Negli archivi e per le strade
di Luca Somigli
“Negli archivi e per le strade: considerazioni meta-critiche sul “ritorno alla realtà” nella narrativa contemporanea”
Due agosti fa le cronache culturali del Belpaese, notoriamente sonnacchiose d’estate, sono state agitate dal dibattito sul “ritorno del reale” che, in ambito filosofico, ha fatto seguito alla pubblicazione sul quotidiano «Repubblica» di un breve testo di Maurizio Ferraris dal titolo ambizioso di Il ritorno al pensiero forte[1]. L’attacco riprendeva quello, famosissimo, di un classico del materialismo storico, il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels, parafrasato in questi termini: «Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare “New Realism”»[2]. La citazione, ha poi spiegato Ferraris, aveva una motivazione ben precisa: segnalare che il termine “New Realism” non intendeva designare una nuova teoria o un nuovo indirizzo filosofico, ma che piuttosto nominava uno «stato di cose» che ne precedeva l’enunciazione: lo spostamento del «pendolo del pensiero, che nel Novecento inclinava verso l’antirealismo nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmodernismo, “svolta linguistica” ecc.)» sul versante del realismo («anche qui, nei suoi tanti aspetti: ontologia, scienze cognitive, estetica come teoria della percezione ecc.»)[3]. In effetti, la figura fantasmatica di un “nuovo realismo”, dai contorni sfumati ed evanescenti come si conviene appunto a uno spettro, aleggiava già da tempo se non sull’intera cultura europea almeno sulla critica letteraria italiana, che di ritorni “alla” o anche “della realtà” – come se appunto si trattasse di un revenant riemerso dalla cripta a cui l’avrebbe consegnato il postmoderno – parlava ormai da qualche anno: anzi, per essere più precisi, almeno dal 2008, anno in cui la rivista «Allegoria» dedicava al “ritorno alla realtà” un’ampia sezione tematica del fascicolo di gennaio-giugno, curata da Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro e Giovanna Taviani[4], e in cui Wu Ming 1 presentava al convegno «Close Up and Personal», organizzato da Eugenio Bolongaro presso la McGill University di Montréal, una relazione dal titolo New Italian Epic, principio di una riflessione su certe tendenze della narrativa italiana contemporanea che, dopo varie rielaborazioni apparse in rete, avrebbe trovato pieno sviluppo nel volume dallo stesso titolo pubblicato l’anno successivo dalla casa editrice Einaudi[5]. Non che prima di quella data fossero mancati interventi volti a individuare i contorni di un «realismo corrispondente ai tempi»[6], primo fra tutti il fondamentale volume di Alberto Casadei Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, del 2007. Ciò che accomuna il fascicolo di «Allegoria» e il saggio/manifesto di Wu Ming 1, e che ha generato una discussione a tratti anche molto accesa in particolare sui blog letterari («Nazione indiana» e «Carmilla», rispettivamente), è il carattere militante dei due progetti, più evidente nel caso del New Italian Epic (NIE) in quanto dichiarazione di poetica volta in prima istanza a identificare, all’interno della narrativa contemporanea, una “nebulosa”, per usare un termine caro al collettivo, di opere caratterizzate da una condivisa visione della funzione della letteratura, ma presente anche nel numero della rivista diretta da Romano Luperini, soprattutto nell’inchiesta d’apertura in cui otto scrittori trenta-quarantenni di varie tendenze (per la cronaca, Mauro Covacich, Marcello Fois, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Aldo Nove, Antonio Pascale, Laura Pugno e Vitaliano Trevisan) venivano sollecitati a riflettere sui nuovi assetti della letteratura di inizio millennio. Entrambi i volumi prendono le mosse dalla percezione di una frattura – che non necessariamente implica un rifiuto completo – fra la narrativa della prima decade del duemila e il postmodernismo, inteso, spesso in maniera piuttosto parziale, come letteratura del disimpegno, dell’autoriflessività, del double coding fine a se stesso, del pastiche dal tono «distaccato e gelidamente ironico»[7]. L’evento-simbolo che rappresenta e rende visibile la cesura tra una postmodernità in declino irreversibile e un presente ancora magmaticamente in formazione è – prevedibilmente – l’attacco terroristico al World Trade Center di New York l’11 settembre 2001, evocato quasi come una sorta di scena primaria da Wu Ming 1 in apertura di New Italian Epic, ma anche richiamato esplicitamente nella prima domanda del questionario proposto da «Allegoria»[8]. Anche coloro che, come Donnarumma sulla scorta di Slavoj Žižek, consigliano prudenza nel attribuire un valore di rottura alla tragedia dell’11 settembre intesa come rivincita della “realtà” sul nichilismo postmoderno, non possono comunque non vedere in essa un discrimine oltre il quale il postmoderno da ideologia dominante si trasforma in difesa attardata[9]. Il valore simbolico di quello e di altri eventi della nostra storia recente è colto molto bene da Ferraris in un passo del Manifesto del nuovo realismo:
«Quello che chiamo “nuovo realismo” è […] anzitutto presa d’atto di una svolta. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di quelli che a mio avviso sono i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante della oggettività. Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, hanno fatto valere i loro diritti, confermando l’idea che il realismo (così come il suo contrario) possieda delle implicazioni non semplicemente conoscitive, ma etiche e politiche»[10].
