2666 non è lontano
di Helena Janeczek
Grazie a Antonio Coiro, ho scoperto che oggi Roberto Bolaño avrebbe compiuto 60 anni. Ho quindi deciso di “festeggiarlo” con l’estratto di un intervento che verrà pubblicato negli atti del Seminario sul Romanzo dell’Università di Trento.
Sono anni che in Italia si dibatte su filoni di poetica intesi come alternativi, anzi vicendevolmente escludenti: l’opzione realista, aggiornata in formule come il “ritorno al reale” o “docufiction”, rivalutata come veicolo necessario di engagement, contrapposta a barocchismi postmoderni, filiazione libresca e citazionista, ma anche alla “restaurazione” del romanzo neo-borghese. Narrazioni che decidono di veicolare preoccupazioni contenutistiche attraverso le gabbie di noir o thriller si scontrano con la convinzione che la vera letteratura debba fondarsi sulla ricerca formale quasi sempre identificata con la scrittura e con lo stile.
Ma applicate a Bolaño e soprattutto a 2666 queste dicotomie si sfarinano. (…)
Il romanzo si apre con “La parte dei critici”, fantasmagoria di un universo metaletterario e quasi parodia della “campus-novel”, per sprofondare nel nucleo centrale “La parte dei delitti”, dove finiscono fusi elementi di giallo, cronaca giudiziaria e docufiction.
I critici approdano a Santa Teresa per incontrare l’uomo nascosto dietro lo pseudonimo del veneratissimo scrittore Benno von Arcimboldi e scoprirne la storia. “La parte di Arcimboldi”, la quinta e ultima parte di 2666, che comincia con la Prima Guerra Mondiale e attraversa una buona parte del Secolo breve in Europa, sceglie di affidarsi a un registro predominante burlesco-grottesco, impastato di detriti culturali che finiscono virati verso il kitsch o addirittura verso il trash: il castello di Dracula dove si celebra un festino di baronesse, generali, scrittori e poeti di regime, ma anche i villaggi breugheliani alla soldato Šveijk (per esempio, il “villaggio delle Ragazze Chiacchierone”) dove Hans Reiter trascorre la sua infanzia.
La cultura tedesca e europea asservita al nazismo (e allo stalinismo) ne è stata contagiata e corrotta, quindi lo strumento appropriato per mettersi sulle tracce di quel male coincide a tratti con il cattivo gusto. In mezzo alla lugubre carnevalata, Hans Reiter, il bambino-alga, il soldato che sogna di annegare felicemente nell’abisso, mantiene caratteri di umanità non grazie a un maggiore “realismo” concesso al personaggio ma agli elementi fantastico-favolosi che lo qualificano come creatura di un altro mondo.
Nel dopoguerra Hans sceglie il suo nom de plume ricordando un cenno a Arcimboldo nei manoscritti trovati in una casa ucraina dalla quale il loro autore era stato deportato verso lo sterminio. Quell’atto di conservazione e, al contempo, appropriazione di una vita cancellata, rimanda anche alla storia di Ivanov, scrittore sovietico di libri di fantascienza eliminato da Stalin, il cui autore in realtà era proprio l’ebreo Ansky. Il passaggio da Boris Ansky a Benno von Arcimboldi non si compie casualmente nel segno di Arcimboldo. Come è noto, i ritratti del pittore milanese sono in gran parte composti da nature morte. L’opera più significativa nel nostro contesto è probabilmente la tela denominata “Il librario”, l’uomo fatto di libri. Esistono però altri dipinti che trattano alla stessa stregua non più oggetti, fiori, frutti o animali, ma corpi umani. I volti di Adamo e Eva brulicano di nudi infantili che simboleggiano la progenitura della specie umana. Quell’allegoria grottesca si proietta in avanti, mentre il Benno von Arcimboldi di Bolaño compie il moto esattamente contrario: raccoglie in sé, ponendoli sullo stesso piano, i libri e i corpi scomparsi degli scrittori annientati.
