Byron – Il tabù
di Franco Buffoni
Per oltre un secolo dopo la morte di Byron, anche solo toccare l’argomento omosessualità in Inghilterra fu tabù. Si dovette attendere il 1861 perché finalmente le due camere votassero l’abolizione della pena di morte per il reato di sodomia tra adulti consenzienti, sostituendola con il carcere a vita. Nei decenni successivi la pena venne ridotta a un numero ristretto di anni, fino a giungere ai due anni di carcere duro comminati a Oscar Wilde nel 1895. Ormai, se non altro, il lessico concedeva definizioni post bibliche: uranismo era in uso in Germania dal 1862, omosessualità dal 1869; e “inversione sessuale” divenne un’espressione ricorrente nei trattati scientifici continentali a partire dal decennio successivo. A fine secolo, con enorme fatica, Havelock Ellis riuscì a farla entrare in circolo anche nel mondo anglosassone.
Solo in questo quadro è possibile comprendere una delle maggiori mistificazioni bio-letterarie dell’Otto-Novecento. Voluta da Byron stesso per legittima difesa negli anni delle gogne e delle impiccagioni, la mistificazione è stata poi certosinamente reiterata da ricercatori fasulli e agiografi imbecilli, totalmente privi di motivazioni etiche e civili, ma ben provvisti dei propri pregiudizi omofobici.
Gli amici di Byron – in primis il suo esecutore testamentario Hobhouse e il suo editore Murray – fecero di tutto perché non restasse traccia – o comunque non si parlasse – dell’omosessualità del poeta. Che invece riuscì a costruirsi una duratura immagine di tombeur de femmes, divenendo una sorta di sex symbol per le signore dei due mondi, come in seguito furono Rodolfo Valentino e Elvis Presley. Fu l’homme fatal quando non si parlava ancora di femme fatale, nata nel secondo Ottocento con Madame Bovary.
La realtà era ben diversa: Byron era sentimentalmente e ossessivamente omosessuale, capace di innamorarsi solo di ragazzi e di giovani uomini; però, grazie alla sua esuberanza sessuale, era anche in grado di soddisfare le numerose donne che gli si offrivano. Da qui l’equivoco, duro a morire, circa il grande amatore. Ma un conto è innamorarsi e amare (i ragazzi); un altro conto è esercitare una attività sessuale senza coinvolgimento emotivo (anche con persone dell’altro sesso). Oggi, al riguardo, si distingue tra “orientamento” e “comportamento” sessuale.
Meglio di ogni mia parola, può chiarire il punto questa pagina di Tolstoj: “Per me il segno principale dell’amore è la paura. La paura di offendere o di non piacere all’oggetto amato, semplicemente la paura. Sentivo una vampa di calore quando lui entrava nella stanza. Sebbene inconsciamente, io di null’altro mi preoccupavo che di piacergli. Non sono mai stato innamorato di donne. Ho sempre amato uomini che erano freddi verso di me o al massimo mi apprezzavano. Non dimenticherò mai, ad esempio, le notti quando io e Djakov uscivamo da Pirogovo e avevo voglia di abbracciarlo e di piangere”. (Lev Tolstoj, Diari, 29 novembre 1859).
E mentre per noi oggi il discorso cause-malattia è ovviamente superato (se l’omosessualità è una malattia occorre cercarne le cause; se non è una malattia, non ha senso cercarne le cause: omosessuali non si nasce né si diventa: omosessuali si è), all’inizio dell’Ottocento solo un uomo della sensibilità e dell’intelligenza di Byron poteva precorrere i tempi ed essere “freudiano” ante litteram, chiedendosi se la sua “ossessione” (il desiderio per i ragazzi) dipendesse dall’essere senza padre e senza fratelli.
La verità su Byron non poterono certo rivelarla Thomas Medwin, nel suo Journal of the Conversations of Lord Byron at Pisa, apparso a Londra nel 1824 (ed. cons. E. J. Lovell, Jr, a cura di, Princeton U.P. 1966), né gli altri contemporanei del poeta: Leigh Hunt in Lord Byron and Some of his Contemporaries (Londra 1828) e Thomas Moore in Letters and Journals of Lord Byron with Notices of his Life, Londra 1830.
