Aprire un nuovo capitolo
(A cavallo tra il vecchio anno e il nuovo, ho cominciato un nuovo capitolo di una cosa lunga che vado scrivendo da tempo. Questa è la sua versione beta, ovviamente – ma anche un augurio: che di capitoli da aprire ce ne siano moltissimi, per tutti voi.)
di Giuseppe Zucco
Spalle alla basilica di San Lorenzo, seduti sull’erba rada del parco, Mario e Cristina si baciano – ma non come fosse il gioco di un riconoscimento, baciandosi e slegando le labbra ad intervalli regolari, rimanendo poi occhi negli occhi a millimetri di distanza, cercando di capire, alla fine dell’apnea con le palpebre abbassate, se sia sempre la stessa persona a spingere le mani in luoghi irriferibili, oppure dandosi la lingua in maniera del tutto introversa e consapevolmente impacciata, come se quello non fosse altro che il primo vero contatto fisico dopo giorni e giorni di un corteggiamento sfiancante, un momento che riporta indietro le lancette di qualsiasi comunanza e complicità, l’ora x convenzionale ma per sempre marcata sul diario o sul retro di una fotografia o in fondo al messaggio di un cellulare in cui si ritorna momentaneamente estranei per iniziare a conoscersi davvero, sul serio, senza filtri.
“Una cosa che ti piace di me?”, dice Cristina.
“Gli occhi”, dice Mario.
“No, troppo poetico”.
“Allora le labbra”.
“Paraculo”.
“Le mani?”.
“Ottocentesco”.
“Il modo in cui s’incurva il naso?”.
“Ma se è il mio complesso peggiore”.
“Deciderò io, no?”.
“Dimmi una cosa unica”.
“Questi cosi”.
“I leggings?”.
“Eh, in controluce sono meglio di una radiografia”.
Mario e Cristina, un bacio dopo l’altro, baci sbocciati nei baci, si baciano in fretta e furia, sfregando le labbra, a piccoli morsi, incrociando le eliche rotanti della lingua, senza respiro, cambiando continuamente lato, gli occhi aperti e chiusi, scontrando i denti, le mani infilate nei capelli, precipitando uno nella bocca dell’altra come se non ci fosse tempo, come se il tempo non bastasse, come se tra il primo e l’ultimo bacio appena consegnato con allarmata frenesia il tempo avesse accelerato senza altra spiegazione, proprio come se dal più alto dei cieli filasse perpendicolare sulla furia di quei baci sbocciati nei baci una delle innumerevoli bombe atomiche appena sganciate dal ventre metallico di un cacciabombardiere che, da lì a pochi istanti, crollando senza un sibilo sul pianeta terra per mondare le colpe dei suoi residenti stipati chi nelle cantine chi nei rifugi antiatomici con il respiro rotto e lo sguardo rivolto al soffitto di cemento, avrebbe spazzato via la materia vivente delle cose e scagliato a distanze irraggiungibili, ancora più in alto della voluta estrema del fungo radioattivo, tutte le particelle luminose della parola amore.
“Sai di buono”, dice Mario.
“Sembro la pubblicità di un detersivo, così”, dice Cristina.
“No, di frutta”.
“Tipo il sapore alla frutta del dentifricio?”
“Frutta non molto specificata, ma frutta”.
“Mario”.
“Tipo l-a-m-p-o-n-e”.
“Perché che gusto c’ha il lampone?
“Appunto”.
“E io avrei questo gusto anonimo?”.
“Di frutta”.
“Io sarei anonima?”
“Sì, cioè, no, solo frutta”.
“Anonima, allora?”
“Che frutta vuoi essere?”.
“Kiwi”.
“Kiwi è perfetto”.