Come vedremo, la posta in gioco del dibattito sul “nuovo realismo” sta proprio nella rivalutazione dell’aspetto etico del lavoro dello scrittore. Si tratta, in un certo senso, di rifondare il patto con il lettore. Radicalizzando l’“ermeneutica del sospetto” modernista, il postmoderno aveva risposto alla coscienza della natura già sempre mediatizzata di qualsiasi sguardo sul mondo rinunciando alla pretesa di agire sul mondo stesso, di cui si può parlare soltanto attraverso strategie di distanziamento come la citazione. Il lettore ideale è colui che non si lascia sviare dall’illusione di un referente – ad esempio, appassionandosi agli eventi e ai sentimenti dei personaggi – ma che invece apprezza il testo come un intrecciarsi di codici che non rimandano a niente oltre se stessi[11]. Il “ritorno alla realtà” si fonda su un diverso rapporto, retto da una sorta di gadameriana “buona volontà di comprendersi”, per cui al romanzo viene restituito il compito tradizionale di fornire schemi interpretativi del mondo – naturalmente secondo procedure adeguate al contesto storico e culturale – e allo scrittore quello di «fare della letteratura uno strumento di analisi e di denuncia del presente»[12]. Non è però solo la resistenza (in ambito letterario neanche troppo agguerrita, va detto fra parentesi) dei difensori del postmodernismo ad avere movimentato il dibattito intorno al “ritorno alla realtà”[13]. In un intervento in cui sottolineava, giustamente a mio parere nonostante i dinieghi dei Wu Ming[14], gli elementi di “familiarità” tra New Italian Epic e neorealismo – «interazione di verosimiglianza mimetica e inventività narrativa, cortocircuito tra realtà biografico-documentale e immaginazione romanzesca efficacemente padroneggiato»[15] – Vittorio Spinazzola notava che la «demonizzazione» del realismo in quanto tout court realismo sociale, e dunque, con facile assonanza, «contiguo al realismo socialista di staliniana memoria»[16], ha reso il termine una sorta di tabù nel salotto buono della letteratura. In particolare, il suo carattere anti-elitario porrebbe il realismo, in primis quello neorealista, agli antipodi dello sperimentalismo non solo delle varie avanguardie storiche e neo, ma anche dello stesso postmodernismo che ha camuffato il proprio «recupero di forme di comunicatività istituzionalizzata, dietro l’alibi furbesco dell’ironia e della parodia».[17] In effetti, diversi fra gli scrittori intervistati per l’inchiesta che costituisce il cuore del numero speciale di «Allegoria» mostrano un atteggiamento di sospetto, quando non di reciso rifiuto, verso il “realismo”, apertamente evocato nella terza domanda del questionario loro sottoposto: «Qual è il rapporto della sua scrittura con la tradizione del realismo?»[18] La risposta di Aldo Nove è rappresentativa dei motivi di questa diffidenza: «Dopo Freud, dopo lo strutturalismo e dopo Lacan parlare di realismo in buona fede mi sembra impossibile senza accettare che si tratti della convenzione di un’altra fiction»[19]. Lo si voglia o meno, il termine “realismo” – e ancor più, nel contesto italiano, quello di “neorealismo” – sembra implicare una fiducia nel potere della parola di fornire un adeguato modello della realtà che la letteratura contemporanea, figlia dell’ormai secolare scollamento tra ordine dei segni e ordine delle cose che costituisce uno dei traits d’union tra modernismo e postmodernismo, non può permettersi, pena appunto l’accusa di ingenuità, se non, peggio ancora, del più bieco zdanovismo. E infatti, il fantasma di Ždanov non ha tardato ad apparire: lo ha evocato, fra gli altri, Andrea Cortellessa, intervenendo a caldo sulla questione sul supplemento della «Stampa» «Specchio+», in cui ironizzava pesantemente sull’operazione promossa da «Allegoria», avvertendo addirittura nella proposta di una letteratura che vive l’incontro con la realtà come missione etica un «sentore di arte degenerata»[20], tanto per non farsi mancare anche l’altro regime autoritario del secolo breve.
La controinchiesta promossa da Cortellessa su «Specchio+» – con interventi di Antonio Scurati, Gabriele Pedullà, Laura Pugno, Tommaso Ottonieri, Andrea Bajani, Daniele Giglioli – e il vivace dibattito che ne è nato sul sito «Nazione indiana» permettono di mettere a fuoco alcuni dei nodi cruciali e controversi della questione.[21] In primo luogo, l’attenzione per la “realtà” sposterebbe il baricentro dell’opera sul versante del contenuto, cioè dell’elemento transeunte, laddove ciò che rende tale l’opera d’arte, che le permette di proiettarsi nel futuro, è il lavoro sulla forma. È la posizione espressa dallo stesso Cortellessa con un giudizio tranchant sul film Gomorra di Matteo Garrone (2008) – giudizio reso ancora più pungente dal valore esemplare che la fonte letteraria ha tra i sostenitori sia del ritorno alla realtà che del NIE: «Sono assolutamente certo che fra trent’anni, quando ripenserò a Gomorra di Matteo Garrone […q]uello che ricorderò sarà la luce della scena in cui i ragazzi, seminudi nell’acqua, giocano coi mitra»[22]. La domanda che ci si potrebbe porre, caso mai, è per quale ragione, se la «scommessa dell’opera d’arte» sta nel suo vivere simultaneamente nel presente grazie alla forza dei suoi contenuti e nel suo consegnarsi all’eternità in virtù della potenza espressiva, chi si preoccupa del primo aspetto sia da esecrare come un novello Ždanov quando non fa altro che diagnosticare – con tutte le incertezze del caso – ciò che appare urgente e rappresentativo a chi appunto nel presente vive. Vi è poi un secondo problema che ha il potenziale di minare alla base qualsiasi ipotesi di “ritorno alla realtà” non solo in letteratura ma in qualsiasi altra espressione culturale, e cioè la messa in questione della legittimità della categoria stessa di realtà da parte di una ormai consolidata tradizione di pensiero post-strutturalista e decostruzionista. Questa critica segue due orientamenti paralleli. Il primo è ben espresso da Antonio Scurati, il quale appellandosi a Jacques Lacan contrappone al “ritorno alla realtà” un ben più temibile “ritorno del Reale”, cioè di «quel nucleo sempre traumatico ed eccessivo che squarcia il velo dell’immaginario lasciandoci tramortiti perché incapaci di integrarlo nella nostra realtà»[23]. Posta come alternativa secca, la distinzione lacaniana tra realtà e Reale non lascia molto spazio di manovra per una pratica narrativa che voglia confrontarsi con il mondo. Infatti, la pretesa stessa di rappresentare la realtà come se questa avesse una esistenza al di fuori dell’ordine dell’immaginario – come se fosse cioè qualcosa di più di una simulazione – implica la resa di fronte al suo potere seduttivo, la legittimazione come verità di ciò che è invece rappresentazione manipolabile. Alla letteratura – a quella vera, e non mero esercizio di storytelling – viene delegato il compito di elaborare l’evento traumatico dell’avvento annichilente del Reale, che però è per sua natura irrappresentabile attraverso i codici che strutturano la realtà, ivi compreso il linguaggio. Dunque, per Scurati, l’unico “realismo” possibile è un realismo che «agogni alla realtà ma assuma nel proprio fondo la perdita del rapporto con la realtà»[24], in una sorta di cortocircuito autoreferenziale per cui l’unico modo per parlare della realtà è costatarne il dileguarsi over and over again. Il punto di partenza della riflessione di Scurati costituisce l’altro orientamento, che potremo per comodità riassumere con l’etichetta di “derealizzazione del mondo”. Lo stesso Scurati aveva già affrontato la questione in un testo spesso citato nel dibattito sul ritorno alla realtà, il pamphlet La letteratura dell’inesperienza (2006), in cui la condizione desolante dello scrittore contemporaneo veniva delineata in contrasto con quella descritta da Calvino nel ritornare con la memoria al periodo della composizione del Sentiero dei nidi di ragno in occasione della riedizione del romanzo nel 1964. Ciò che del dopoguerra colpisce Calvino, e che colpisce Scurati lettore di Calvino, è la percezione di un rapporto solidale tra lo scrittore e la propria cultura e fra scrittore e pubblico. Nel presente questo rapporto semplicemente non esiste, non si dà più, e questo perché si è dileguato l’elemento connettivo che unificava la comunità. Scrive Scurati:
«Ciò che manca è quella “elementare universalità dei contenuti” che caratterizzava il neorealismo italiano del dopoguerra, quella presenza di elementi extraletterari tanto massiccia e indiscutibile da sembrare “un dato di natura”, e da far sì che, per il giovane Calvino e per i suoi contemporanei, tutta la questione letteraria si risolvesse in un problema di poetica: “Come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo”. Oggi il problema si riformula così: come trasformare in opera letteraria quel mondo che è per noi l’assenza di un mondo»[25].
