Bob Perelman, “La marginalizzazione della poesia”

Bob Perelman, La marginalizzazione della poesiatraduzione di Andrea Raos

[versione II]

Se le poesie sono eterne occasioni,
allora il contesto pre-eterno per quanto

segue fu un panel su “La
marginalizzazione della poesia” alla American Comp.

Lit. Conference a San Diego, l’8
febbraio 1991 alle 14:30:

_

“La marginalizzazione della poesia” – va quasi
da sé. Ha scritto Jack Spicer

“Nessuno ascolta la poesia”, ma allora
la domanda diventa: chi è Jack

Spicer? Lo sapranno i poeti per
cui è stato importante e le

loro poesie saranno scritte in un
mondo in cui quel verso è

stato ascoltato, anche se a malapena
lo nomineranno. Citare o imitare un

verso di un altro poeta non
è atto benigno, anche se a

volte questa pratica può apparire elogiativa.
Nelle regioni del discorso accademico, i

pattern di comunicazione e circolazione sono
differenti. Lì va – ancora una volta –

da sé che parole, nomi, termini
sono ripetibili: la citazione è il

principale segno di potere. Il punto
non è forgiarsi una lingua che

colpisca per la sua originalità; al
contrario, è il grado di adattabilità

di una frase o un’espressione
a una molteplicità di contesti a

determinare quanto sarà influente. “La marginalizzazione
della poesia”: sono le parole stesse

a mostrare la lingua franca dominante
nelle discipline accademiche e, di converso,

l’abbassamento dello statuto della poesia a
oggetto: è difficile pensare a una

poesia in cui appaia la parola
“marginalizzazione”. Viene usata qui, ma questa

può essere una poesia ma anche
non esserlo: questi distici di sei

parole per verso non stabiliscono un
ritmo riconoscibile; forse non si stanno,

per usare la metafora mercantile di
stampo calvinista, “guadagnando” il diritto di

esistere nella loro forma attuale – questo
è un a capo, o sto

semplicemente spezzettando una prosa irriducibile? Ma
per difendere questa (poesia) dall’attacco

che lei stessa si porta, dirò
che sia il margine regolare a

sinistra e quello irregolare a destra
di continuo si ripropongono in quanto

eventi significanti, spesso interrompendo ciò che
pensavo di stare per scrivere e

facendomi invece scrivere qualcosa di completamente
diverso. Anche se torno indietro e

riscrivo, il problema si ripresenta pur
sempre ogni sei parole. Questa poesia,

come ogni altra, è marginale in
senso proprio. Le poesie in prosa

sono un altro paio di maniche:
ma, dato che identificano sé stesse

in quanto poesie in virtù dello
stile e del contesto di pubblicazione,

diventano un sottoinsieme marginale della poesia;
in altre parole, doppiamente marginali. Adesso

ovviamente sto scivolando ancora verso il
senso metaforico di marginale che, comunque,

in un contesto accademico è quello
più comune. La massa crescente di

studi sulla “marginalizzazione” non tratta dei
margini, a destra o a sinistra

che siano – e di sicuro non
tratta dei propri. Eppure, la parola

“marginalizzazione” non presuppone forse l’esistenza di
una pagina matrice oltre i cui

giustificati (e quindi invisibili) margini le
panoplie di temi, autori, movimenti e

oggetti di studio esistono in tutta
la loro variopinta, autentica, manoscritta marginalità?

Questa pagina matrice riflette il funzionamento
della professione, in cui le unità

monetarie sono variamente denominate prosa: il
paper, l’articolo, il libro. Tutta la

prosa critica può essere vista come
una serie di rettangoli di scrittura

oblunghi e dagli angoli regolari, le
sequenze di parole arbitrariamente spezzettate in

righe dal tipografo (Ruth in lacrime

nei campi di grano stranieri) e
in pagine dal processo di pubblicazione.

