qui, l’autore ci dà prova di riallacciarsi a questa tradizione (che più facilmente viene collegata grazie alla ripresa del poema delle cose lucreziano) –
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda, Memmio,
il sole. -.
Un’altra notazione, così a freddo, sui “nuovi inquadernati” che sono apparsi sino ad ora, riguarda l’utilizzo delle RIME. La rima in poesia è stata stigmatizzata per tutto il secolo scorso con punte più o meno accese di polemica. Era giunta negli anni ’90 apparendo in composizioni più o meno manieristiche ed aveva una sua funzione dissacratoria. Qui come nelle poesie di Simonelli o della Ulbar, mi sembra invece che le rime non abbiano alcun intento “ironico” “parodico” –
ripetono la rivoluziONE, la regola prima della generaziONE
e anche se alla fine il vulcano mi darà ragiONE,
tutto intorno sarà solo cenere e distruziONE,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna d’IperiONE.
Sono all’interno di un discorso “serio” e affatto collegato allo stile fiabesco o quotidiano – per fare due esempi quelli di Patrizia Cavalli e, da ultima, di Francesca Genti. È come se ci fosse una sorta di “ritorno all’ordine” controllato. In questo – e tanto nella Esterina trans di Marco Simonelli – ho come l’impressione che si possa parlare di un “montalismo di ritorno” – che del resto anche in autori più sperimentali è tanto presente. La rima dagli Ossi di seppia, passando per le Occasioni e tutte le altre raccolte del “nostro Montale”, è fuori da un discorso “crepuscolare”, ma tutta all’interno di un discorso filosofico, di letteratura “alta” – se ha ancora un senso utilizzare questa categoria.
l.
@luciano
volevo per ora ringraziare l’attenta lettura di Luciano alle mie cose. Fa piacere essere letti! Si è perso nel testo la forma del calligramma finale.
denso
Di questa serie molto compatta e intensa, mi ha colpito molto “La pausa al crollo verticale”, in cui l’andamento deduttivo dominante incontra un esplosiva concretezza di dettagli, ma è un procedimento che si ritrova un po’ in tutti i testi.
C’è molto controllo e sintesi e un occhio osservatore preciso e calibrato, a una prima lettura. Ed è un ottimo contrasto con la carica esplosiva sottostante.
Gli ultimi quattro versi mi rapiscono.
Grazie, Vincenzo.
L’incipit mi fa venire in mente Simone Weil, quando definiva la forza come ciò che rende “cosa” chiunque le si sottometta. Per dirla con Lucrezio, il mondo è un campo di forze. I versi di Frungillo indicano con decisione nella poesia una via d’uscita, oggi, più necessaria che mai.
Frungillo ha trovato la sua strada stilistica che rafforza in ogni nuovo scritto.
(re)inserire lucrezio all’interno di una riflessione (ma più che altro macinazione) poetica è cosa degna di nota. farlo osando (l’asincronia, il troppo, il di là) ne rafforza la dignità.
@Francesco
forse era il caso di specificare che questo testo nasce proprio da una considerazione sul suicidio di Lucrezio. Il poeta aveva circa 40 anni. Ma, in realtà, questo poemetto vorrebbe essere una considerazione più ampia sulla fine delle cose. Memmio è il lettore sublime e destinatario del De rerum natura. Possiamo anche dire che è colui che legge il De rerum natura e ne coglie il sublime.
@Andrea
grazie per quanto scrivi. Questo commento è per me importante, segno della ricezione di cui si diceva. Grazie. Del resto questi versi nascono da un progetto che ci ha accomunati.
@Luciano
Quanto scrivi sulle rime è a mio avviso importante e preciso. Un nuovo ordine è un espressione che può dare adito ad equivoci, ma il senso del tuo intervento mi trova d’accordo.
@Marco.
Grazie!
@dc
Bello il saggio di Weil sull’Iliade come poema delle forze. Mi sembra un commento giusto.
Grazie a tutti per i commenti, anche a Domenico, Azzurra e Mariagiorgia.
un’espressione
Caro Vincenzo, mi confermi quella che era una mia precisa sensazione, infatti mi sembra che nei tuoi testi, e non solo nei versi iniziali, tu colga e riproponga in maniera incessante, il senso del finire, cioè l’essenza del nostro stare al mondo. cosa significa finire? E nel finire di tutte le cose quale senso assume lo specifico finire dell’uomo? In altre parole, cosa significa essere quel che siamo? E il senso di questo finire è un vuoto o peggio un nulla (di cui il vuoto non è altro che la fisicizzazione) o è “restare per sempre nella sua scena madre,” e a sua volta quello specifico finire che il suicidio è, non può essere in maniera riogorosa ed estrema una messa in opera della verità, come del resto lo sono, in maniera altra la poesia e la filosofia? La poesia se non si confronta con questi enigmi radicali non è niente e merita di essere trascurata. La tua affronta frontalmente (il gioco di parole è voluto) la lama affilata della parola e del pensiero e la mette in gioco, gioco serissimo e spietato.
Un caro saluto
ff
Ha proprio ragione Azzurra: denso. (Che è un bellissimo complimento.)
Caro Vincenzo,
il poemetto è stato per me illuminante. Ciò che più di ogni altra cosa mi ha colpito è il suo impianto formale. Ho avuto la sensazione che il poema si evolva in modo similiare a ciò che avviene nella fissione nucleare. Il nucleo dell’elemento pesante decade e diviene altro, ed altro ancora, e ancora altro, sprigionando complessivamente moltissima energia, che è poi il contenuto del poemetto. Forse il paragone è azzardato, ma mi è stato suggerito dai versi: “Una/ è la regola,/ ma varia la misura,/”. Mi ha affascinato poiché la sua forma mi è sembrata estremamente aderente alla natura delle cose, al suo mutare costante in una complessità disarmante ed estremamente significativa. Ti ringrazio e davvero complimenti.