Vi sarebbe dunque un divario incolmabile tra la generazione di Calvino, quella che ha fatto la guerra e la resistenza e quindi ha il diritto e il dovere di portare la propria testimonianza suffragata dalla “massiccia e indiscutibile” realtà degli eventi da essa vissuti e noi poveri uomini e donne dell’età del ferro, desolati abitatori di un mondo abbandonato dagli dei e dagli eroi, e soprattutto dai contenuti. Anzi, noi contemporanei saremmo stati abbandonati dal mondo stesso, perché il problema sarebbe proprio «l’assenza di mondo»[26], senza più neanche l’articolo indeterminativo a lenire un po’ la ferita. La colpa di questa assenza, va da sé, è dei mass media e della cultura di massa, che hanno rimosso l’esperienza dall’immediata sfera d’azione del soggetto per trasferirla, fantasmatica riproduzione infinita, sugli schermi televisivi. Gettandoci nel flusso degli eventi, in un eterno presente da cui non può emergere alcun senso dato che non esistono pause di riflessione, la televisione ci sottrae dal confronto diretto con l’esperienza. A differenza della parola scritta – meglio se letteraria – che permetterebbe di elaborare gli eventi, di stabilire quello scarto temporale che favorisce la riflessione critica, l’immagine collassa le barriere del tempo e dello spazio, si offre ad una fruizione apparentemente immediata, in tutti i significati della parola, ma che nei fatti omogeneizza gli eventi rappresentati trasformandoli in un informe ed ininterrotto spettacolo. La realtà insomma non si offre più ai moderni, uccisa in quello che Jean Baudrillard ha chiamato con una formula divenuta famosa, «il delitto perfetto» per opera dei nuovi mezzi di comunicazione (ma varrà almeno la pena di ricordare che il sottotitolo La televisione ha ucciso la realtà? apposto alla traduzione italiana non esiste nell’edizione francese ed è forse più sintomatico delle ossessioni della cultura del nostro paese che non delle tesi del filosofo)[27]. Si profila una sorta di mutamento di paradigma tra la generazione dei padri postbellici e quella dei figli postmoderni. I primi si muovevano in una cultura ancora governata dal principio della verticalità, della profondità, della trasmutazione dell’esperienza in testimonianza che a sua volta diventava fonte di autorità. Il presente è invece all’insegna dell’orizzontalità, dello scorrere da un’immagine all’altra, da un evento al successivo, senza alcuna elaborazione critica. Per Scurati: «siamo nell’epoca delle immagini del mondo, cioè – insegnava Heidegger – nell’epoca della riduzione del mondo alle sue immagini; per questo, la mia generazione di scrittori ha dovuto e deve affrontare il problema di come trasformare in opera letteraria l’assenza di un mondo eclissatosi assieme all’autorità del vivere e della testimonianza» [28].
L’estrinsecazione del dilemma dello scrittore contemporaneo è seguita da una sua descrizione concreta: come raccontare la guerra non tanto quando non se ne ha esperienza ma piuttosto quando questa esperienza – che a volte appare pervasiva – è sempre mediata, «principalmente dalla televisione»[29]. La guerra, scrive Scurati, «era ora una realtà deprivata della sua esperienza. Una serata di morte comodamente adagiati sul divano del salotto di casa sorseggiando birra fresca»[30]. Un simile dilemma è al centro del saggio di Daniele Giglioli Senza trauma, apparso nel 2011 (ma alcuni spunti erano già nel suo intervento in «Specchio+»). Per Giglioli, la proliferazione del termine “trauma” per descrivere le più disparate forme d’esperienza ha a che fare con un problema di legittimità: se infatti, per dirla nei termini di Scurati, il “racconto dell’esperienza” è in primis un affermare la propria presenza e sopravvivenza, è evidente come la “vittima”, colui che ha subito un trauma, abbia una legittimità maggiore di chi, vivendo in una società in cui «le occasioni di trauma sono state respinte ai margini dell’esperienza quotidiana»[31], gli eventi traumatici al massimo se li vede appunto comodamente alla televisione, e sono comunque qualcosa che riguarda gli altri. Al dileguarsi delle esperienze traumatiche farebbe riscontro un dilatamento del ruolo del trauma stesso nella strutturazione dell’esperienza: da qui la necessità di immaginare il trauma – e di immaginarlo in maniera sempre più scioccante. Il paradosso è tutto qui, nel fatto che l’evento traumatico, come il Reale lacaniano, è per definizione impervio all’elaborazione, alla simbolizzazione che ne permetterebbe l’integrazione nella realtà del vissuto. Il trauma lo si subisce o non lo si subisce, non si danno surrogati, per cui la scrittura dell’estremo, così come i toni costantemente sopra le righe dei mass media, non solo non riescono a rappresentare l’esperienza, ma anzi contribuiscono alla sua ulteriore derealizzazione. Presi tra un Reale il cui accadere è sempre più raro e una realtà che si presenta sempre più spesso come reality, come spettacolarizzazione effimera e inconcludente in un mondo abbandonato dall’autenticità, cosa rimane agli scrittori in particolare e agli intellettuali in generale se non contemplare sconsolatamente la propria sterilità?[32]
Epperò ci si potrebbe chiedere se l’insistere sul sottrarsi del Reale e sulla derealizzazione del mondo, oltre a contornare un problema, non sia anche un modo per sospendere quasi a priori la necessità di un confronto con il mondo materiale. In un passo cruciale del Manifesto del nuovo realismo, Ferraris definisce come carattere fondamentale della realtà la “inemendabilità”. L’inemendabilità, scrive Ferraris, «ci segnala infatti l’esistenza di un mondo esterno, non rispetto al nostro corpo (che è parte del mondo esterno), bensì rispetto alla nostra mente, e più esattamente rispetto agli schemi concettuali con cui cerchiamo di spiegare e interpretare il mondo»[33]. Vi è, oltre le rappresentazioni e le interpretazioni, un qualcosa di materiale che resiste e non si esaurisce in quelle rappresentazioni e interpretazioni stesse. Torniamo all’11 settembre. Una delle immagini iconiche della tragedia, al pari di quelle degli aerei che si abbattono sui due edifici del World Trade Center o del crollo delle Torri Gemelle, è la fotografia di Richard Drew The Falling Man, a cui si sono ispirati fra gli altri Don De Lillo per il romanzo omonimo (2007), Wislawa Szymborska per la poesia Una fotografia dell’11 settembre (2002; ma una semplice ricerca con google mostra come quello del Premio Nobel polacco sia solo il maggiore esempio di una vasta produzione poetica sul tema) , il regista Henry Singer per il documentario 9/11: The Falling Man (2006). Eppure questa proliferazione di interpretazioni dell’uomo che cade non cancella – e anzi forse proprio per la sua quasi ossessionante qualità mette in risalto – l’esito finale di quel disperato volo, l’impatto di un corpo fisico, carne ed ossa, contro il selciato decine di piani più sotto. Possiamo davvero mettere fra parentesi la materialità di quel corpo nel momento in cui le sue innumerevoli rappresentazioni ci interpellano? Davvero il fatto che immagini simili appaiano in contesti dichiaratamente finzionali (i classici action movies) revoca in dubbio lo statuto ontologico dell’uomo che cade? È qui che mi pare che si collochi il limite della teoria della “derealizzazione del mondo”: l’atto di mettere in relazione un’immagine ad un referente reale, materiale nel senso che abbiamo appena visto, è una scelta etica, oltre che epistemologica, che implica il riconoscimento del trauma subito dall’altro anche nel momento in cui esso non ci tocchi direttamente. Né, mi pare, può essere attribuita al mezzo televisivo la responsabilità della supposta “inesperienza” che tormenta i contemporanei. Ammesso che la televisione costituisca una sorta di medium in cui, come nell’aria che respiriamo, siamo tutti immersi (ma questa pare una visione già un po’ antiquata nell’era di internet che pone altri e diversi problemi), forse sta anche a noi fruitori del prodotto che essa ci propone imparare a distinguere tra reality e realtà, tra immagini di guerra di un film e immagini di guerra dall’altro capo del mondo. Pur abitando nello stesso “deserto del reale”, c’è chi davanti alle immagini del bombardamento di Baghdad nel 1990 si è fatto una birretta e chi ha cercato, per quanto velleitariamente, di agire sulla realtà e fermare le bombe, ad esempio scendendo in strada a manifestare. Ma poi forse va capito meglio cosa si possa intendere per esperienza o per trauma. In senza trauma Giglioli stabilisce un rapporto quasi di identità tra Reale lacaniano e trauma. «Il Reale», scrive, «ha la natura dell’evento, non del senso, o meglio dell’evento senza senso, traumatico, in quanto non può essere elaborato, simbolizzato, reso nominabile».