Indypendentemente: nuovo numero de laquinzaine
Oggi si inaugura a Torino la mostra del fotografo francese di origine vietnamita, Remy Gastambide . Ve ne abbiamo dato notizia qui .
Oggi è uscito il numero 2 de Laquinzaine, il periodico gratuito, prodotto da Indypendentemente, che racconta storie e personaggi di Voyelles & Visions, che vorremmo diventasse una vera e propria factory nel cuore della città. Laquinzaine, creata da Francesco Forlani e Carmine Vitale, è a cura di Chiara Lasagni e il progetto grafico è di Angela Pellecchia. In questo numero dedicato al Vietnam lo scrittore Gian Luca Favetto ci ha offerto questo suo racconto. Grazia Coppola e Gabriella Giordano.
APPUNTI DI VIETNAM
di Gian Luca Favetto
Tredici anni fa sono andato in Vietnam per cercare mia nonna. Per trovare la sua tomba. Non l’ho trovata. Mi sono rimasti questi appunti.
Ho lasciato Saigon per risalire verso Tuyên Quang, a Nord, dove la nonna viveva e ha incontrato il nonno ed è nato mio padre: ci dovrebbero essere una piccola piazza con una villa in stile coloniale, due piloncini e un cancelletto.
Da Saigon mi sono portato via il traffico, la vita in strada, l’Hôtel Continental, il quartiere cinese di Cholon, i sorrisi e un senso di fluidità dove nulla si perde per sempre, dove tutto è di continuo nuovo, qualcosa di accogliente, un luogo che tiene insieme sorpresa e tradizione. L’impatto con il traffico è impressionante: clacson, biciclette, motorini, risciò, pedoni, pullman, pulmini, taxi e macchine che vanno come un fiume lento e inesorabile, e tu, anche sul marciapiede, ti senti in mezzo al suono e alla visione, fai parte di quel traffico, di quello scorrere, tanto vale buttarsi. All’inizio può sembrare caos e anarchia; invece senti che è una corrente, e la corrente non ha gabbie e non ha caos, è libera, richiede più attenzione, più decisione, più tranquillità: nessuno che s’arrabbia, che sbuffa o se la prende, niente stress.
Poi, ci sono i sorrisi. Anch’essi fluidi. Non puoi incontrare uno sguardo senza che si sciolga in un sorriso. Comincia dagli occhi, scuri, profondi, prende gli zigomi che si distendono e finisce come un fiore che si schiude sulle labbra. Sembrano musica, i sorrisi.
Ad Hanoi arrivo dopo una dozzina di giorni, lentamente, un po’ di treno, un po’ di auto, un po’ di corriere e minibus, passando per Dalat, Nha Trang, Hoi An, Danang, Hué, Halong e la sua Baia.
Sul treno per Hué ho conosciuto un padre e una figlia. Lui si chiama Vinh, lei Chao. Lui, vestito di bianco, il volto aperto, settant’anni portati con leggerezza. Era tenente colonnello nell’esercito di Van Thieu, combatteva contro il Nord. Quando nel 1973 gli americani si sono ritirati, l’hanno portato via. La figlia lo ha raggiunto in California nel 1989, lavora in un Casinò di San Josè, ha trentacinque anni e parla un americano perfetto. Lui preferisce usare il francese. Con il passaporto americano è la terza volta che ritorna in Vietnam. Dice: le guerre sono finite, tutti abbiamo avuto sempre una sola patria, la nostra terra non potrà più essere separata. Lo dice in mezzo ad altri mille discorsi, raccontando la sua fuga, la vita in California, la prima volta che ha rivisto il figlio maschio, la casa che aveva a Saigon in Tu-do Street. Parla con dolcezza, lo sguardo fiero che a poco a poco si fa umido.
Chao, invece, lascia cadere due lacrime. Non le asciuga. Sta andando a sposarsi a Hué, l’antica capitale imperiale, il suo ragazzo vive lì. La commozione non c’entra con il matrimonio, c’entra con quella che lei chiama la terra dei padri.
Dice: è la seconda volta che dal 1989 torno nella terra dei miei padri, mi manca, mi mancano i campi di riso e i fiumi, mi manca tutta l’acqua che c’è qui e i suoni; negli Stati Uniti la vita è decisamente migliore, posso lavorare, vedere chi voglio, guadagnare bene, è un paese libero, ma l’unica cosa che tengo nel cuore è la terra dei padri, è il posto dove sono nata; sai, negli Stati Uniti posso fare tutto quello che mi viene in mente, posso fare tanti soldi, però ci sono alcune cose che non puoi comprare nemmeno con i dollari, nemmeno se sei il migliore o il più forte; senza la tua terra, non sei nessuno. Senza il luogo da dove vieni non hai nemmeno un luogo dove andare, dice.
In quella mia terra dei padri, che per me è stato a lungo solo un pacchetto di fotografie, adesso ci sono in mezzo: a Tuyên Quang, 160 chilometri da Hanoi, distesa fra basse colline che sembrano rigonfiamenti del terreno e un fiume. Nessuno parla inglese o francese, ma tutti salutano, si incuriosiscono e pronunciano le poche frasi che conoscono come a voler mettere in comune qualcosa.
Due giorni così, senza far niente, dopo un po’ senza nemmeno cercare. Non c’è più niente da cercare, solo stare, camminare, guardare. Non c’è più la piazza, non ci sono le ville coloniali di inizio secolo, non c’è una balconata, un terrazzo, quattro gradini che abbiano la forza e la voglia di dire: ehi, sono qui, guardami, vieni da qui tu. C’è solo l’ingresso di quello che doveva essere un ambulatorio, dove mio padre dice di essere nato.
Dico Tuyên Quang e viene fuori questo: sei strade parallele e altre sei che le tagliano, un fiume largo e sabbioso, un ampio lungofiume, quattro incroci animati, una scacchiera di case basse, un ponte disadorno e imponente, due mercati vivaci, una serie di officine chiuse in un recinto, molte facce curiose, frotte di bambini che ti seguono gridando “Hallo!”, un ufficio postale, un po’ di corriere, due o tre ruderi, qualche poliziotto, gli uomini quasi tutti con il casco verde di stampo coloniale, gente ferma sul marciapiede, un diffuso pudore, i sorrisi naturalmente, poi una ragazza che si pettina al sole i capelli bagnati, l’odore dei cibi, la notte che arriva presto e presto ritorna il mattino, i gatti legati in sala e una foto di mio padre a cinque anni: era piccolo, vestito da marinaretto, solo, con gli occhi grandi, un velo di malinconia nello sguardo, come se già si interrogasse su ciò che gli doveva succedere nel giro di un anno.
Perché essere allontanato dalla madre, trasferito in Italia, in Valchiusella? Ritrovargli la madre, ritrovarmi la nonna, sarebbe stato il minimo, forse dovevo pensarci prima, così lui avrebbe smesso di fuggire. E anch’io.
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Grazie di aver pubblicato questo testo effeffe, mi è molto piaciuto!