Questa violenta regolarità è il segno
visibile della sottomissione dell’autore alle

norme della riproduzione tecnologica. Tuttavia, “sottomissione”
non è il termine migliore: la

raffinatezza della stampa indica che l’autore
condivide una parte del potere della

griglia tecnocratica; proprio come le citazioni
e le note a pie’ di

pagina negli articoli e nei libri
pubblicati per case editrici universitarie sono

emblemi di inclusione professionale. Ma il
quadro non è forse diventato un

po’ troppo binario? Non c’è da
operare qualche distinzione? Davvero voglio invocare

le “antinomie del pensiero borghese” di
Lukács, laddove invece di una scienza

concettualmente pura che persegue la propria
purezza al prezzo di una materia

trattata irrazionale, e quindi impura, abbiamo
la coppia analogamente eccentrica di una

critica centralizzata, professionalizzata e autoreferenziale che
studia poesie marginalizzate, ispirate (e cioè

amatoriali) e individuali? Davvero voglio mettere
insieme La chiusura della mente americana

di Allan Bloom, la biografia di
Keats scritta da Walter Jackson Bates

e L’Anti-Edipo e opporli a
una qualunque poesia che sia scritta

in versi? Non è forse questo
un colossale essenzializzare la poesia? È

vero, una certa poesia è profondamente
opposta alla prosa e dipende da

quello specifico modo in cui è
disposta sulla pagina: al di là

dei loro margini eccentrici, sia i
Maximus Poems di Olson sia i

Cantos di Pound tendono, man mano
che procedono, verso una dimensione pittorica

e gestuale: in Pound caratteri cinesi,
partiture musicali, geroglifici, emblemi di cuori,

quadri, picche e fiori, disegnini della
luna e del “crivello del fato”;

o quelle pagine verso la fine
di Maximus in cui i versi

procedono per spirali superiori ai 360
gradi – una pagina a spirale è

riprodotta in olografia. Queste sezioni sono
immuni dalla standardizzazione tecnologica: per citarle

si deve usare non il word
processor ma la fotocopiatrice. Allo stesso

modo, il lavoro di alcuni scrittori
associati alla Language Poetry evita le

griglie tipografiche standard e dipende quanto
più possibile dall’utilizzo dello specifico

supporto: le Sentences di Robert Grenier,
una scatola di 500 poesie stampate

su schede, o il suo più
recente lavoro olografato, spesso scarabocchiato; l’inchiostratura

variabile e i margini irregolari delle
poesie di Larry Eigner; la scrittura

di Susan Howe, che usa la
pagina come una tela – da questi

esempi si potrebbe estrapolare una poesia
in cui la pubblicazione sarebbe una

dimostrazione di unicità tendente a un
punto di sparizione neoplatonico, anticipata dai

libri colorati a mano dei Futuristi
russi – Chlebnikov una volta lesse la

Tentazione di Sant’Antonio bruciando ogni pagina
così da farsi luce per leggere

la successiva – Una tale estrapolazione sarebbe
inesatta riguardo ai poeti che ho

citato e di sicuro crea un’immagine
distorta della Language Poetry, di cui

alcuni membri scrivono per un pubblico,
se non addirittura per “il” pubblico.

Tuttavia, c’è un altro granello di
falsa verità nel mio modello manicheo

di una centrale di comando in
prosa (la critica) e di singoli

bivacchi ai margini poetici, quindi mi
focalizzerò su questa dualità per un

altro po’ di distici. Parallela a
questa poesia auto-definitoria, c’è stata una

tendenza in certa critica a valorizzare,
se non a feticizzare, l’irripetibile processo

di scrittura dei maestri – l’Ulisse di
Gabler in cui il dramma della

mente scrivente di Joyce diviene il
tempio di un’edizione critica; il facsimile

della revisione – creazione, da parte di
Pound, di ciò che sarebbe diventato

il Waste Land di Eliot; i
pacchetti in cui Emily Dickinson cuciva

le sue poesie, ove è possibile
che le sequenze indichino un ordine

superiore; i quaderni su cui Gertrude
Stein e Alice Toklas conversavano a

matita: questi possono far sembrare opere
come “Sollevante pancia” come uno scambio