[34] Laddove appunto non si danno più traumi effettivi, come era invece il caso della letteratura modernista reduce dallo shock della modernità, esso deve venire prodotto con una scrittura dell’estremo, le caratteristiche del quale il critico individua in due forme di scrittura di gran voga all’inizio del ventunesimo secolo, e cioè la narrativa di genere, giallo/noir in primis, e l’autofiction. In entrambi i casi, gli eventi traumatici non sono il risultato di un incontro con la realtà ma piuttosto servono a generare una «pretesa di autenticità»[35], un effetto di realtà. Per limitare le mie osservazioni al romanzo di genere, che conosco meglio, se da una parte sono giustissime le osservazioni di Giglioli riguardo alle limitazioni del complottismo[36], dall’altra mi pare che non sia vera la premessa, cioè che il genere produca, attraverso la messa in scena di azioni estreme, un trauma simulato che supplementi, proprio in virtù della proprio esagerato ed esibito passare il limite, una realtà altrimenti priva di esperienze. Il complottismo può anche essere interpretato come il tentativo di elaborare un trauma – una serie di traumi – molto reali, gli innumerevoli misteri e atti di violenza che hanno lacerato il corpo della nazione e per i quali non sono state trovate ad oggi risposte convincenti. La lista è nota e lunghissima – la morte di Enrico Mattei, Piazza Fontana, il treno Italicus, il rapimento e l’omicidio di Moro, la Stazione di Bologna, Ustica, Gladio, Via dei Georgofili, gli omicidi di Falcone e Borsellino, e su su per li rami fino al G8 di Genova e oltre – e mi pare difficile identificare nella scrittura “estrema” solo il tentativo di produrre un’esperienza traumatica dato che di esperienze traumatiche la tanto esecrata realtà non è certo stata avara, almeno alle nostre latitudini. Non a caso il patrono di molti “complottisti” non è l’Ellroy o il Manchette di turno, ma il Pasolini corsaro del Romanzo delle stragi («Io so. Ma non ho le prove…»), e le loro opere sono il tentativo, a volte sconclusionato o compiaciutamente paranoico, a volte semplicistico, e a volte anche capace di una certa penetrazione, di dare forma a quella testimonianza impossibile e necessaria. Vi sono stati traumi collettivi anche dopo lo spartiacque epocale della Seconda Guerra Mondiale, ed è bene ricordarlo proprio per evitare quella che Jean-Michel Chaumont, opportunamente evocato da Giglioli, chiama «concorrenza delle vittime»[37], la rincorsa a chi può esibire il trauma peggiore. Certo, se si prendono i genocidi del secolo scorso come misura della traumaticità è evidente che di fronte ad essi e ai loro testimoni tutti gli altri sono costretti al silenzio. È invece evitando di gerarchizzare che si può dar voce a diverse forme di trauma, e le opere dei “complottisti” sono lì a ricordarci con insistenza che i traumi della nostra storia recente non sono né virtuali né di facile elaborazione. Qualcosa di simile vale anche per i traumi individuali. In un recente saggio con cui interveniva nel dibattito sul “nuovo realismo” filosofico, lo psicoanalista Massimo Recalcati è tornato sulla distinzione lacaniana tra realtà e Reale, descrivendo il secondo come ciò che interviene a «rompere traumaticamente»[38] il flusso ordinato e ripetitivo della prima. Fin qui niente di nuovo. Ciò che colpisce è però quella che potremmo chiamare la quotidianità, per non dire la banalità, del Reale. Ben lungi dall’essere l’avvento numinoso di una «cosa terrificante» che annienta come un dio del mito[39], l’evento che spezza la continuità, la predicibilità di cui è tramato il nostro vissuto è quanto di più comune si possa immaginare:
«L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette improvvisamente a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, la durezza insensata di una agonia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che danneggia la mia vita e che nessuna interpretazione e nessun farmaco riesce a far regredire, un innamoramento che travolge l’ordinarietà della mia esistenza, un’esperienza mistica, l’incontro con un’opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva, la rivolta di una generazione che non accetta il decorso stabilito dalla crisi».[40]
Due cose almeno vanno notate. In primo luogo, che il Reale si manifesta nell’incontro del soggetto con un mondo materiale e sociale da esso incontrollabile (ivi compreso ciò che ribolle al di sotto della soglia della coscienza, e su cui il soggetto non ha alcun potere), «una esteriorità che non si lascia assimilare o governare in nessun modo»[41]. È questo incontro, piuttosto che una realtà esterna al soggetto ma perfettamente conoscibile e oggettivabile, che il realismo degli anni zero si propone di pensare attraverso lo strumento della scrittura. In secondo luogo, va sottolineato che, come suggeriscono gli ultimi due esempi, l’irruzione del Reale nella trama disciplinata della realtà può prendere anche la forma di eventi collettivi, intersecarsi cioè con la dimensione pubblica della realtà stessa. Scrivere di disoccupazione, crisi economica, immigrazione, corruzione, non significa, o almeno, non significa necessariamente, fare del contenutismo (e comunque non sarebbe male chiedersi perché sporcarsi le mani con il contenuto sia di per sé una cosa negativa), quanto piuttosto riconoscere nel trauma qualcosa che articola esperienza individuale ed esperienza collettiva. Mi pare che tutto ciò fosse già ben chiaro nelle conclusioni di Donnarumma all’articolo che ha dato fuoco alle polveri, dove veniva sottolineata la resistenza delle cose alla scrittura piuttosto che la loro malleabilità, il che esclude qualsiasi facile fiducia nella rappresentabilità oggettiva del mondo (il critico parlava già allora di una «tensione realistica» in opposizione a un improponibile «realismo di scuola»[42]) e piuttosto implica che la scommessa del narratore si giochi nel momento in cui si confronta con il pubblico ed in pubblico («il realismo è un’operazione sociale», dice ancora Donnarumma[43]). Il punto in comune della proposta critica del “ritorno alla realtà” e di quella di poetica del NIE sta proprio nell’avere dato nuova attualità ed urgenza alla questione del ruolo pubblico dello scrittore, il che non vuol dire esibire la propria esistenza privata e integrarsi nel sistema dell’entertainment[44], quanto piuttosto misurarsi, «in modo problematico e senza garanzie, [con] la ricerca dei valori culturali collettivi e il senso dei destini individuali»[45]. È un ruolo che anche Wu Ming 1 rivendica per gli autori del NIE quando ne esalta la fiducia «nel potere maieutico e telepatico della parola, e nella sua capacità di stabilire legami»[46]. Fare “epica” non significa soltanto fare delle scelte formali («narrazioni […] grandi, ambiziose, ‘a lunga gittata’, ‘di ampio respiro’»[47]) o contenutistiche («guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza»[48]), ma in primo luogo riattivare quelle sollecitazioni di natura etica e politica – e quindi collettiva – che, come ha notato Claudia Boscolo in uno dei primi interventi sul NIE, caratterizzano la tradizione epica italiana[49].
