“Labour is a hard job” (e altri problemi di traduzione)
di Renata Morresi
Per l’esame della prima sessione quelli del terzo traducono la pubblicità di uno studio legale di Milano, dall’italiano all’inglese. Oggi faccio sorveglianza, all’incirca dieci ore, ho tempo per pensare. Non che mi paghino, ma, si sa, fa parte del lavoro. In realtà lo slogan iniziale è già in inglese: “Labour is a hard job”. I ragazzi non hanno dovuto tradurlo, l’hanno lasciato tale e quale. È in inglese per questioni di effetto. Per creare una specie di aura di efficienza globale, presumo. Certo, si perde l’illusione poliglotta. Ma tanto a tradurlo in italiano gli ideali lettori inglesi non capirebbero nulla. E comunque, “il lavoro è un lavoro duro” non va bene, suona strano, suona a vuoto. Senza contare, dio mio, che “duro” in italiano dopo Bossi non è più lo stesso. E poi, e poi, quel “labour”, caspita, preso a sé, rimanda soprattutto al lavoro di fatica. Quello che si fa per il salario, non per il profitto, mi dice il dizionario Webster. Messa così, allora, verrebbe da dire “il lavoro vero è un lavoro duro”. Finirebbe per essere uno slogan della manodopera, e che c’entra con quello di cui qui? Coi nostri avvocati di Milano?
Oggi giro tra i banchi tutto il giorno. Ieri cimitero, per la riduzione della salma. Che parola “riduzione”. Trasforma l’ansia in un bottone di velluto. È un processo di cui non sapevo nulla. Quando, per motivi di spazio o d’affetto, si vuol traslare i resti mortali lì da dove furono tumulati a una cassettina o a un’urna, un contenitore più piccolo da tenere nella stessa sepoltura e che lasci posto al nuovo defunto. Non c’è alcuna garanzia che la salma sia riducibile, in effetti la verifica viene fatta in presenza del medico legale. Se qualcosa ancora decompone, nulla si può traslare. Se tutto è decomposto, si raccoglie lo scheletro, si racimolano le sue ossucce, i denti, i sondini, le catenine se ne aveva, e le si ripone. È un servizio che offrono fino a fine aprile, e deve essere approvato dal sindaco. Noi abbiamo sforato di qualche giorno ma c’è andata bene che il sindaco fosse in pieno ballottaggio, ha firmato subito il permesso alla riduzione.
Leggo da qualche parte che “slogan” viene dal greco gaelico e significa “grido di guerra”. Non mi documento, tendo a crederci. In effetti la foto della pubblicità mostra un giovane uomo dallo sguardo deciso, in cravatta e gessato, e nel taschino della giacca, come fiore all’occhiello, un guanto da lavoro. Uno di quei guanti tipo da giardino o da meccanico. Un po’ sgualcito e macchiato. “Noi lo facciamo. 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno”. Loro sì. Stiamo parlando di migliaia di consulenze e progetti e contratti e cose così che riguardano il lavoro, insomma. Tra cui “tutti i più innovativi settori della flessibilità, dell’outsourcing e della ristrutturazione del personale.” Che uno degli studenti traduce con “personnel reduction”. La collega lo segnerà come errore.
Secondo il dizionario questo mio qui non è in nessun modo un lavoro (no salario, no profitto) – ho tempo per pensare. Antoine Berman lo chiamerebbe “tendance à l’explicitation” o errore di chiarificazione. Quella indiscreta tentazione di spiegare, far capire, esplicitare. Non si dovrebbe. Chi traduce lo sa. Ti pare che si potrebbe dire meglio, più facile, più comprensibile. Così però sciogli le ambiguità, distruggi le polisemie del testo di partenza, ne impoverisci le relazioni semantiche. La “ristrutturazione del personale” non è, anzi, è qualcosa di più di una “reduction”. È un’azione più complessa e sottile, non un evento ma una struttura di eventi concatenati, una performance di Ikebana, un progetto più ampio della mera “riduzione”. In parte, penso, è già una traduzione. Il passaggio ad un altro linguaggio. Uno che rimodula la vecchia idea del licenziamento oltre il mero episodio dell’interruzione. Perché la sfera in cui esso accade non è più il rapporto tra persone, ma la struttura di una entità superiore. Il lavoro. Qualcosa che solo in parte riguarda il posto che occupi, il posto in cui sei – ci dice Elsa Fornero, scomponendo l’accadere materiale del lavoro, da una parte, nel suo concetto immutabile e trascendentale, inscritto nella Costituzione, e, dall’altra, nella sua espressione fenomenica arbitraria. Significato e significante del lavoro. Un conto è il Lavoro, un conto è il posto di lavoro. Li dividi e puoi continuare ad adorare il primo, facendone un simbolo inattingibile, mentre rimpicciolisci il secondo in un posto sempre più stretto.