tra scrittori corporei o corpi scrittorii
a letto insieme. Eccola la sensazione

che poca brigata è meglio, evocata
e cancellata dall’intimità e dal tocco

del carattere. In tutti questi casi,
l’inafferrabile particolarità del corpo, della mente

e delle condizioni di scrittura dell’autore
è l’illeggibile icona della lettura. Ma

è tempo di spezzare questa dicotomia.
Cosa dire di un testo come

Glas? – non proprio definibile come un
liscio monolito critico. Non usa forse

lo strumento d’avanguardia (questo antico aggettivo
poetico!) del collage in misura maggiore

della maggior parte delle poesie? È
davvero così diverso da, per esempio,

i Cantos? (Sì, lo è. La
crescente incoerenza dei Cantos riflette il

rovinio delle condizioni di scrittura di
Pound; centrale in Derrida è invece

la sua collocazione istituzionale. A differenza
di quelle di Pound, tutte le

sequenze di tagli di Derrida riappaiono
più avanti). Tuttavia, Glas supera con

facilità la maggior parte della poesia
contemporanea rispetto a qualità “marginali” quali

l’indecidibilità e l’indecifrabilità – per non parlare
dei 4 ai 10 margini per

pagina. In confronto, molte poesie contemporanee
sembrano dei campionari sui quali sono

state appiccicate le più sconfortanti banalità.
Non faccio polemiche, ma numerose critiche

sono state mosse alla poesia della
voce, alla poesia-esperienza, ai discendenti

(in maggioranza versoliberisti) dei punti nel
tempo di Wordsworth: meditazioni in prima

persona in cui il senso della
vita appare chiaro dopo 20 o

30 versi al massimo. Nella sua
sfera, questa poesia è tutt’altro che

marginale: ampiamente pubblicata e insegnata, ha
instaurato ricche filiere di autoriproduzione. Ma

con la sua sfiducia nell’intellettualità (che
lì sembra sinonimo di intellettualismo) e

il suo affidarsi all’autenticità come metro
basilare di giudizio (e le poesie

esistono in primo luogo per essere
giudicate) (in questa era post-canonica della

riproduzione artistica, in cui l’aura è
stata sostituita dal premio letterario), è

diventata marginale rispetto ai settori dell’accademia
orientati alla teoria, proprio quei settori

che hanno prodotto il concetto di
“marginalizzazione”. Come antidoto, mi si lasci

citare Glas: “Uno deve capire che
lui non è sé stesso prima

di essere per sé stesso Medusa…
Essere sé stesso è essere medusato…

Sicuro a morte del sé… Sicuro
a morte del sé che morde

(morte).” Qualunque cosa ciò voglia dire
– e sarà forse un possente post-femminismo,

l’uomo che inghiotte la donna – nella
sua complessificazione dell’identità sembra comunque un

passo in direzione di un leggere
e uno scrivere più critici e

comunitari, e perciò è utile. I
giochi di parole e le citazioni

di cui è irto il cammino
di Derrida, che lo rendono scivoloso

per chi non sia più che
esperto, non sono il punto centrale.

Ciò che sto proponendo in questi
distici antigenerici e ipergendrizzati non è

una scrittura senza autore né genere,
bensì una scrittura fisicamente e socialmente

collocata, in cui i margini non
siano una metafora e in cui

i lettori non si limitino a
restare lì in attesa di essere

liberati. Nonostante il suo trasgredire le
norme del decoro critico locale Glas

è, nel suo trattamento della tradizione
filosofica, decoroso; è composto di marginalia

e la pagina matrice di Hegel
è ancora Hegel, e anche Genet

è Hegel. Ma una poesia autocritica,
tolta la retorica cortocircuitante del privilegio

del vate, potrebbe dissolvere le antinomie
della marginalità che spezzarono Jack Spicer

in righe spezzate. [Qui il traduttore
aggiunge qualcosa per chiudere l’ultimo distico.]