È anche per questo che appaiono dunque abbastanza fuori luogo le accuse di zdanovismo di ritorno o le facili ironie su un realismo post- o neo-neo-, e via prefissando. Il “realismo” della narrativa contemporanea non è il risultato dell’applicazione di un metodo o, tanto meno, di una formula con scopi predeterminati, ma è il tentativo di dare forma ad un incontro con la realtà, per cui la ricerca formale, l’elaborazione di adeguate strutture narrative non precede questo incontro ma è prodotta nel momento in cui esso ha luogo. La distinzione tra realismo “ristretto” e realismo “allargato”, a loro volta passibili di ulteriori articolazioni, proposta da Alberto Casadei in uno dei più acuti contributi al dibattito[50], dimostra la flessibilità dell’idea di realismo nel momento in cui si vada al di là delle formule ereditate dalla tradizione. Ma quanto a questo, sono le opere stesse a parlare: la rappresentazione della crisi insieme economica e generazionale degli anni a cavallo del 2000 può prendere la forma del realismo psicologico relativamente tradizionale di Acciaio di Silvia Avallone o del docudrama[51] di Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove; la narrazione dei “misteri italiani” può avvenire attraverso il realismo paranoide di Nel nome di Ishmael di Giuseppe Genna o attraverso quello allegorico de Il tempo materiale di Giorgio Vasta; la contiguità tra criminalità organizzata, economia planetaria e territorio può essere esplorata attraverso l’incrocio tra giornalismo investigativo e forte presenza del soggetto autoriale di Gomorra di Roberto Saviano o attraverso l’innesto tra cronaca e personaggi e situazioni mutuati dalla narrativa di genere di Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo… E anche laddove si recuperino strategie tipiche del postmoderno, come l’esibizione della natura artificiosa della narrazione o la riflessione meta-letteraria – penso ad esempio alla produzione più recente di Genna o alla autofiction di Siti – ciò è funzionale alla riattivazione del patto di fiducia tra scrittore e lettore riguardo alla vocazione della letteratura a strumento di analisi e critica del presente di cui si è parlato all’inizio in quanto, ribaltando un luogo comune del postmoderno, la presa d’atto della discontinuità tra le parole e le cose non costituisce di fatto un atto di resa ad essa quanto piuttosto l’indice della simultanea difficoltà e necessità del tentativo di colmarla. La varietà dei modi in cui si realizza il “nuovo realismo” – inteso, come si è visto, non come sistema prescrittivo di norme ma come una vasta gamma di esperienze volte a riannodare il legame tra letteratura e realtà sociale – è evidente nei saggi raccolti in questo volume, nati come contributi al convegno «Negli archivi e per le strade: il ‘ritorno al reale’ nella narrativa italiana di inizio millennio» organizzato da chi scrive presso l’Università di Toronto dal 6 all’8 maggio 2010, e in dialogo ideale con altre iniziative simili fiorite fuori d’Italia intorno al dibattito sulla letteratura contemporanea[52]. Il titolo del convegno riprendeva un passo di New Italian Epic secondo il quale ciò che accomuna un gran numero di scrittori contemporanei è «un desiderio feroce che ogni volta li riporta agli archivi, o per strada, o dove archivi e strada coincidono»[53]. Mi è parso che l’archivio e la strada potessero assolvere la funzione di luoghi-simbolo del “ritorno alla realtà”, sia che esso si configuri come necessità di fare i conti con i numerosi angoli bui della storia italiana recente (ma non solo), sia che risponda invece al desiderio di dare forma e di comprendere una società i cui tradizionali punti di riferimento culturali, politici e sociali hanno subito radicali trasformazioni.
Il volume si articola in quattro sezioni. La prima riunisce contributi di natura teorica o metodologica che permettono di mettere a fuoco alcuni dei nodi più complessi del dibattito, dalla natura stessa del romanzo italiano al dialogo tra linguaggio televisivo e linguaggio letterario, dalle possibili genealogie di un “realismo” contemporaneo ai limiti che una interpretazione lacaniana del Reale pone al discorso critico. I saggi raccolti nella seconda parte, intitolata «Negli archivi: narrare la Storia», propongono una riflessione sulla narrativa che situa le proprie vicende in un passato più o meno remoto, se non addirittura alternativo. Se pare difficile applicare in maniera sistematica l’etichetta di “romanzo storico” alla varietà di testi qui presi in considerazione, va comunque sottolineata la forte presenza, negli autori che in diverso modo si confrontano con il passato della nazione (e non solo), di un imperativo etico che li inserisce nella tradizione di quel genere, se è vero che, come ha scritto Margherita Ganeri, sin dalla sua nascita in ambito romantico esso è caratterizzato dalla «volontà di contrastare le omissioni e le falsificazioni della storiografia ufficiale»[54]. I saggi della terza sezione, «Per le strade: i luoghi (fisici o virtuali) del “ritorno alla realtà”», hanno invece come oggetto opere collocate saldamente nella contemporaneità. Come nel passo di New Italian Epic appena citato, la “strada” sta qui, per sineddoche, per lo spazio sociale e la sua ritrovata centralità in narrativa, dopo il ripiegarsi sull’esperienza soggettiva e privata del “romanzo medio”[55] e sul citazionismo di certo postmodernismo. Descritti con una minuziosità da documentarista o evocati attraverso le voci di chi li abita, i call center in cui si sviliscono le speranze di una generazione di giovani italiani, le piazze in cui periodicamente esplodono la protesta e la violenza dello stato, i siti internet in cui si producono nuove forme di esperienza e socialità virtuali costituiscono altrettante tessere di un mosaico sociale che la narrativa contemporanea torna ad analizzare con rinnovata fiducia. Infine nella quarta parte, «Sconfinamenti: genere, gender, multimedialità», sono raccolti quei saggi che si occupano di scrittori o opere che attraversano e mettono in questione le tradizionali frontiere che ritagliano il campo culturale: non solo, secondo l’insegnamento del postmoderno, letteratura alta e bassa, in particolare attraverso lo strumento del genere, ma anche fiction e non-fiction attraverso modalità di scrittura che mescidano registri diversi come lo sguardo documentaristico e l’esibita presenza dell’io narrante, o scrittura e visualità attraverso un fertile processo di scambio tra media, come nel caso della graphic novel.
