Una prosa e due poesie
di Antonio Scaturro
Letti dalle gambe
– Le madri non ci credono ai letti, o meglio: non credono alle loro gambe. –
Quando ero più piccolo, e la febbre faceva del mio corpo il centro di ogni fuoco, il letto diveniva l’unica dimora accessibile, “questo letto non è che un assaggio del buio, una preview della morte.”
I letti non si arrendono mai alle loro proporzioni, perciò se la danno a gambe elevate, proprio così: elevate, la vertigine febbrile portava a compimento l’impressione che le gambe percorressero una staffetta al soffitto, ma ogni gamba non sente ragione, punta al traguardo. Così, mentre una taglia la prima curva, un’altra, fuori forma com’è, inciampa in partenza.
Sono stato per anni spettatore inerme delle più terribili scorrettezze: non c’è fair play ai piedi del letto, solo l’avaria di questi arti tremendi, o il prodigio – in quantità massime -.
La luce dimessa su due gambe, ma poi ripresa, nella luce led blu del nintendo che fa “ciao ciao”, ma poi diventa rossa: rossa rossa fino a esplodere.
La notte ci misura la febbre con un bacio della fronte, mentre il buio raccatta le cose da terra, assesta il campo (tra le altre cose le zolle), assicura le condizioni minime necessarie.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma i letti non si tirano indietro mai, per questo abbiamo sempre pensato ai letti come a zattere, zattere a lenzuolo nel porto delle camere, ma le madri non lo sanno, non se le pensano nemmeno queste infinite maratone notturne, nella grande notte del focolare.
Così, mentre il mercurio mi prende sotto braccio, un altro delirio, ansimante e bollente: capita di essere il proprio Charizard, capita che non si respiri, capita che: lanciafiamme.
La camera ora è un rogo, – ciò che racconto accade adesso, in questo preciso momento -.
Ma ai vicini non interessa, se ne infischiano se la casa volge al termine, se le fiamme la avvolgono senza secondi fini – come gli antifurti la notte si rincorrono fra timpani e tempie -.
Voglio tentare, non so ancora se l’azione volge all’eroismo o alla disfatta, ma voglio provare ad alzarla questa testa. Chiaro che tutto poi ruzzola giù per il corpo, le granate della sete in questa trincea di buoni propositi. “L’intenzione non è mai stata buona, un discorso altro riguarda il piumone”.
E le gambe, quelle del letto dico, in questo concerto di fiamme che fanno? Continuano la loro sfrenata corsa, mentre dalle mensole il pubblico è, neanche a dirlo, infiammato più che mai e gioisce per ogni sgambetto, per ogni insulto: ad ogni sputo un tributo.
Il fuoco si è sempre difeso dalla parola, ma in questa notte nel tempio, il rogo sfila in passerella e non inciampa mai, ed è questa l’unica fine logica del verso: la fine, appunto.
La notte allaccia i lenzuoli così ci tiene a mente tutti gli oggetti, tutti incastonati nella camera: sono oggetti segnaletici, ci permettono una camminata agevole, in tutte le direzioni. È della mattina invece che temo gli spigoli, dunque mi faccio largo con le mani, con queste pupille al palmo sono una forza, un eroe mai visto. Nel sonno che non giunge mai, converso con la medicina, nel sapore alterato di dio, nella mora schivo il disgusto.
La mattina seguente ripristina il sangue, tutte le cose obbediscono al loro buio, mentre il resto ci suggerisce la cenere, a bassa voce, – abbiamo tanto pensato al freddo che quasi non bastano i cappotti -.
– Questa notte è stata una notte a camino -, non è vera la mattina che svela la realtà dei letti, ma noi confidiamo nel buio, che ci consegna gli highlights della corsa, perfetto come un cecchino, il rapporto delle 3:45.
La mattina dimette le gambe dei letti e assume le nostre, pesanti e senza molle, ci trasciniamo attraverso il giorno confidando nell’orizzonte della piuma, del cuscino di nuovo fresco.
Si ripristinano anche tutte le vertigini, come di consueto, così dal nulla il pensiero che le gambe non si muovano, e forse non esistano gambe dei letti ma solo letti dalle gambe, la terra come braille.
Alla febbre notturna segue la disperazione degli occhi, di queste pupille che seguono gli schermi come falene verso l’ustione, che si schiantano sulle cose come se non ci fosse un domani, ma questo domani giunge sempre, a ristabilire il tutto, a esaudire il lutto.
Temo ancora la febbre ma confido nel fuoco, – il verso verso le fiamme -, siamo talmente capaci di costruire che sarebbe un peccato non consegnare tutto al rogo, come dal principio si dividono le acque, così il fuoco, compatto come il vuoto, danzando porta a compimento ogni destino.
Questa fenice casca male, come di sbieco. Ora tutto muore irreversibilmente, come tutte le pietre senza occhi a dare acqua, nessun capo d’accusa, neppure un palo o una traversa a rimetterci in gioco.
– La morte senza se e senza ma, la stessa morte di sempre: frontale come i semafori. –
“Questo letto è abbastanza grande per tutti e due
vieni avanti, veglia con me
ma fa’ che non ci siano gambe
ma soprattutto occupati del domani:
fa’ sì che non sia mai domani”
—
il nome consiste in
questo sparire delle cose, nell’andarsene
muti fra i fischi.
dalla radice sottrae ancora
il peso, di questo corpo che
concede il taglio, che trabocca
e fa naufragio.
poi non rimane che acqua a
destinarci alla terra, e non ci sono mai,
- ma neanche per errore -,
altre mani a farci scudo.
– ora mischia i materiali
in modo che non siano più -
nel riparo ultimo conca d’aria
sfasa il fiato, annuncia un sorpasso. franiamo
fra tutte le ispirazioni, ma senza respiro
a reggere il gioco. (le mani di cui prima
reggono l’acqua, fanno un’ampolla
come per miracolo).
esposti finalmente
al fuoco aperto di ogni cosa.
—
Testi di guerra
- il testo al fronte che prediligo è il cecchino -
fuori dalle parentesi la morte si annuncia come
un’esondazione, trabocca dal testo.
“perché quel che racconto questa sera avviene questa sera, a questa stessa ora”
è così naturale la morte frontale, così tirata a lucido
senza sbavature.
la laterale giunge a
spiazzare le ore invece, fa fronte con le fionde,
ci costringe al punto e virgola; morte laterale.
la morte abita ogni girone dell’orologio
Oh gironi orrendi. In così verde etate!
tutti noi, da piccoli,
abbiamo preso quella botta
tra i piedi e la nuca
che ci consegna - un dono nel suo livello massimo di generosità -
la sventura del domani.
quando dormiamo in sospensione, la mattina
(appostata com’è dietro le cose) ci fredda al volo.
spesso la notte ci misura la febbre con un bacio della fronte,
mentre le gambe del letto
affette (come lo sono spesso)
da sproporzione, ci passano la torcia.
il prossimo fuoco dista un sonno. Solo uno.
[Immagine: W. Ryan.]