Mario e Cristina si baciano, si staccano, non resistono, si avvicinano, riappaiano una a una le screpolature e le pellicine trasparenti, e tutto questo delicato violentissimo elicoidale filare di labbra, un movimento che non ne ammette altri, una foga cieca e irresponsabile che espelle fuori dalla carne e dalle ossa tutta Milano e la Calabria intera, un desiderio famelico e autosufficiente che allunga un decisivo colpo di spugna sul tremolare pallido dei ricordi d’infanzia e sul lucore persistente dei rispettivi traumi, per lunghi lunghissimi minuti li eleva in uno spazio vuoto, bianco, illuminato, dove non risiede altro che quel movimento, quella foga, quel desiderio, dove tutto sfuma e indietreggia, uno spazio interamente vuoto e paradossalmente pieno da scoppiare, la versione amorosa della nuvoletta bianca così in voga nei fumetti anni ottanta che ricopre di solito le risse e restituisce, di tanto in tanto, a beneficio dei passati – per esempio, questo è il caso, due signore con il passeggino la cui capote è aperta alle infiammazioni solari, o un giro di studenti con un pallone in mano – un piede attaccato al polpaccio nudo, una mano aperta, l’icona gialla e seghettata di un fulmine.
“Tu mi sogni mai?”, dice Cristina.
“L’altra notte, sì”, dice Mario.
“E che facevo?”.
“Eravamo seduti in un bar e mi passavi delle foto”.
“Delle foto?”.
“Delle foto sigillate in busta chiusa”.
“E io com’ero?”
“Eri vestita da uomo, avevi la faccia in ombra”.
“Ma come facevi a sapere che fossi io?”.
“Ne avevo certezza assoluta”.
“E che c’era nelle foto?”.
“Solo i dettagli del corpo di una ragazza”.
“Le mie foto?”.
“Forse, ma erano in bianco e nero”.
“E io che ti dicevo?”.
“Di trovare quella ragazza, mi avrebbe cambiato la vita”.
“Cioè, per dire, avevi la foto di un orecchio?”
“Di un lobo di un orecchio, e da lì dovevo risalire alla ragazza”.
“E poi la trovavi?”
“Le foto prendevano automaticamente fuoco”.
Mario e Cristina si baciano, in tutto e per tutto compresi nel bacio, compressi nel bacio, nello spazio vuoto bianco illuminato dove non ci sono pensieri, né identità, né corpi, ma solo quel bacio, l’orbita liquida della lingua e la pressione morbida e serrata delle labbra, un bacio che non alimenta altri che se stesso prolungandosi nel tempo, all’infinito, senza soluzione, perlomeno fino a quando, Mario, aprendo gli occhi, non fuori, cioè nel mondo reale, il parco attraversato da un uomo di colore con un fascio di calzini colorati in vendita per un euro, ma proprio dentro quello spazio, in quella nuvoletta, inizia a diradare la confusione bianca e ovattata del bacio pensando Io, facendo riverberare la vibrazione di quella sillaba fino al centro del più infinitesimale nucleo della più impercettibile cellula, Io sono, ricordando tutta la strada fatta per essere presente nel parco in quel preciso istante, Io sono qui, mordendo con decisione le labbra di Cristina per lasciare un segno materiale di quel passaggio, Io sono qui per te, cosa di cui Cristina, aprendo gli occhi, non dentro, cioè nello stato-nazione denso e evanescente del bacio, ma fuori, la massa isterica e fluttuante dei fedelissimi dell’aperitivo in sbattimento per l’assegnazione di un tavolino appena oltre l’inferriata verde del parco, se ne rende conto tanto da staccarsi dalla presa di Mario, guardandolo fisso, portando un dito alle labbra, assicurandosi che, proprio nel punto in cui il suo indice indugia, la sillaba tagliente e autodeterminante e esclusiva dell’Io non abbia procurato una lacerazione, né, ancora peggio, intaccato la possibilità di rientrare nella nuvoletta, nello spazio vuoto e bianco e confusionale del bacio.
“Ci stai o no con la testa?”, dice Cristina.
“Scusami”, dice Mario.
“A cosa stavi pensando?”.
“Scusa”.
agghiacciante
un’opinione invernale, insomma.