Faccio un giro per vedere gli altri. “Restructuring”, “restructuring”, “restructuring”. Il medico legale se n’è andato presto. Il necroforo è arrabbiato. Di maggio, per regolamento, lui non le dovrebbe fare le estumulazioni. Sventola uno dei metatarsi dove è rimasto un lembo di materia e si lagna: “Ma guarda qua! E a questo gli fai la riduzione?” Vien su una placchetta di gomma, noi esitiamo poi facciamo capannello intorno, ci chiediamo cosa sia, forse una protesi, una piastrina messa con l’operazione. Il libro si è tutto sbriciolato. Forse la “ristrutturazione” non è che un eufemismo, forse Berman direbbe che è la tendenza traduttiva deformante numero 4: la nobilitazione. Ci si eleva per far perdere le tracce di dettagli poco appropriati. Si ingentilisce il registro per ammansire, così come lo si volgarizza con gli “sfigati” o le “paccate” per impressionare. Non che io pensi che qualcosa di ‘vero’ ci è nascosto. Tutto è orizzontale e scomposto, e fa le fusa e amplifica, e rompe e tintinna. È proprio il nostro stare in un posto che è cambiato. Diventato piccolo e secco, come il rumore di braccialetti d’osso.
Faccio un altro giro per vedere i nomi. Tanto non-lavoro domani. Quelli che preferisco hanno le date più antiche. Non capisco perché mi sembrino così reali.
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[La foto è di Francesca Woodman]
Mi ha intrigato molto questo racconto giocato su poche parole e/o equivoci. E mi intriga sempre il linguaggio degli affari e del marketing, nel suo oscillare fra l’afasia e la ripetizione di un piccolo insieme di stilemi rigidissimi generalmente privi di spessore reale.
l’espressione-feticcio di oggi: “spending review” – quanta soavità ed efficienza esprime.
un prestito dall’inglese non a ragione di un vuoto linguistico da colmare – perché infatti non usare “correzione di spesa” o “revisione di spesa”? – ma, forse, per appannare un’azione, ahimè, realissima…
Si dovrebbe approntare un dizionario su queste cose, un po’ tipo quel vocabolario del politichese della seconda repubblica (era del ’95) di cui non ricordo gli autori ma che faceva sbellicare.
Be’ labour ha anche l’accezione di lavoro come nesso sociale e come rapporto giuridico, vedi labour law ed i vari labour secretaries, departments e ministeries.
Ah, slogan ha invece radici celtiche, scozzesi, se non erro.
refuso: dal gaelico, non dal greco, chiedo venia
“labour”, nel senso in cui lo intendono i nostri esimi qui, è il diritto del lavoro, che disciplina (che punisce?) il diritto al lavoro
ma il punto (mio) non è, semplicemente, la scivolosità delle parole, ma il nuovo ‘gioco’ a cui stiamo ‘giocando’: lavoro non più come rapporto, ma come sistema che ci oltrepassa
Dettaglio e riflessione. Tanto che ruota intorno al verbo comporre, anche con i suoi movimenti s- e de-. E anche la speranza che a un lavoro-non-lavoro e a una lingua-non-lingua di oscion e uscion e uring si sostituisca un lavoro-lavoro e una lingua-lingua: c’è anche un termine al disfarsi… Un saluto caro Adelelmo