Intervista a Vladimiro Giacché
di Helena Janeczek
Si chiama Titanic Europa (Aliberti, 14,00€), ma in circa 170 pagine contiene una nave e un iceberg ben più grandi: la crisi economica presa da molto prima del crack di Lehman Brothers, fino alla Grecia e l’Italia, perno del possibile naufragio, too big to fail ma troppo grande per essere salvata. L’ha scritto Vladimiro Giacché, dirigente della finanziaria Sator e, al contempo, marxista dichiarato. Nel saggio prevale lo sguardo dell’insider o la voce del militante? Entrambe, si direbbe, ma forse soprattutto qualcos’altro. Grande capacità di sintesi, chiarezza espositiva, scrittura agile. Si tratta per due terzi di un breviario utile a chiunque voglia integrare il costume di esprimersi come un allenatore con la più recente urgenza di dire qualcosa di sensato su spread e pareggi di bilancio.
Riconoscere le ragioni di una crisi di sistema e discernere le risposte affatto obbligatorie con cui si è reagito a essa, riduce il senso di impotenza di chi ne è investito quasi fosse un evento naturale. La grande bolla esplosa nel 2008 si stava preparando da decenni. Con la fine del boom industriale, la macchina del consumo e del profitto occidentale è stata alimentata togliendo ogni vincolo all’economia del credito e della finanza. Il suo rovescio è l’indebitamento, ma il conto della deflazione viene fatto pagare ai più deboli: negli Usa alle famiglie povere che avevano acceso un mutuo sulla casa, in Europa ai lavoratori costretti a rinunciare alle conquiste sociali. Il salvataggio delle banche, secondo un rapporto della Bank of England del 2009, è invece costato 14.000 miliardi di dollari, debito spaventoso assorbito a gratis dagli Stati che ora arrancano o si trovano nel occhio del ciclone. La cura non solo iniqua ma per giunta sbagliata – vedi i risultati in Grecia – dimostra, secondo Giacché, quanto un’ideologia possa resistere persino alla lezione della realtà.
Lei mostra di trovarsi in buona compagnia. Sempre più economisti riconsiderano Marx e ripetono, con Keynes, che imporre l’austerity in tempi di recessione è un’idiozia suicida. Ormai lo dicono non solo i più liberal, ma un numero crescente di colleghi mainstream. Perché la politica UE è diventata più realista del re nel farsi volonterosa esecutrice di una supposta volontà dei mercati?
Per due ordini di motivi. Il primo ha a che fare con l’ideologia. E più precisamente con l’idea che il “dimagrimento” dello Stato, la riduzione del suo ruolo nell’economia, sia sempre e comunque una cosa positiva. La ricetta giusta per la crescita economica sarebbe questa: politiche monetarie anti-inflazione da un lato, dall’altro massima libertà dei mercati e minimo ruolo dello Stato. Peccato che proprio la crisi iniziata nel 2007 dimostri che la massima libertà dei mercati comporta massima instabilità economica e finanziaria, e che soltanto un vigoroso intervento pubblico può in certi casi evitare l’avvitamento in una spirale depressiva e deflativa, che oggi rappresenta certamente un rischio ben maggiore di dosi moderate di inflazione. Non meno importante è però un secondo motivo, molto più concreto. Oggi una politica di austerity significa essenzialmente riduzione delle prestazioni sociali e pensionistiche. E quindi significa scaricare i costi della crisi sui cittadini, e in particolare sui lavoratori. Perché se il biglietto dell’autobus raddoppia o se per avere una pensione decente bisogna versare contributi anche a un’assicurazione privata, questo vuol dire che tutta una serie di spese che per alcuni decenni sono state a carico dello Stato torneranno a scaricarsi sugli individui. D’altra parte, per le società private a cui sarà attribuita la gestione di servizi ora pubblici, o che compreranno (magari a prezzi di saldo) questa o quella municipalizzata, tutto ciò rappresenterà invece una formidabile opportunità. Così come lo sono state le privatizzazioni degli anni Novanta. A cui sono seguiti però gli anni di crescita più bassa dell’economia italiana di tutto il dopoguerra: cosa che i pasdaran del mercato spesso dimenticano.