Il male del passato si dischiude dunque come una matrioska nel personaggio finalmente ritrovato di Hans Reiter. Ma ciò accade nel luogo emblematico del male presente, nella città di frontiera messicana divenuta fabbrica di morte a cielo aperto. C’è una linea genealogica, un’eredità precisa che, attraverso lo scrittore Arcimboldi, passa dal soldato della Wehrmacht a suo nipote Klaus Haas, il gigante quasi albino accusato del femminicidio. In più, la composizione dei cerchi romanzeschi mette in forma che non può esservi nessuna “parte dei critici”, nessuno spazio in cui la cultura possa pensarsi al di fuori o al di sopra del male, se questo, attraverso le epoche e i continenti, continua ad agire fisicamente come reificazione degli esseri umani, come schiavitù, barbarie e violenza.
“La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie.”
Sono queste le parole che Theodor Adorno scrisse nel 1949, quelle pervenute a noi nella semplificazione del precetto “nessuna poesia dopo Auschwitz”.
2666 di Roberto Bolaño è anche questo: un poema in prosa di mille pagine sul legame indissolubile di cultura e barbarie con cui il male ha varcato la soglia del ventunesimo secolo.
Ho trovato la “parte dei critici” pallosissima, dopo migliora?
Sì, forse è la parte peggiore del libro, vai avanti che migliora.
Bolaño non fa per te. Lascia perdere.
Non migliora, esplode…
Elio e Carlo: se vi conoscete, non mi intrometto. Ma sì, la prima parte è la più faticosa.
E invece, forse per retaggio di studi umanistici, ho trovato struggente “La parte dei critici”. Splendidamente onirica “La parte di Amalfitano”. Pessima e loffia “La parte di Fate”… A quel punto mi sono fermato. Al primo volume Adelphi. Avevo il terrore che peggiorasse.
laserta
Non fermarti ora. La parte dei delitti è quanto di più potente e sconvolgente sia stato scritto negli ultimi decenni. E’ anche un testo incredibilmente connesso con lo spirito tragico e oscuro del nostro tempo. Continua a leggere.
ps: per me, 2666 è il Moby Dick dei nostri tempi, un’opera decisiva che cambia per sempre il modo di narrare, sia da un punto di vista estetico che – soprattutto – da un punto di vista immaginativo. E andrebbe letto più d’una volta, perchè fugge via da ogni parte.
Ci proverò!
grazie!
articolo molto bello. amo 2666 in ogni sua parte e Bolaño come solo un tifoso può amare. grazie
Grazie a tutti per i consigli. Ho deciso che insisterò. D’altra parte non riesco a chiarirmi bene i perché non mi abbia preso. Mi sentivo indifferente a quei personaggi: in quella loro ossessione mi sembrava trasparire soprattutto una “cotta” dell’autore per il mondo letterario. Avvertivo un mimetismo (girardiano) che velava d’artificiosità la vicenda: come se questa non ambisse ad illuminare qualche nuovo aspetto della vita o dell’essere ma l’interesse stesse altrove, volesse piuttosto discutere, attraverso ammiccamenti di vario genere, di procedimenti letterari e relative genealogie. E sì che non mi trovavo in un periodo refrattario: una sera, prima di cena, la curiosità mi spinse ad un piccolo assaggio dell’opera che avevo in programma dopo “2066”, e questa mi rimase incollata fino alla terminazione, letteralmente divorata in un paio di giorni. Si trattava della “Trilogia della città di K.”.
@Helena Janeczek possibile avere testo integrale per pubblicazione su Archivio Bolaño ?
Grazie!
@elio_c dopo le prime 40 o 50 o 60 o 90 pagine ti accorgerai della grandezza di questo capolavoro ivi compresa la prima parte
siete semplicemente pazzi con queste vostre manifestazioni di affetto e per questo vi ano tutti
ho scritto qualcosa tipo:
siete meravigliosamente pazzi a scrivere queste cose, ma è per questo che vi ano tutti
che era, ed è, un modo, certo non convenzionale, di aggregarmi a quanti hanno giustamente elogiato l’opera di questo immenso scrittore (l’ho letto la prima volta mentre helena scriveva il suo “lezioni”…)
perché cassarlo?
capisco che quando si è sotto assedio può succedere di tutto, anche di fraintendere e di riflesso censurare, però, ragazzi…
Perché non ho guardato i commenti in sospeso (stavolta dormivo-dormivo).
come direbbe Oscar a Rosa, non preoccuparti, ci sono qua io a vegliare sul tuo sonno