Le rivelazioni sincere e personali stavano soprattutto nelle Memoirs del poeta stesso, distrutte in gran parte da Hobhouse e Murray. Restavano delle tracce nell’epistolario, nelle testimonianze dirette e soprattutto nelle opere, a saperle leggere. Tracce che tuttavia nessuno volle (o potè) mettere in luce praticamente fino alla metà del Novecento. Va dunque riconosciuto che la tattica della distruzione messa in atto da Hobhouse ebbe successo; fino alla sua morte, mentre si moltiplicavano le edizioni delle opere di Byron e le biografie, nessuno mai pubblicò una sola riga sull’omosessualità del poeta. E quindi dei suoi “amici”: Hobhouse aveva così “salvato” se stesso. Paradossalmente la parola venne coniata proprio nel 1869. Si dovette giungere al 1873 perché in un articolo – apparso sul St. Paul’s Magazine a firma di Lord Roden Noel – si iniziasse ad accennare, sulla scorta della famosa lettera di Shelley a Peacock, ai rapporti veneziani di Byron con i travestiti.
E solo nel 1884, sulla prestigiosa rivista “Athenaeum”, un anonimo critico – che si firmò A.B. – insinua il dubbio che “Thyrza” non fosse Margaret Parker, cugina di Byron (morta quando il poeta aveva dodici anni), come all’epoca ancora ufficialmente si sosteneva. A.B. sfiora la verità, accennando alla “cornelian” e quindi spostando l’attenzione sulle amicizie di collegio, ma poi in qualche modo ritratta, concludendo l’articolo con l’opinione di Thomas Moore: una vera e propria Thyrza forse non era mai esistita.
Browning, circa i Sonetti di Shakespeare, aveva appena dichiarato “If so, Shakespeare the less!”. Se è così, se il fair youth fu amato dal poeta, allora Shakespeare vale meno. Anche Byron non poteva valere meno: non poteva avere amato gli uomini.
Si giunge così alla fine dell’Ottocento con l’immagine del poeta “intatta”. Saranno articoli e saggi di scrittori francesi, tedeschi e italiani a rimettere l’argomento in circolazione. E il Novecento, grazie alla filologia, sui documenti sopravvissuti, avrebbe cominciato a sollevare il velo per dire quella verità che, in qualche momento, Byron aveva persino tentato di gridare al mondo. Va infatti ricordato che The Memoirs furono bruciate malgrado Byron stesso, come ricorda nei Detached Thoughts, le avesse già emendate.
Sarà soltanto nel 1957, con la divulgazione del Wolfenden Report, ben nove anni dopo lo shock statunitense del rapporto Kinsey, che l’Inghilterra cominciò a riflettere in modo laico sull’omosessualità. In precedenza, persino gli studi accademici venivano censurati se scivolavano verso tale ambito! Ancora una volta la scienza stava per sconfiggere le superstizioni, persino le peggiori: quelle con matrice dogmatico-religiosa, perché tinte di sacralità. Dando ragione a Jeremy Bentham scienziato sociale, economista morale.
Mi paiono molto significativi questi altri dati: mediamente, fino al 1955, in Inghilterra le condanne a pene detentive variabili da sei mesi a cinque anni per omosessualità furono circa 800 ogni anno. Il picco venne raggiunto nel 1952 (l’anno dell’ascesa al trono dell’attuale regina) con ben 3000 condanne. Ciascuno di questi casi (sempre tra adulti consenzienti) significava arresto, ricerca delle prove, perquisizioni domiciliari e della corrispondenza: in pratica la rovina sociale della persona inquisita.
La commissione governativa presieduta da Lord Wolfenden mise in luce tali persecuzioni e concluse i lavori raccomandando la depenalizzazione del reato. Risultato che si riuscì a ottenere definitivamente solo dieci anni dopo. In Inghilterra. Mentre in Scozia, patria di Byron, la legge – rispetto alla pur severissima legge inglese – fu sempre più dura e conservatrice. Se nel 1967 l’Inghilterra finalmente entrò nella modernità, la Scozia mantenne in vigore il reato di omosessualità tra adulti consenzienti fino al 1980. (Avendo studiato all’Università di Edimburgo nei primi anni settanta, posso parlare con cognizione di causa). Sarà soltanto nel 1990, per esempio, che il più grande poeta scozzese del Novecento, Edwin George Morgan (1920-2010), avrà il coraggio di fare coming out, dopo decenni di allusioni poetiche all’io narrante e al “suo tesoro” che si rincorrono tra i boschi attorno a Glasgow.
L’accesso alle carte restanti di Byron negli archivi dell’editore Murray fu consentito solo negli anni cinquanta del Novecento al maggiore studioso del poeta, Leslie A. Marchand, ma a una condizione: che non si accennasse all’omosessualità dell’autore di Don Juan. Fu dunque forzatamente monca l’amplissima biografia in tre volumi che lo studioso pubblicò nel 1957.