[ Introduzione al volume Negli archivi e per le strade: il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, a cura di Luca Somigli, Roma, Aracne editrice, 2013, http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/catalogo/9788854858626-detail.html ]
[1] M. Ferraris, Il ritorno al pensiero forte, in «Repubblica» 8 agosto 2011, consultabile sul sito http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/08/il-ritorno-al-pensiero-forte.html. Sul “nuovo realismo” filosofico si veda ora M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza, 2012.
[2] Id., Manifesto, cit., ed. Kindle, loc.
[3] Ibidem, loc. 20. Vale la pena di notare che l’uso del termine inglese nell’intervento apparso su «Repubblica» derivava dal fatto che l’articolo voleva anche servire da annuncio di un convegno internazionale sul tema da tenersi nella primavera 2012 all’Università di Bonn (se ne veda ora il programma sul sito http://www.europhilosophie.eu/doctorat/spip.php?article46#Program). Nel Manifesto del nuovo realismo e in altre pubblicazioni Ferraris si è servito della più sobria versione italiana del termine.
[4] R. Donnarumma, G. Policastro e G. Taviani, Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, in «Allegoria» n. 57, gennaio-giugno 2008, pp. 7-93 (ma su questioni affini vertevano altri contributi nel volume, in particolare G. Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), pp. 95-136).
[5] Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009.
[6] A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 13.
[7] Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 21. Per un’interpretazione del postmodernismo italiano che ne rivaluta il valore politico, si veda almeno P. Antonello e F. Mussgnug (a cura di), Postmodern Impegno. Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Oxford et al., Peter Lang, 2009 (in particolare, l’ampia introduzione dei due curatori, pp. 1-29).
[8] Ma sull’11 settembre come fine della ricreazione postmoderna la bibliografia è ormai vasta, soprattutto in Italia. Si vedano almeno R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2005, in particolare pp. 15-22, dove l’attentato alle Torri Gemelle pare chiudere un ciclo iniziato con la caduta del Muro di Berlino e l’annuncio della “fine della storia”; C. Benedetti, Il tradimento dei critici, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 29-37; e A. Casadei, Stile e tradizione, cit., p. 40.
[9] R. Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, in «Allegoria» n. 57, gennaio-giugno 2008, pp. 27-28. Di Žižek, si veda in particolare Welcome to the Desert of the Real, London & New York, Verso, 2002.
[10] M. Ferraris, Manifesto, cit., loc. 41.
[11] Penso ad esempio al lettore postmoderno ipotizzato da Umberto Eco nella Postille al Nome della rosa, Milano, Bompiani, 1984.
[12] R. Donnarumma, “Storie vere”: narrazioni e realismi dopo il postmoderno, in «Narrativa», n. 31/32, 2010, p. 43.
[13] Mi pare che negli ultimi dieci anni l’unico tentativo di pensare in termini positivi il postmoderno (pur evitando accuratamente il termine) sia stato quello di Alessandro Baricco in I barbari: saggio sulla mutazione, Milano, Feltrinelli, 2006. Con la consueta capacità di penetrazione, Monica Jansen lo inserisce nel dibattito intorno al New Italian Epic nel saggio Laboratory NIE: Mutations in Progress, in «Journal of Romance Studies» vol. 10, 2010, n. 1, pp. 98-102.
[14] Stricto sensu, il termine “realismo” non appare infatti nel memorandum, se non in termini negativi in una nota alla versione 2.0 del documento (poi confluita, ma in una versione più moderata, nella sezione intitolata Sentimiento nuevo del volume einaudiano), in cui Wu Ming 1 anzi prende le distanze dal dibattito sul realismo, imputando polemicamente la sovrapposizione tra il New Italian Epic e quello che chiama “neoneorealismo” alla pigrizia della critica. Cfr. New Italian Epic versione 2.0, http://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf, p. 4. Va anche detto che, se questa introduzione tenderà a sottolineare gli aspetti convergenti delle proposte critiche del NIE e dei fautori del “ritorno alla realtà”, ciò non vuol dire che esse possano essere tout court assimilate. Al di là della battuta sul “neoneorealismo”, vi è ad esempio nel primo un’apertura verso forme espressive come il fantastico e il grottesco che non troviamo invece nei secondi.
[15] V. Spinazzola, La riscoperta dell’Italia, in Id. (a cura di), Tirature ’10. Il New Italian Realism, Milano, Il Saggiatore, 2010, p. 10.
[16] Ivi, p. 11
[17] Ibidem.
[18] R. Donnarumma e G. Policastro, Ritorno alla realtà? Otto interviste a narratori italiani, in «Allegoria», n. 57, gennaio-giugno 2008, p. 9.
[19] Ivi, p. 19.
[20] A. Cortellessa, La rivincita dell’inatteso, in «Specchio+», novembre 2008, p. 138.
[21] Sul dibattito si veda anche il saggio dichiaratamente di parte ma non per questo meno informativo di Margherita Ganeri Reazioni allergiche al concetto di realtà. Il dibattito intorno al numero 57 di «Allegoria», in H. Serkowska (a cura di), Finzione cronache realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrative italiana contemporanea, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 51-68.
[22] A. Cortellessa, Editoriale, in «Specchio+», novembre 2008, p. 18. Il dibattito nato intorno al libro di Saviano, pubblicato nel 2006, anticipa diversi aspetti di quello sul “ritorno alla realtà”. Si vedano almeno C. Benedetti, F. Petroni, G. Policastro e A. Tricomi, Roberto Saviano, Gomorra, in «Allegoria», n. 57, gennaio-giugno 2008, pp. 173-195, e A. Casadei, Gomorra e il naturalismo 2.0, in M. Jansen e Y. Khamal (a cura di), Memoria in Noir. Un’indagine interdisciplinare, Bruxelles et al., Peter Lang, 2010, pp. 107-122.
[23] A. Scurati, Lo spettacolo della realtà, in «Specchio+», novembre 2008, p. 141. In queste mie note introduttive ho cercato di riservare il termine “reale” per il concetto lacaniano, anche se naturalmente spesso (e a cominciare proprio dal sottotitolo del convegno da cui ha origine il presente volume) esso è usato come sinonimo di “realtà”.
