Byron – I diari distrutti
di Franco Buffoni
La notizia della morte di Lord Byron a Missolonghi il 19 aprile 1824 giunse a Londra solo il 14 maggio. Superato lo shock iniziale, l’amico John Cam Hobhouse, nominato esecutore testamentario, ebbe un solo pensiero: distruggere la carte compromettenti. Non importava che si trattasse di opere letterarie. Che cosa accadde delle privatissime e brillantissime Memoirs, scritte a Venezia nel 1818, con sostanziali aggiunte apportate nel 1820 e nel 1821? Byron le aveva dapprima affidate al poeta Thomas Moore. In seguito, bisognoso come sempre di quattrini, aveva incaricato Moore di venderle all’editore Murray. Fu così che Hobhouse, forte della sua qualifica, in quei fatidici giorni di fine maggio del 1824, in una Londra ancora più uggiosa e deprimente del solito, riuscì a convincere la sorellastra Augusta Leigh a recarsi con lui da Murray. Il parente più stretto e l’esecutore testamentario convinsero l’editore della necessità – per il buon nome del poeta e della sua famiglia – di porre in essere la criminale distruzione. L’editore chiese soltanto di essere ripagato delle duemila sterline sborsate per acquisire il manoscritto. A nulla valsero le proteste di Thomas Moore, che fino all’ultimo si oppose in nome della volontà del poeta stesso e delle ragioni dell’arte. Il terrore prevalse e i preziosi diari vennero tutti bruciati nel caminetto della direzione della casa editrice.
Nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che Hobhouse avesse in mente se stesso, esclusivamente se stesso e la sua personale “reputazione”. Essendo intenzionato a vivere ancora a lungo e “velato” e a Londra, Hobhouse – svanite le pulsioni della giovinezza – aveva ormai una sola preoccupazione: che il suo nome scomparisse da qualsiasi riferimento ai gay, agli “iniziati” di cambridge, alla sodomia. E poiché The Memoirs, sincere e dettagliate, attorno a quei temi ruotavano, e il suo nome continuava a comparire (troppo stretto era stato il sodalizio, col primo viaggio in Grecia assieme Byron), non c’era che una via percorribile ai suoi occhi: convincere l’ingenua Augusta che la distruzione fosse l’unica soluzione possibile.
Comunque prevalsero i singoli egoismi: lo stesso Thomas Moore, che non smetteva di protestare, fu tacitato da Augusta e Hobhouse concedendogli obtorto collo il permesso di scrivere la prima biografia autorizzata di Lord Byron. Che naturalmente non doveva toccare l’argomento proibito, il “crimine senza nome”, l’omosessualità del poeta. Così nel 1830, Thomas Moore – a originali ormai distrutti – pubblicò nella sua biografia alcuni estratti dalle Memoirs: pochi passaggi, nei quali i termini compromettenti erano sostituiti da asterischi. Stessa sorte toccò a buona parte dell’epistolario. Una censura che cadde sull’espressione del sentimento e delle emozioni, oltre che sul sesso agito in senso stretto. Ma proprio del sentimento e delle emozioni si aveva maggiore terrore.
Se vi domandate come l’editore Murray poté sottostare a una simile richiesta è perché sottovalutate il clima ossessivo che a Londra si respirava in quegli anni, sul tema dell’amore “greco”. Le condanne alla gogna e a morte per sodomia erano estremamente frequenti. Questo deve indurci a provare comunque comprensione per tutti gli Hobhouse – intesi come categoria – coinvolti in questa vicenda tanto umiliante quanto significativa.
Se fece scalpore, per l’autorevolezza e il grado del condannato, la sentenza contro il capitano Henry Nicholas Nicholls, eseguita nel 1833, occorre tenere presente che quella non fu che la punta dell’iceberg: gli altri erano artigiani, commercianti, operai sprovvisti dei mezzi per pagare la cauzione e fuggire all’estero. Di ben diciotto impiccagioni eseguite tra il 1826 e il 1835 sono tuttora consultabili i fascicoli. Poi andrebbero messi nel conto anche i numerosi casi di suicidio, archiviati prima di giungere in giudizio e quindi derubricati. Tra questi, nello stesso periodo, anche quattro parlamentari. Un ossessivo clima di terrore in cui ricatti, vendette e denunce anonime erano all’ordine del giorno.
Una proposta di legge per l’abolizione della pena di morte per sodomia tra adulti consenzienti venne approvata alla House of Commons nel 1841, ma non fu ratificata dalla House of Lords. Il relatore Conte di Wicklow dichiarò che “se la Camera dei Lord avesse abolito la pena di morte per il reato di sodomia, sarebbe scaduta nella pubblica opinione britannica, che continuava a ritenere convintamente giusta e sacrosanta la pena di morte per tale innominabile e orrendo reato al cospetto degli uomini e di Dio”.
Quando l’Europa era (era?) ancora una teocrazia strisciante…
Hai ragione da vendere col tuo rilievo, caro Daniele. Purtroppo, molti per ignoranza (proprio per assoluta non conoscenza dei fatti storici e persino del concetto stesso di “civiltà culturale”), alcuni in perfetta malafede… contribuiscono a far sì che non si riesca a impostare una seria riflessione su questo argomento.
Mi sono sempre chiesto perché rappresentanti politici omosessuali praticanti, si oppongano, alcuni in modo eclatante, al riconoscimento civile delle coppie omosessuali; vi è forse un bisogno di clandestinità ?, magari poi è un semplice bisogno: un bisogno di sentirsi peccatori, di sentirsi “fuori” dal gruppo e poter peccare o poter pensare di poterlo fare a dispetto del’evidenza sociale.
Forse è solo una perversione, la loro.
…
Credo sia una perversione che ingigantisce il loro senso di colpa facendo leva su quintalate di omofobia interiorizzata durante la crescita (vd Formigoni). Il resto è sottocultura da clericali.
Per un certo clero penso che il meccanismo sia lo stesso.