Creature di cenere
di Bianca Madeccia
Studiava silenziosamente le fondamenta del creato, intima, fonda come un sentimento del quale si ha pudore. Un edificio quando ben costruito può sostenere, in condizioni normali, pesi immani, tensioni fortissime. Ci sono tuttavia delle piccole falle, dei varchi qua e là, attraverso i quali lei poteva passare e infilarsi nelle oscillazioni interiori di tutto quanto vive. Nelle ruote del treno, nelle mani senza guanti, negli operai della fabbrica, negli ascensori costanti, nell’aspettativa ansiosa degli spazi semiaperti. Si trattava solo di essere accorte e di assumere l’aspetto del vulcano spento.
La bimba di sale all’esterno era durissima compatta come un pavimento di marmo. Il suo interno non era liscio e uniforme ma abitato da migliaia di pentagoni, esagoni, ottagoni, da un susseguirsi di figure friabili collegata l’una all’altra. Disegni sempre diversi, esplosioni di geometrie composte. Dentro lei miliardi di cristalli riflettevano la luce rompendola in un’infinità di piccoli raggi accecanti.
Ha un buco nero in mezzo agli occhi che a guardarlo dà le vertigini, come se ci si potesse sprofondare. La bambina spezzata non piange mai. Le lacrime, i rimpianti, portano via troppo tempo. Senza tenerezza né piacere, estenuata marcia verso il sacrificio. Il suo sguardo non perdona e ricorda ad ogni istante che sebbene l’archetto sia appeso sul muro, accanto al violino, le corde sono tutte troncate e non lo si può più suonare.
Incredula, al cospetto della terra, delicata e condannata si dirige dove gli altri bambini non vanno mai. Con le mani colme di febbre ogni giorno ascolta parole di tenerezza spaventosa esalare incessantemente dalle ossa nascoste sotto i gigli che ondeggiano nel mare. Trema, e a forza di tremare, il suo corpo prima o poi, con un tintinnìo d’argento si infrangerà in mille schegge di cristallo acuminato sulle piastrelle del pavimento, assieme alle perle vive del suo sangue.
La bimba tutta occhi ha la pelle marcescente sbiancata dall’assenza di luce, segregata in una esistenza minerale vive ancora immersa nella terra, sotterranea, mai fiorita. Nella semplice, totale assenza di rumore, a occhi spalancati, nel buio, cerca di immaginare per un attimo la gloria pulviscolare della luce.
Lei, uccello della notte, cresce circondata da cose che non le riesce né di nominare né di percepire e non ha parole per trattare con il mistero che la separa dalla vita.
La bambina affamata ogni sera, dopo aver rinchiuso le luci nell’armadio, divora un pasto di ansia e solitudine mentre il cibo divora lei e ogni suo residuo pensiero di vivere. Due voracità che non commuovono perché in esse non c’è un solo segnale che lasci sperare in un riscatto. Questa storia è un vaso ermeticamente chiuso, un sistema concluso non conosce non saprà mai cosa possa voler dire divorare insaziabilmente la strada.
Di giorno mamma Calibano le lega mani e le mette un bavaglio la afferra per un braccio e le fa fare il giro del giardino. Mamma la ucciderebbe piuttosto che farla fuggire via. Tutte le sere prima di addormentarsi pensa a quello che un giorno avrebbe fatto. Aspettare che i chiavistelli venissero tolti, sì, e spingere la porta in fuori con tutta la forza possibile.
Oppure una galleria. Spesso guarda i muri per capire se ci siano pietre che si possano smuovere facilmente.
I vicini la osservano con gli occhi pieni d’odio e lei per gioco riversa aromi di fiori velenosi nelle culle dei neonati e nei letti nuziali. Papà l’ha ceduta al diavolo con un patto firmato con gocce di sangue ora la foresta di notte chiama forte il suo nome. L’uomo che la sposerà morirà durante la prima notte di nozze, sarà il Diavolo stesso a torcergli il collo, che poi se ne andrà, così come era venuto, quando si spengono tutte le luci che illuminano la festa danzante e i tempi si saldano.
Le bambine dallo sguardo di pietra, quando si allontanano da casa, portano sempre con sé coltelli. Nella foresta, dove sei sola e costantemente in pericolo anche la vegetazione è malvagia e i rami ti si avviluppano attorno ma se lasci per un solo istante il sentiero, i lupi ti mangeranno. Temi e fuggi il lupo, perché dietro ogni lupo, c’è dell’altro e quel che del lupo appare, spesso non è tutto. Per questo i coltelli sono grandi quasi quanto loro, e le lame, affilate ogni giorno.
La bambina elettrica sapeva parlare al fulmine che incendia, a quello che distrugge, a quello che non brucia. Figlia di una scintilla e di una goccia d’acqua, da sempre giocava con vortici, lampi, tuoni e centraline d’energia. Fu il giorno in cui stava inseguendo un cambiamento che per caso inventò il maremoto. Ma lasceremo questa storia in sospeso perché qui miliardi di prodigi ritornano e forse, dall’attesa, nasceranno altre favole.
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