Monti è il primo della classe nel “fare i compiti” imposti. All’estero si sperava che in cambio riuscisse a incidere un po’ sulla rotta del Titanic. Purtroppo sembra più vero quel che ha scritto Krugman, con occhio particolare alla Grecia. Facile dire alla Bce e alla Germania quel che dovrebbero fare, dare consigli ai governi dei paesi periferici – tecnici o no, “bravi” o meno – è difficilissimo. Sono in trappola: possono solo implorare sconti di pena sull’austerità e aspettare che le cose vadano meglio o decisamente peggio. Da dove può saltar fuori un nuovo timoniere? Dalle elezioni francesi?
Una cosa è certa: un nuovo timoniere non può provenire né dai tecnocrati europei, cresciuti a pane e liberismo, né dai politici che ne condividono l’ideologia, apparentemente neutra, in realtà con forte connotato di classe. La sconfitta abbastanza prevedibile di Sarkozy alle prossime elezioni francesi sarà una buona notizia per l’Europa, soprattutto se Hollande terrà fede alle sue promesse elettorali di sconfessare il peggioramento del trattato di Maastricht che passa sotto il nome di fiscal compact. Ma a ben vedere non ci serve un nuovo timoniere con nome e cognome: molto più importante è che ai popoli europei sia finalmente concesso di dire la loro sulla rotta da seguire. Sono anni, ormai, che questo viene sistematicamente impedito.
Nell’acquisizione generalizzata che Berlusconi era ”ormai impresentabile”, sfugge un passaggio che inchioda il suo governo a una colpa precisa circa l’estendersi della crisi all’Italia. Ce lo riassume?
Questo passaggio riguarda precisamente il peggioramento del patto di stabilità di cui parlavo prima. Il Consiglio Europeo che lo ha deciso si è svolto nel marzo 2011, dopo mesi di discussioni, e il governo Berlusconi-Tremonti lo ha avallato senza fiatare, mentre avrebbe potuto e dovuto mettere il veto. Il problema è che il fiscal compact non soltanto generalizza l’obbligo di politiche di austerity, ma contiene anche norme che colpiscono in primo luogo l’Italia: a cominciare dall’obbligo di ridurre del 5 per cento annuo lo stock di debito eccedente il 60% del prodotto interno lordo. Siccome l’Italia ha un debito pubblico che si aggira sul 120% del pil, l’entità della correzione nel nostro caso è abnorme (circa 45 miliardi annui), e oltretutto va sommata agli oneri per interessi che comunque dobbiamo pagare (72 miliardi nel 2012). Se quel vincolo non sarà abolito, le correzioni di bilancio necessarie distruggeranno il welfare e impediranno per molti anni di effettuare gli investimenti indispensabili in formazione e infrastrutture. Tutto questo deprimerà la crescita e farà peggiorare il rapporto debito-pil. E’ un nonsenso economico. Di cui dobbiamo ringraziare il governo Berlusconi. Oltretutto proprio l’introduzione di quel vincolo ha attirato l’attenzione dei mercati sul caso italiano, sino ad allora rimasto ai margini della crisi (e giustamente, visto che in termini di deficit la nostra situazione era migliore di gran parte degli altri Paesi europei). Non a caso, da aprile 2011 comincia il peggioramento dello spread tra Btp italiani e Bund tedeschi, che dai 120 punti base di allora è giunto a toccare i 530 a inizio 2012.
Lei invoca “più Stato” per uscire dalla crisi e pensa che ci sarebbe da imparare addirittura dalla Cina. Parte della sinistra le obietterebbe con i diritti – non solo umani, ma anche dei lavoratori cinesi. E con la questione ambientale che non può essere disgiunta da quella sociale.
Mi sembra evidente che solo una forte ripresa dell’intervento pubblico nell’economia possa dare risposta ai problemi che il mercato si è dimostrato incapace di risolvere: come garantire uno sviluppo economico equilibrato, porre un argine alla distruzione dell’ambiente (ormai prossima a un punto di ritorno) e invertire il trend per cui della ricchezza prodotta socialmente si appropria una classe numericamente sempre più esigua (nei nostri Paesi l’impoverimento relativo e assoluto della classe lavoratrice previsto da Marx, di cui molti sociologi si erano presi gioco nei decenni scorsi, è una realtà sempre più evidente). Rispetto a tutto questo, bisogna prendere atto del fatto che se a Berlino nel 1989 ha fatto fallimento il modello dello “Stato senza mercato”, a New York nel 2008 è toccata la stessa sorte al “mercato senza Stato”.
