Non fate come me
di Enrico Donaggio
Incrocio sotto casa corpi e volti appena scorti di là dal mare, al telegiornale. Pugni al cielo, sventagliate di mitra, grida di vittoria o paura tra bandiere che bruciano e piedi in fuga. Sono proprio loro: giacche di pelle come guappi anni Sessanta, tute da ginnastica degne di arresti domiciliari, qualcosa di sgualcito per sempre nel viso e nelle mani. Parlano e fumano attorno a un carrello della spesa zeppo di volantini pubblicitari, gli stessi che maledicono ogni giorno la buca delle lettere. Disgraziati che passano il giorno a infilare carta sudicia nei portoni: quel che aspetta le loro controfigure in rivolta, se tutto andrà bene, il giorno che riusciranno ad arrivare qui, nel centro di Torino, da Siria, Egitto o da altre miserie in scompiglio.
Energie indocili e feconde, qui già consunte e vane. Di fronte a questa scena cerco in quel che sento e so una scheggia d’intuizione che preservi da confusa mestizia, che aiuti a ridurre uno scarto e uno spreco, tenendo insieme per un attimo storia, politica e vita. La nostra: che fino a ieri collezionavamo incolumi esotismi in quelle terre low cost, nulla volendo intendere di sangue e violenza; e ora ci scaldiamo il cuore disquisendo di tumulti, rivolte e barconi di profughi, empatia per delega a eccitare dottissime inerzie. E la loro, della quale oggi colgo solo due estremi: mettere a repentaglio la vita armi in mano e consumarla ficcando reclame lungo il viale di casa.
Una possibile via d’uscita da questa schizofrenia comporterebbe – da parte nostra – una dissociazione di pessimo gusto. Il gesto di chi, obeso inquieto e nauseato, trovasse la faccia per raccomandare ai morti di fame una dieta alternativa; insieme alla petulanza di profetare che il nostro ingozzarsi, al quale potrebbero finalmente avere accesso, li condannerebbe a una tristezza più subdola di quella patita finora. Di riconoscere insomma, almeno a loro, quel che solo chi ha troppa panza e famiglia, qui da noi, finge ancora di non avere inteso: che il nostro stile di vita è una stella morta. Non avrà smesso di brillare, ma si tratta di un miraggio. E, soprattutto, non vale la pena.
Comodamente liquidabile come tartuferia pretesca, questo consiglio di sputare nel piatto in cui mangiamo costituirebbe l’unica cosa onesta – inutile magari, però almeno non ipocrita – alla nostra portata. Smetterla di lacerarsi tra identificazione sterili (volere essere anche noi come o addirittura meglio di loro, nei cieli autistici dell’immaginario politico) e dinieghi concretissimi di quelle aspirazioni nell’esistenza di ogni giorno. Confessare il segreto più ricco di speranza che si possa regalare a qualcuno, l’unico che possediamo con piena cognizione di ammanchi e ricavi: «Non fare come me». Un’ammissione che trasformerebbe la meta del loro coraggio in progetto o scommessa entusiasmante ed enigmatica per tutti: inventare insieme un modello diverso e nuovo di felicità privata, sociale, politica. Un’eventualità di fronte alla quale anche gli ospiti più ingrati d’Occidente deporrebbero riconoscenti – almeno per un attimo – boria, sconforto e inquietudine.
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Giorni fa è apparso un articolo, qui su NI dal titolo “Aboliamo il termine libertà”.
Propongo la rivisitazione del termine benessere. Il suo significato dovrebbe essere riferito ad uno stato fisico e psichico che si estende all’ambiente ed all’agire, corroborato dalla non sofferenza materiale ed economica.
Invece ha assunto nella nostra società il significato di abbondanza economica oltre le necessità, con disinteresse per l’ambiente che non sia entro le mura di casa propria. Benessere è divenuto sinonimo di spreco, di possibilità del lusso.
L’avidità ha avuto accesso abusivo al termine e gli va sottratto.
Chi vive nel non necessario non vive nel benessere ma nello spreco avido.
Invece, chiedere a chi ci vede sprecare le risorse dello stesso pianeta in cui abita di non voler fare lo stesso mi sembra poco realista.