*

[“The Marginalization of Poetry” [1991], in Ten to One. Selected Poems, Hanover and London, Wesleyan University Press, 1999, p. 139-149.]

10 COMMENTS

  1. Chissà che non si possa, banalmente, raggiungere l’obiettivo meravigliosamente paradossale di un'”unicità tendente a un / punto di sparizione neoplatonico” e di “una scrittura fisicamente e socialmente / collocata, in cui i margini non / siano una metafora” – l’assoluta trascendenza e l’assoluta immanenza in coincidentia oppositorum – mettendo da parte (voglio dire storicizzando e metabolizzando) proprio l’ipertrofia della coscienza linguistica di tutto il Novecento, che produce una poesia COME QUESTA, la quale vorrebbe infinitamente slittare via dal linguaggio come istituzione (istituzione, e per ciò stesso forma di violenza e potere) e mettendosi il cuore in pace: riposando la vigile ragione, accettando d’essere cosa fra le cose, ritrovando (non come dato di fatto, ma come inesausta ricerca) la naturalezza (del poeta, Luzi); accettando che ogni umana attività creatrice debba ricorrere, artigianalmente, a una materia preesistente per plasmare la propria opera (Pavese), come lo scultore ricorre al marmo o all’argilla, per quanto ciò significhi accettare un minimo di commistione con l’impuro delle terrene istituzioni; infine, ricordando che la poesia E’ “metafora”, e il “come se” non è falso o falsificante.
    Detto ciò, se tutti gli avanguardismi producessero poesie COME QUESTA, che producono pensiero pensiero pensiero e verificano in modo insesausto le condizioni di dicibilità della poesia, evviva l’avanguardia!
    (Insomma, cercherò altre poesie di Perelmann, mi è venuta voglia di approfondire. Complimenti e grazie al traduttore).

  2. Poesia

    atto solare
    quotidiano
    desiderio

    Non margina/ non dietro vetro/ no in gabbia
    dentro. nella vita. in nascita
    pane/ sorgente/ sangue

    la poesia ha un sesso: femminile

  3. Ebbene sì, anche la scrittura è sottomessa alle norme della riproduzione tecnologica. Se riconosciamo questo fatto, sembra voler dire Perelman, si aprono due strade: o feticizzare l’irripetibile processo creativo dell’autore (“die Aura”) – magari sperimentando escamotage scrittorii che siano in qualche modo immuni dalla standardizzazione tecnologica –; oppure accettare le regole del gioco imposte dalla “griglia tecnocratica”, ma solo per cercare di forzarla dal suo interno. E provare a mettere in crisi la “pagina matrice” (cioè il linguaggio stesso).
    Che questa seconda strada possa ancora essere definita “Poesia” è un fatto francamente “marginale”. La cosa più importante ed essenziale è il suo essere “una scrittura fisicamente e socialmente collocata”: cioè una scrittura non auto-referenziale, che non si limita a reclamare l’ascolto, ma piuttosto che invoca la complicità del lettore. “Una scrittura… in cui i lettori non si limitino a restare lì in attesa di essere liberati”.

    Leggendo “La marginalizzazione” mi è tornata in mente la recensione di “Fame di realtà” di David Shields firmata sul Corriere da Berardinelli ( http://bit.ly/JsFh0g ). Cito: «Secondo me, per dire quello che dice Shields non c’era bisogno di scrivere un libro (ammesso che lo sia) di duecentocinquanta pagine, bastava un articolo di duecento righe.» I distici di Perelman sono quasi trecento, ma credo che possano andar bene lo stesso.

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