Oggi bisogna sperimentare nuove forme di organizzazione economica della società, che sappiano trovare un giusto mix tra Stato e mercato. Mi sembra evidente che non è il giusto mix la soluzione “occidentale” di questi anni, in cui allo Stato si è affidato prima il compito di donatore di sangue per imprese private in difficoltà, per poi imporgli – passata la paura – un drastico ridimensionamento del proprio ruolo. Bisognerebbe invece tornare a riflettere su temi quali la pianificazione economica, il ruolo di indirizzo da attribuire al settore pubblico dell’economia da un lato, e quello dei produttori privati indipendenti. L’esperimento cinese non è un modello, ma è interessante proprio perché rappresenta un tentativo di combinare Stato e mercato in una sintesi nuova: una crescita economica del 9-10% annuo da trent’anni in qua, che ha strappato alla povertà 200 milioni di persone, non credo possa essere liquidata con poche battute. Di certo non lo ha fatto l’Economist, che ha dedicato uno dei suoi ultimi numeri all’ “ascesa del capitalismo di Stato” in Cina e in altri Paesi emergenti con elevati tassi di sviluppo.
Da dove bisognerebbe cominciare, per opporsi alle regole che oggi dominano l’economia e la politica? Quali potrebbero essere gli obiettivi di un’opposizione democratica? Quale il disegno più ampio verso cui tendere? Cosa pensa, per esempio, del “diritto all’insolvenza”? O della “decrescita felice” che rappresenta forse la formula più nota per un cambiamento a lungo termine?
Bisogna per prima cosa opporsi all’idea, che purtroppo ha fatto breccia in vasti strati della popolazione, che quanto accade sia fatale e necessario. Non è così: non è fatale la crisi, e non sono obbligate le misure intraprese per contrastarla, e che invece la peggiorano. Non esiste una sola misura che sia necessitata dai mercati e che non sia frutto di precise scelte politiche. In particolare: la politica di austerity intrapresa da questo governo, e coronata dall’introduzione della regola del pareggio di bilancio in Costituzione, è una politica di destra. Oggi una politica di sinistra significa invertire di segno quella politica. E quindi: denunciare il fiscal compact europeo, farla finita con una politica decisa dai movimenti giornalieri dello spread e più in generale restituire alla democrazia – e quindi ai poteri pubblici – i suoi diritti. A cominciare da quello di regolamentare i mercati e i movimenti di merci e di capitali, dove necessario. Oggi il nostro Paese ha tre grandi emergenze: la riduzione della disuguaglianza, una politica di investimenti pubblici per migliorare la competitività di sistema e tornare a crescere, una fiscalità efficiente (che recuperi i 120 miliardi sottratti ogni anno all’erario e attui finalmente una progressività fiscale che in questo paese non si è mai vista). Per risolverle, bisogna tornare a praticare una politica industriale e una politica dei redditi: entrambe cose ben lontane dall’orizzonte dei tecnocrati che ci stanno (pessimamente) governando. Nel più lungo periodo, è evidente che il modello di sviluppo attuale non tiene. Ma l’unico modo per sostituirlo con qualcosa di progressivo è attuare forme di controllo sociale della produzione. Lo vediamo anche a proposito della “decrescita felice”. Sotto questa etichetta si celano cose piuttosto diverse tra loro. Ma comunque si declini questo tema, il controllo dei tassi di crescita presuppone forme di governo dell’economia non identificabili con l'”anarchia della produzione” capitalistica: e quindi anche per questa via torniamo al tema delle forme di controllo sociale della produzione oggi praticabili.
Per finire, quanto al “diritto all’insolvenza”, non mi sembra un diritto che la sinistra debba rivendicare. Continuo a pensare che sia meglio far pagare il debito a chi in questi decenni non ha mai pagato: la prima regola del gioco che dobbiamo cambiare è questa.
Una versione più breve è uscita su L’Unità, 19 aprile 2012.
Governo tecnico Monti assolutamente pessimo. Nessuna alternativa credibile all’orizzonte. Dati alla mano, crisi decennale – e forse irreversibile – della politica.