[24] Ibidem.
[25] A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano, Bompiani, 2006, pp. 19-20.
[26] Ivi, p. 20.
[27] J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, trad. it. di Gabriele Piana, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.
[28] A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., pp. 60-61. Molto utili a questo riguardo sono le riflessioni di Monica Jansen su Scurati “apocalittico” – secondo la nota coppia dicotomica di Eco – opposto all’integrato Baricco in M. Jansen, Laboratory NIE, cit., pp. 98-100.
[29] A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 62
[30] Ivi, p. 63
[31] D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 8
[32] Sulle trasformazioni nel ruolo pubblico dell’intellettuale (e dello stesso concetto di “pubblico”), si veda A. Cortellessa, Intellettuali, Anni Zero, in A. Cortellessa et al., Dove siamo? Nuove posizioni della critica, Palermo, :duepunti, 2011, pp. 15-40.
[33] M. Ferraris, Manifesto, cit., loc. 613.
[34] Ivi, p. 17
[35] Ivi, p. 23
[36] Ma sull’argomento si era già espresso Filippo La Porta in Contro il Nuovo Giallo Italiano (e se avessimo trovato il genere a noi congeniale?), in G. Ferroni et al., Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, Roma, Donzelli editore, 2006, pp. 55-75.
[37] D. Giglioli, Senza trauma, cit., p. 10.
[38] M. Recalcati, Il sonno della realtà e il trauma del reale, in M. De Caro e M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà, Torino, Einaudi, 2012, edizione Kindle, loc. 2548.
[39] Cfr. A. Scurati, Lo spettacolo della realtà, cit., p. 141.
[40] M. Recalcati, Il sonno della realtà, cit., loc. 2558.
[41] Ibidem. E ancora, secondo la definizione di Lacan: «il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione» (Ivi, loc. 2576).
[42] R. Donnarumma, Nuovi realismi, cit., p. 54.
[43] Ibidem. Cfr. anche R. Donnarumma, E se facessimo sul serio?, in «Nazione Indiana», 31 ottobre 2008, <www. https://www.nazioneindiana.com/2008/10/31/quid-credas-allegoria/>.
[44] Cfr. A. Cortellessa, Intellettuali, Anno Zero, cit., pp. 33-35.
[45] R. Donnarumma, Nuovi realismi, cit., p. 26.
[46] Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 22. Sull’importanza del romanzo come forma narrativa rivolta in primo luogo ad una collettività, si veda anche A. Casadei, Realtà o contemporaneità? Le prerogative per un buon romanzo e i compiti dei critici, «Nazione Indiana», 17 novembre 2008, <www.nazioneindiana.com/2008/11/17/realismi/>.
[47] Ivi, p. 15.
[48] Ivi, p. 14.
[49] C. Boscolo, Scardinare il postmoderno: etica e metastoria nel New Italian Epic, «Carmilla», 29 aprile 2008 <www.carmillaonline.com/archives/2008/04/002620.html#002620>.
[50] A. Casadei, Realismo e allegoria nella narrative italiana contemporanea, in H. Serkowska (a cura di), Finzione cronache realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Massa: Transeuropa, 2011, pp. 5-8.
[51] Riprendo il termine dalla scheda del libro sul sito dell’editore Einaudi – scheda che inizia significativamente con la seguente asserzione di veridicità: «Questa non è fiction. È realtà» (cfr. <http://www.einaudi.it/libro/scheda/(isbn)/978880614649/>).
[52] Vale la pena di ricordare almeno il volume a cura di Hanna Serkowska, Finzione cronache realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Massa: Transeuropa, 2011, e i numeri più recenti della rivista Narrativa, curata da Silvia Contarini, che dal 2006 si è posta come “osservatorio” per lo studio del «rapporto tra la creazione letteraria e le trasformazioni profonde e globali in corso nella società italiana degli inizi del XXI secolo» (S. Contarini, Raccontare l’azienda, il precariato, l’economia globalizzata. Modi, temi, figure, in «Narrativa» n. 31/32, 2010, p. 7).
[53] Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 11.
[54] M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Lecce, Piero Manni, 1999, p. 28.
[55] Sul “romanzo medio”, cfr. S. Tani, Il romanzo di ritorno. Dal romanzo medio degli anni sessanta alla giovane narrativa degli anni ottanta, Milano, Mursia, 1980.
Pignoleria: “…otto scrittori trenta-quarantenni di varie tendenze (per la cronaca, Mauro Covacich, Marcello Fois, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Aldo Nove, Antonio Pascale, Laura Pugno e Vitaliano Trevisan)”. Fois e Trevisan hanno passato i cinquanta.
[…] un lungo intervento di Luca Somigli appena uscito su Nazione Indiana, in realtà la sua introduzione a un libro appena uscito, che raccoglie gli atti di un convegno. Il […]
@mozzi
il numero della rivista di allegoria a cui l’elenco di nomi si riferisce è del 2008. trevisan e fois avevano 48 anni ed erano quindi “trenta-quarantenni”.
[…] Negli archivi e per le strade | Nazione Indiana. […]
me mi pare che tutto ciò altro non sia che un bel modo per continuare a scrivere libri e propagandare i propri romanzi dotandoli di pretenziosi sovrasignificati oltre alla loro eminente funzione di intrattenimento, in questa maniera peraltro propagandando l’utilità del mestiere (ovvero dello sfangarci le mesate) di critico e di autore letterario a una società che in realtà (anzi, in Realtà) non ne sente più di tanto la mancanza.
‘nzomma, il NIE è una pietosa bufala già sbugiardata da Dal Lago (en passant, mentre faceva giustamente a pezzi Gomorra e Saviano) e dalla sua stessa inoperosa e fallace vaghezza concettuale, la quale, a ben vedere comprenderebbe nel NIE anche “Le mosche del capitale” di Volponi, non fosse stato questo libro malauguratamente pubblicato nel 1989, e chissà quante altre opere rispondenti ai requisiti totalmente arbitrari stabiliti dal nostro Bui, peraltro al solo e semplice scopo di arricchire il trademark della ditta Wu Ming sostanziandolo con un’accurata semantizzazione, proprio come da manuali di marketing.
L’inesperienza della letteratura dello Scurati è poi un pietoso raffazzonamento di autogiustificazioni non richieste riguardo a fatti irrilevanti riguardanti l’ombelico dell’autore, perchè ovviamente (e senza bisogno di grandi prolusioni teoriche) nel frattempo che lui si stappava la birra agli iracheni piovevano bombe in testa. Che poi ci si accorga nel 2006 dell’avvento della società di massa dovrebbe far gridare al miracolo, proprio, i modernisti non se ne erano mai accorti @_@ (licenza ciofanilista tesa a sminuire la credibilità dello scrivente)
ma poi, chi ce lo dice allo Scurati che Beda il venerabile non si allontanò mai dalla remota contea in cui nacque e in cui sorgeva il suo monastero? oh, ma guarda, narrare le vicende e viverle è differente, che scoperta…
Peraltro lo Scurati pubblicava in una collana diretta da lui il portentoso saggio “L’eroe imperfetto” di Wu Ming 4, in cui la filosofia dei nostri rispetto alla realtà e l’impegno emerge in tutta la sua forza, specialmente nel saggio sulla battaglia di Maldon: l’eroe non è colui che compie grandi imprese in grado di cambiare il corso degli eventi, ma colui che sopravvive fisicamente agli eventi (e a chi a quegli eventi soccombe, amico o nemico che sia) in modo da poterli raccontare. L’eroe è dunque un narratore, e mi sa che, trauma o non trauma, questa cosa piace un pò a tutte le fazioni.
