Al largo di Pontremoli. Divagazioni, tra cronaca scolastica e letteraria, circa l’urgenza di consegnare una lettera 45 anni dopo.
di Ugo Fracassa
Ugo Fracassa ha partecipato di recente a un convegno ministeriale sulla «Lettera a una professoressa», in occasione dell’uscita del volume di Adele Corradi, collaboratrice di Don Milani, Non so se Don Lorenzo (Feltrinelli, 2012). Tuttavia non è facile tenere insieme i recenti provvedimenti Profumo sull’eccellenza scolastica con l’insegnamento del Priore di Barbiana. Nel suo breve intervento Ugo Fracassa ha potuto ricordare che la «Lettera» può ancora essere letta come un documento della lotta di classe. In ogni caso, molte delle cose scritte allora per i barbianesi sembrano indirizzate oggi agli immigrati, come ricorda un caso di cronaca scolastica che ha fatto un po’ di rumore in Toscana e poi a livello nazionale (la bocciatura in prima elementare di 5 bambini, di cui uno disabile e tre “stranieri”).
I respingimenti dei migranti non avvengono soltanto al largo del canale di Otranto o in vista delle coste di Lampedusa, ma pure nelle acque territoriali del nostro sistema scolastico, nel qual caso vanno sotto il più familiare nome di bocciature. Né si sta da clandestini sul suolo nazionale nei ricoveri di fortuna soltanto, quelli che il nostro paese sa offrire, a chi ne abbia bisogno, tra periferie metropolitane e aree già rurali e oggi postindustriali o dismesse. Anche in una prima classe dell’obbligo scolastico elementare disabili e immigrati possono sostare in democratica promiscuità, con una trentina di compagni, grazie all’indulgenza ministeriale, almeno finché non si giunga a localizzarli ed espellerli.
“Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse”, si legge nelle ultime pagine di quella Lettera a una professoressa spedita giusto 45 anni fa e tuttavia in cerca di lettori. Siccome però la nostra scuola perfetta non è (ancora), obbligatoriamente è tenuta ad accogliere la “gente nuova”: giovani sottoproletari del Mugello, inconsapevolmente esposti all’imminente genocidio culturale, ieri; figli degli immigrati, oggi. Quella lettera perciò – inizialmente destinata ad una professoressa rea di aver negato l’idoneità di III magistrale a tre “barbianesi”, furiosamente allestita a partire da una rovente bozza di mano del priore di Barbiana e poi meticolosamente appuntita, grazie al contributo dell’intera scolaresca, per un tempo approssimativamente coincidente alla gestazione di un feto – non smette di individuare destinatari ulteriori.
Mihai Mircea Butcovan è uno di questi. Arrivato in Italia nel ’91, dopo un dicembre sanguinoso trascorso nelle piazze della Romania (“Morivano studenti / Tu non lo sai / Io c’ero”, Dicembre 1989) per destituire un grottesco conducător giunto a fine corsa, annette rapidamente alla propria biblioteca mobile di lettore bilingue e scrittore migrante il libretto sessantasettino. E pour cause, se nel passo della Lettera che sceglie come esergo per i versi di Dal comunismo al consumismo (“Ogni popolo ha la sua cultura e nessuno ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri”) pare di ascoltare l’eco anticipata di certe dichiarazioni circa le letterature della diaspora (“Mentre noi cerchiamo di distillare conoscenza e sapere da tanti argomenti, essi [i Gastarbeiter] ricavano saggezza pratica e sapienza dai loro racconti, pregni di esperienza”, H. Weinrich). Oggi Butcovan, giunto a Monza poco più che ventenne come seminarista, premiato per il suo romanzo d’esordio Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa, 2006), lavora a Milano, come educatore, al recupero delle diverse forme di disagio sociale.
L’aggressività e la frustrazione, talvolta manifeste, più spesso represse e dissimulate, per la mancata interazione (o la coatta integrazione) nel tessuto sociale ospite non mancano di favorire l’impulso creativo di chi scrive. Nel romanzo più celebre di Amara Lakhous e della nostra narrativa italòfona, lo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, lo stereotipo del giovane xenofobo romano de Roma – quel “gladiatore” trovato morto nell’ascensore – viene offerto in olocausto per una riflessione sui temi del multiculturalismo in salsa capitolina: “Ho usato il giallo per attirare l’attenzione su quello che sta accadendo, perché quest’ultima si attiva quando c’è l’emergenza. Quindi mi sono detto: qui ci vuole un cadavere” (A. Lakhous). In altri casi l’aggressività creativa, deviata dall’obiettivo primario, può scaricarsi indirettamente sull’elemento simbolico, dall’italiano come individuo all’italiano come lingua: “la lingua italiana […] è una bellezza che si ha il dovere di ferire […] una purezza che ha l’assoluto bisogno di essere contaminata” (Tahar Lamri).
Anche in questo caso, l’insegnamento della Scuola di Barbiana prefigura certe scelte letterarie e pare offrirsi, quasi mezzo secolo dopo, come manifesto poetico prêt-à-porter per una generazione di nuovi (autori) italiani: “Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”.