Due brevi osservazioni.
La prima è che non mi pare che la responsabilità del fiscal compact non possa essere attribuita in via esclusiva a Berlusconi, vista che la messa a punto è avvenuta nel marzo 2012 e che l’obbligo del pareggio di bilancio che ne rappresenta uno degli stadi fondamentali di attuazione si è appena concluso al senato con la complicità di quasi tutte le formazioni politiche, e che su tutto questo, lo stesso Monti non mi pare abbia minimamente obiettato.
La seconda è che oggi, la ricetta keynesiana non potrebbe comunque funzionare perchè in ogni caso oggi sarebbe declinata in chiave monetarista.
C’è, è vero, la Merkel col suo rigorismo strumentalmente funzionale alla sua Germania, ma c’è anche il keynesianesimo monetarista dei paesi anglosassoni che è alla radice di questa crisi e che non ne può costituire in alcun modo la soluzione.
Perchè mai nessuno parla mai del problema dello stato di fallimento tecnico del sistema bancario globalizzato, un macigno che se non risolto attraverso decisioni drastiche e drammatiche, finirà col seppellirci?
intervista interessantissima che rileggerò sicuramente con più calma. e mi procurerò il testo. anche perché ho intenzione di leggerlo nella prospettiva de “il lungo xx secolo” di arrighi. grazie helena!
felice decrescita(il sole sorge ancora fuori dalla sala delle slot.Giuro)
http://italiasempre.com/fileMP3/comepioveva.mp3
Mi sono scappata in Italia in un tempo sospeso. Non ho votato ieri. Perchè avevo il desiderio de leggere, sognare, incontrare il mare, sentire il sangue vitale del mare, dimenticare, respirare. Il cielo in Francia è angosciante. Nella mia città Marine Le Pen è seconda dietro Hollande. Non ho votato per respirare, per allontanarmi. Ma le elezioni francesi mi hanno seguito. Anche in Italia, vedo un cambiamento negli volti: preoccupati. Tristezza in Europea, crisi contro tutta bellezza, contro tutta luce. Cerco lo squarcio della luce nel porto, sotto il cielo d’ombra, ho solo come riparo, un libro e il mare. Sono amici in tempo di inquitudine.
Ma al secondo turno andrai a votare, vero? Tu quella piccola cosa per fermare i fascisti e gli eurocrati puoi farla..per noi tutti :-)
a proposito di modelli “cinesi”:
rchiviostorico.corriere.it/2012/aprile/12/vostri_privilegi_Eccessivi_Cina_non_co_8_120412022.shtml
http://finanzanostop.borse.it/2012/04/12/andy-xie-economista-cinese-la-cina-non-investa-in-italia/
Interessante intervista, anche se niente di veramente nuovo.
Il punto sul fiscal compact – ridurre in 20 anni il debito al livello del 60%, significa per l’Italia una descrescita garantita del 3% (del debito, che essendo al 120% del PIL diventa pari al 3.6% del PIL). Visto che l’italia vivacchia con una crescita di circa l’1% quando va bene, con il trattato sul fiscal compact ci siamo garantiti 20 anni di crisi economica e di casini futuri con i tedeschi, perchè una volta firmato un trattato EU è difficile voler tornare indietro (La cosa più comica, poi, è che il trattato prevede sanzioni economiche per chi non lo rispetta e dovesse chiudere i conti in passivo).
Altri spunti, gettando nel mucchio, sarebbero:
– il debito italiano è ormai il risultato dei soli interessi cumulati negli ultimi 20 anni, e quindi, di fatto, si è già autoalimentato una volta. Se volete fare la controprova, calcolate 50 miliardi di € di interessi sul debito per 20 anni (50 X 20 = 1000, cioè il 50% o un trillion, manco fossimo a Paperopoli). E questi sono solo interessi semplici. Per i composti, usate una calcolatrice o chiedete a Sparzani, e vedrete che i conti, sostanzialmente, (quasi) tornano.
Se sommiamo questo al fatto che nella costituzione italiana, (“il baluardo del diritto bla bla bla”), accanto al mitico lavoro che ormai non c’è più, è stato affiancato il principio del pareggio di bilancio, si capisce per cosa stava la X di X-generation che non si esprimeva mai: taX.