Solo dieci anni dopo, con la depenalizzazione, Marchand poté pensare a un ulteriore volume dal titolo Byron: A Portrait, uscito nel 1970. Grazie a puntuali riscontri sugli epistolari del poeta e dei suoi amici, lo studioso giunse alla conclusione che, negli anni universitari, Byron aveva fatto parte di una ristretta cerchia di “iniziati”, usi a descrivere i propri amori omosessuali servendosi di un particolare codice basato principalmente su citazioni e termini greci e latini.
Quest’ultima opera di Marchand venne accolta dalla comunità accademica e dalle vestali della Byron Society come un’eccentricità senile (del critico).
Il primo autore che tentò apertamente di fare luce sulla consistenza omoerotica delle inclinazioni sessuali di Lord Byron fu G. Wilson Knight, in Lord Byron’s Marriage: The Evidence of Asterisks, apparso da Macmillan a New York nel 1957. Knight particolarmente focalizzò l’attenzione sugli undici mesi di matrimonio del poeta con Annabella Milbanke, sull’abbandono del tetto coniugale da parte della donna, e sulla successiva separazione legale. E ristabilì un’importante verità: la vera ragione del fallimento del matrimonio fu l’omosessualità del poeta, non il legame “incestuoso” con la sorellastra Augusta Leigh. Quella fu la ragione che Byron stesso contribuì a divulgare perché non si parlasse del nameless crime.
Anche il lavoro di Knight (apparso, e va sottolineato, negli Stati Uniti) fu aspramente criticato, giudicato lesivo della memoria del poeta e sovente espunto da successive bibliografie.
Grande successo ebbe invece nel 1974 la biografia del poeta scritta dall’agiografa Doris Langley Moore: Lord Byron: Accounts Rendered. Omofoba e mitomane (basti dire che Langley Moore volle che il suo proprio matrimonio venisse celebrato sulla tomba di Byron nella chiesa di Hucknall), la biografa innamorata non poteva nemmeno concepire l’idea che Byron avesse amato gli uomini, e giunse a falsificare – volutamente fraintendendoli – molti passaggi significativi della vita e dell’opera.
E pensare che l’anno precedente, nel 1973 (quando avvenne la prima parziale cancellazione dell’omosessualità dell’elenco delle malattie da parte dell’associazione americana di psichiatria), in Romantic Poetry and Prose, un critico della fama e del prestigio di Harold Bloom aveva già definito Byron “basically homosexual”.
Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ricordo bene, per esempio, con quanta stima e simpatia venni accolto a Londra nel 1984 dai membri della Byron Society, dopo l’uscita della mia edizione italiana del Manfred. Un’accoglienza che si mutò in glaciale abbandono quando dissi che intendevo continuare la mia ricerca su Byron studiandone l’omosessualità.
Nel 1985 The Gay Men’s Press Bibliotek pubblicò la prima edizione di Byron and the Greek Love. Homophobia in 19th Century England di Louis Crompton, un lavoro scrupoloso e ben documentato, più volte ristampato negli anni successivi, praticamente ignorato dall’establishment accademico.
Tra i contributi più recenti segnalo: Myth of the Modern Homosexual di Rictor Norton, apparso nel 1997; “’One half what I should say’. Byron’s gay narrator in Don Juan” di Jonathan David Gross, pubblicato dalla European Romantic Review, vol 9, Summer 98; e soprattutto Byron: Life and Legend di Fiona MacCarthy, pubblicato nel 2002.
MacCarthy ha potuto finalmente avere libero accesso agli archivi Murray e pubblicare senza vincoli di sorta. Ha scritto che Byron era sicuramente più attratto dagli uomini che dalle donne. Per questa ragione il suo lavoro equilibrato e serio è stato accolto da gran parte dei critici con estrema freddezza.
Segnalo infine un utile articolo di John Lauritsen: Lord Byron’s Taste in Men. How the author of Don Juan embedded his forbidden desires, apparso nella “Gay and Lesbian Review” (January – February 2011, Volume 18, Issue 1).
Chiudo con la notizia della pubblicazione da parte di Doris Langley Moore per Melville, New York, di The Late Lord Byron, dove posso constatare che l’ormai attempata biografa innamorata non si è affatto ricreduta sui propri pregiudizi omofobici. Anzi…
Articolo interessante, puntuale ed appassionato come sempre.
Grazie degli spunti.
mdp