Qui si tornerebbe dritti dritti all’analisi svolta da Dal Lago sulle ambiguità tra autore, punto di vista narrativo, protagonista, all’interno di Gomorra, e a ciò che le tiene insieme, ovvero l’eroismo di Saviano.
Questo eroismo, peraltro, è il dispositivo che consente alla sua opera di finzione documentaria di sfuggire a qualsiasi critica, che sia fondata sull’aderenza ai fatti e la verifica delle fonti, come per qualsiasi opera di analisi dei fatti sociali, o che sia fondata su questioni stilistiche, come per qualsiasi opera artistica.
Che si vada per strada o per archivi, infatti, l’unica garanzia sulla veridicità e la pertinenza di fatti e analisi proposte nei vari testi e sottotesti narrativi rimane quella offerta dalla fiducia nell’autore, una fiducia costruita in primis extratesto, attraverso l’incessante brusio di giornali, blog, trasmissioni televisive, eventi pubblici, prese di posizione, appelli, dimostrazioni simboliche di contiguità a questa o quella comunità politica o sociale.
Questa funzione sociale strappata con le unghie e con i denti, peraltro, diventa un’ottima moneta di scambio per ovviare a qualsiasi insufficienza stilistica, e in genere anche a qualsiasi strafalcione documentale.
Perdipiù, questa funzione sociale si raggiunge e si mantiene tendenzialmente solo all’interno dei circuiti della grande concentrazione mediale ed editoriale, col risultato che gran parte delle voci critiche nei fatti are working for the clampdown, con la coda di paglia di una contraddizione originaria tra teoria e prassi che inficia i grandi discorsi sulla realtà costringendo a più o meno sofisticate tecniche di rimozione, nell’ennesima replica di uno dei grandi classici della letteratura: il rapporto tra autore e potere.
ma cosa c’è di male nel dire:
“me mi pare che tutto ciò altro non sia che un bel modo per continuare a scrivere libri e propagandare i propri romanzi dotandoli di pretenziosi sovrasignificati oltre alla loro eminente funzione di intrattenimento, in questa maniera peraltro propagandando l’utilità del mestiere (ovvero dello sfangarci le mesate) di critico e di autore letterario a una società che in realtà (anzi, in Realtà) non ne sente più di tanto la mancanza.
‘nzomma, il NIE è una pietosa bufala già sbugiardata da Dal Lago (en passant, mentre faceva giustamente a pezzi Gomorra e Saviano) e dalla sua stessa inoperosa e fallace vaghezza concettuale, la quale, a ben vedere comprenderebbe nel NIE anche “Le mosche del capitale” di Volponi, non fosse stato questo libro malauguratamente pubblicato nel 1989, e chissà quante altre opere rispondenti ai requisiti totalmente arbitrari stabiliti dal nostro Bui, peraltro al solo e semplice scopo di arricchire il trademark della ditta Wu Ming sostanziandolo con un’accurata semantizzazione, proprio come da manuali di marketing.
L’inesperienza della letteratura dello Scurati è poi un pietoso raffazzonamento di autogiustificazioni non richieste riguardo a fatti irrilevanti riguardanti l’ombelico dell’autore, perchè ovviamente (e senza bisogno di grandi prolusioni teoriche) nel frattempo che lui si stappava la birra agli iracheni piovevano bombe in testa. Che poi ci si accorga nel 2006 dell’avvento della società di massa dovrebbe far gridare al miracolo, proprio, i modernisti non se ne erano mai accorti @_@ (licenza ciofanilista tesa a sminuire la credibilità dello scrivente)
ma poi, chi ce lo dice allo Scurati che Beda il venerabile non si allontanò mai dalla remota contea in cui nacque e in cui sorgeva il suo monastero? oh, ma guarda, narrare le vicende e viverle è differente, che scoperta…
Peraltro lo Scurati pubblicava in una collana diretta da lui il portentoso saggio “L’eroe imperfetto” di Wu Ming 4, in cui la filosofia dei nostri rispetto alla realtà e l’impegno emerge in tutta la sua forza, specialmente nel saggio sulla battaglia di Maldon: l’eroe non è colui che compie grandi imprese in grado di cambiare il corso degli eventi, ma colui che sopravvive fisicamente agli eventi (e a chi a quegli eventi soccombe, amico o nemico che sia) in modo da poterli raccontare. L’eroe è dunque un narratore, e mi sa che, trauma o non trauma, questa cosa piace un pò a tutte le fazioni.
Qui si tornerebbe dritti dritti all’analisi svolta da Dal Lago sulle ambiguità tra autore, punto di vista narrativo, protagonista, all’interno di Gomorra, e a ciò che le tiene insieme, ovvero l’eroismo di Saviano.
Questo eroismo, peraltro, è il dispositivo che consente alla sua opera di finzione documentaria di sfuggire a qualsiasi critica, che sia fondata sull’aderenza ai fatti e la verifica delle fonti, come per qualsiasi opera di analisi dei fatti sociali, o che sia fondata su questioni stilistiche, come per qualsiasi opera artistica.
Che si vada per strada o per archivi, infatti, l’unica garanzia sulla veridicità e la pertinenza di fatti e analisi proposte nei vari testi e sottotesti narrativi rimane quella offerta dalla fiducia nell’autore, una fiducia costruita in primis extratesto, attraverso l’incessante brusio di giornali, blog, trasmissioni televisive, eventi pubblici, prese di posizione, appelli, dimostrazioni simboliche di contiguità a questa o quella comunità politica o sociale.
Questa funzione sociale strappata con le unghie e con i denti, peraltro, diventa un’ottima moneta di scambio per ovviare a qualsiasi insufficienza stilistica, e in genere anche a qualsiasi strafalcione documentale.
Perdipiù, questa funzione sociale si raggiunge e si mantiene tendenzialmente solo all’interno dei circuiti della grande concentrazione mediale ed editoriale, col risultato che gran parte delle voci critiche nei fatti are working for the clampdown, con la coda di paglia di una contraddizione originaria tra teoria e prassi che inficia i grandi discorsi sulla realtà costringendo a più o meno sofisticate tecniche di rimozione, nell’ennesima replica di uno dei grandi classici della letteratura: il rapporto tra autore e potere”
non mi sembra si sia andato oltre il lecito, o dire che il re è nudo non si può?
su, su, siate meno suscettibili, che tanto poi sta ‘onversazione non se la legge più nisciuno.