– la crisi polarizza sempre di più le due generazioni a confronto, quella che il debito lo ha contratto, lo ha usato per mettere in piedi l’ottimo sistema sociale italiano, e lo ha usato per godersi in prima persona una serie di costosissimi cubalibre ai Caraibi – vedi Ginsborg sul cambio generazionale di abitudini fra nonni e padri – e quella che il debito se lo trova addirittura nella Costituzione senza nemmeno aver fatto la resistenza, in uno scontro generazionale in cui i padri sono e rimarranno economicamente più forti dei figli. La soluzione sembrerebbe quella di un Edipo da sfinimento, in cui, come già accade con l’acquisto delle case, saranno i padri un giorno a togliere il disturbo, e non i figli ad uscire di casa. Un decennio perduto alla maniera giapponese, insomma.
– l’IMU è, nei fatti, già una patrimoniale light. Per calcolare quanto l’insieme delle tasse aumentate (IVA, IMU, etc. etc) peserà sul cittadino italiano, si deve calcolare una riduzione del 5% del debito (o PIL, trascurando il fatto che uno è il 120% dell’altro). Essendo il debito pro capite circa 32.000€, si tratta di circa 1600e a testa, all’anno, per almeno vent’anni (fiscal compact). A garanzia di questo risultato si impegnano tutte le nuove colonie sud-europee.
– un trucco per restituire la sovranità monetaria ai PIGS ci sarebbe. La faccenda è un po’ monetaristica, ma non è difficile da schematizzare. La moneta si crea alla BCE e la si distrugge quando con essa si pagano le tasse. E’ poi equivalente creare moneta o distruggere moneta pagando le tasse (qui, di nuovo, Sparzani potrebbe aiutare commentando un po’ la teoria di Dirac delle buche e degli elettroni nei conduttori, che calza a pennello – vedi oltre).
Andiamo al punto: è stato suggerito, per risolvere l’impasse della perdita di sovranità monetaria da parte dei PIGS (ma ci sarà da qualche parte un articolo dei diritti dell’uomo che vieta di chiamare su tutti i quotidiani del regno i popoli di 5 stati membri con un appellativo dispregiativo come questo, o manco quello c’è, nei trattati EU?), di emettere bond italiani garantiti al 100% da default quando questi siano usati per pagare le tasse allo stato italiano.
La soluzione è simmetrica a quella della creazione e della svalutazione della moneta: invece di creare o svalutare la moneta, emetto o garantisco da possibile svalutazione il bond quando questo è usato per distruggere moneta, ovvero al momento del suo utilizzo per il pagamento delle tasse (italiane, mi raccomando), e ho recuperato la sovranità monetaria. La soluzione è tecnica, ma fila. Vediamo quando e se ci arrivano anche i politici.
Per concludere:
Non so. Forse i tedeschi farebbero bene a gettare la maschera e dichiarare il quarto Reich, che senza ispirarsi troppo al terzo, potrebbe anche somigliare a un secondo Reich, un Heiliges Oeconomisches. Noi italiani faremmo bene a comprarci casa a Berlino o a delocalizzarci in DE finché siamo in tempo e il costo al metro quadro è basso.
Dopo stasera, speriamo solo che Hollande, facendo gli interessi francesi, finisca per fare un po’ anche i nostri, visto che noi non ne siamo molto capaci.
Buonanotte a tutti e scusate la sbrodolata.
Due osservazioni.
L’una riguarda la natura della crisi. Al momento, il problema non è dovuto ad un inflazionamento di denaro, ma ad un inflazionamento di titoli di vario genere, ma prevalentemente titoli creati dal sistema bancario, cioè da privati. Il problema del debito pubblico è semplicemente un non problema, lo è soltanto in quanto il sistema bancario scarica su di esso la difesa dei titoli di propria emissione, in gran parte i cosiddetti derivati.
L’ultima evidenza che di debito privato si tratta è dato dal maxiprestito (in realtà un regalo vero e proprio) concesso dalla BCE alle banche europee per l’importo enorme di mille miliardi di euro. Tanto per mantenere le proporzioni, alla Grecia sarebbero bastati centotrenta miliardi per eliminare l’intero debito pubblico (all’inizio della crisi).
E’ proprio la natura privata del debito e del suo enorme ammontare (circa seicento mila miliardi di dollari, corrispondente a circa nove volte l’intero PIL mondiale) che imporrebbe a governi degni di questo nome un intervento molto drastico che prendesse atto del fallimento del sistema bancario, predisponendone uno di riserva di natura pubblica in modo da non paralizzare il commercio mondiale.
In questo scenario, si innesta la politica economica tedesca che per dirla in breve finanzia la propria importazione di merci cinesi con l’esportazione verso gli altri paesi della UE, noi inclusi ovviamente, e che perciò deve imporre questa austerità.
Malgrado la natura suicida di tali scelte economiche, sarebbe assurdo credere che questo sia il problema, il problema è sempre lo stesso di quello manifestatosi nel 2008 allo scoppio della crisi, e che non è mai stato risolto, solo toppe messe dai vari governi stampando moneta a coprire le falle più macroscopiche del sistema bancario.
Come dovrebbe essere evidente a tutti, stasmpare moneta non è una soluzione perchè rischia di propagare alla moneta l’inflazionamento già in atto nel settore dei titoli, e quindi di fatto si traduce in un rinvio del redde rationem, che però di rinvio in rinvio diventerà sempre più dramamtico.
Concordo in toto, anche sulla faccenda del monetarismo come cosmesi economica a scopo di guadagnare tempo che adesso va molto di moda: ad ogni stagione, la sua ideologia. A me non attira particolarmente come tale, ma trovo comunque interessante il fatto che il dibattito economico si sia incagliato sulla moneta come capro espiatorio.
Sul fallimento del sistema bancario e della sua origine nel debito privato – quindi con il problema del debito pubblico come un falso problema – di nuovo, concordo. Quello che mi mette ansia sul serio, se però ci rifletto a sangue freddo, è che, una volta accettato lo stato di bancarotta dell’intero sistema bancario, che si fa? Io non sono in grado di prevederne le conseguenze concrete.
In tutta sincerità, non lo so proprio.
l’idillio tra le singole nazioni che compongono la comunità europea e le autorità politiche economiche della stessa è ben rappresentato di una frase di una canzone di renato zero(quando lo stesso praticava fertili avanguardie dando segno di se),”morire qui”:
“Ho un’anima con me,
Conosco quanto vale…
E non la venderò!
(Se non è proprio un affare!)”
A proposito,questa avrebbe potuto sottoscriverla pure Byron
http://inoixor-traderpassion.blogspot.it/2012/02/la-verita-sulla-greciaparola-di-mikis.html
Helena, non so per il secondo turno. Non ho fiducia in Hollande, ma forse mi sbaglio. Ho ancora il gusto amaro della sconfitta di Ségolène Royal in 2007. Avevo sognato una donna di sinistra come presidente della Francia. La politica mi ha delusa. Ho paura che la Francia faccia come la Grecia. Mi colpisce l’ambiente di inquietudine, di tempo in sospeso, minacciato. Mi rammento
Genova con colori, le strade con turisti, coro di voci. Genova è sempre bella,
ma di una bellezza abbandonata, con il porto contro piove il mare e l’ombra di una giovinezza preoccupata.
Finalmente credo che andro al secondo turno per avere un po’ di speranza.
Véronique, Hollande non è né irresistibile né probabilmente farà molte cose di sinistra (o cose molto di sinistra). Possibile pure che sulla rinegoziazione del fiscal compact ci andrà piano, benché c’è mezz’Europa e anche più che no aspetta altro.
Ma la vittoria di un socialista in un paese centrale e grande come la Francia cambierebbe un po’ le cose in meglio per noi tutti – e magari aiuta a darci una scrollata.
Se queste speranze sono eccessive, sicuramente male non farebbe. Io ci proverei.
A Vincenzo e Matteo vorrei dire, proprio da Deutschland.
Io non credo che sappiano davvero quel che fanno. Ossia sono d’accordo con Vincenzo che parla di politica suicida. Hanno memorizzato male un sacco di lezioni della storia. L’iperinflazione di Weimar, per esempio, che non è quella che portò all’ascesa di Hitler, bensì la politica di austerità durissima (suona qualche campana) del cancelliere Bruening negli anni ’30-’31 che porto la disoccupazione alle stelle.
Nel ’23-’24, con l’inflazione galoppante, i ceti popolari vivevano di patate, cavoli e rape, ma negli anni ’30, non avendo più lavoro, non si potevano permettere più manco quelle (estremizzando, per capirci.
L’altra lezione memorizzata male è la riunificazione. Che è stata estremamente dura, dolorosa, persino traumatica per i tedeschi dell’Est – e questo è un mezzo rimosso, dicibile solo nei canoni addolciti della cosidetta “Ostalgie”. Ma soprattutto occorrebbe ricordare che dalle sue conseguenze (disoccupazione, deindustrializzazione ecc.) si è venuti fuori investendo per decenni un sacco di soldi in quei territori.
Il problema è che per venire fuori dal disastro, per inventarsi un modo nuovo di produrre o far fruttare le risorse, ci vogliono i soldi. Per la ricerca, la formazione, la conservazione e valorizzazione ecc.
Ma su questo c’è, fino a oggi, una sordità totale.
Da tenere conto anche quello che dice Stigliz: “Cosa sta succedendo alla maggior parte dei cittadini in ogni nazione? Se si guarda all’America, si deve ammettere che abbiamo fallito. La maggior parte degli americani oggi è più povera di 15 anni fa. Un lavoratore a tempo pieno negli Usa è più povero oggi che 44 anni fa. Questo è sbalorditivo – mezzo secolo di stagnazione. Il sistema economico non è distributivo. Non importa se poche persone al vertice sono strapagate – quando la maggioranza dei cittadini non si è arricchita, il sistema economico non funziona.”
Piccola osservazione: sarà pure monetarismo keynesiano e quindi non la soluzione, ma se – come osserva Matteo – l’Europa avesse coperto il debito greco o se la Bce avesse (meglio prima che dopo) agito come prestatore di ultima istanza, saremmo messi assai meglio.
Non so se convince il paragone: ci sono terapie – dagli antiobiotici in su – che sappiamo fanno male, ma in una fase acuta è insensato e pericoloso farne a meno.
Scusami, Helena, ma l’esempio che porti non mi sembra appropriato.
Infatti, mentre l’antibiotico, farà anche male, ma vince l’infezione batterica, immettere liquidità rinvia il problema. E’ difficile fare un paragone di tipo medico perchè qui siamno in un ambito collettivo.
E’ chiaro che su un piano competitivo, ha una sua funzione, scaricare su altri i problemi, come hanno fatto gli stati anglosassoni, ma in nessun senso si può considerare la soluzione.
Che invece la BCE sia prestatore di ultima istanza potrebbe costituire un deterrente a costo quasi nullo perchè elimina alla radice ogni tentativo speculativo, e davvero il fatto che la Germania si opponga non può che avere motivazioni di tipo simbolico, e tutto interno alla UE.
Rimane il fatto che senza procedere alla distruzione dei titoli tossici, o quantomeno a una loro forte svalutazione, la bolla prima o poi scoppierà comunque senza salvare nessuno, neanche, sia chiaro, i paesi BRICS.
Per questo prepararsi a sostituire l’attuale sistema bancario ormai infettato irreversibilmente con uno pubblico sarebbe l’unica, seppure assai pesante soluzione per dare continuità al commercio mondiale, perchè altrimenti rischiamo davvero di tornare al baratto.
Insomma, non è che io sottovsaluti il problema specifico della UE, dico piuttosto che si treatta di due distinti problemi che è bene considerare separatamente. Ciò di cui mi dolgo è che il problema dei titoli tossici sia stato rimosso almeno sulla grande stampa internazionale.
Io più che un paragone con l’antibiotico, parlerei di droga. Il sistema é in overdose da titoli tossici privati e ha sintomi da debito pubblico. Che fare?
– terapia shock di disintossicazione di scuola viennese (DE)
– lenta disintossicazione con assunzione di QE/LTRO di scuola keynesiana (USA)
Il primo problema – come giustamente dice Vincenzo – è che la terapia d’urto dell’austerità riguarda solo il debito pubblico- le banche et alia continuano come prima, più di prima.
Dopodicché lascio a voi le considerazioni sull’appropriatezza o meno delle similitudini. Non mi pare questo il punto, e – fuor di metafora – mi pare che siamo piuttosto d’accordo.