La partita del cuore: Luigi Romolo Carrino
Luigi Romolo Carrino
Ciò che complica le cose in una partita di calcio
è la presenza della squadra avversaria.
Jean-Paul Sartre
Carlo Petrini è stato un calciatore italiano in auge soprattutto alla fine degli anni Settanta. Fu coinvolto nell’affaire del Totonero e rimediò una squalifica che mise fine alla sua carriera. L’ex attaccante del Bologna, del Milan, della Roma, del Genoa, diventò scrittore e per la Kaos Edizioni pubblicò un bel po’ di libri: Nel fango del dio pallone (2000) divenne un best seller nonostante il boicottaggio mediatico. Petrini raccontò con tenera e spietata sincerità il mondo dei pallonari, il loro sfreno sessuale, il doping, le partite combinate, i favoritismi all’asse Milano-Torino (Juventus-Milan, passando anche per Roma), i dictat dei Palazzi del Potere (Lega e Figc), le simpatie degli arbitri e le loro mirabilanti Lamborghini, che giallemente abbagliavano i loro modesti introiti, e raccontò anche dello strano caso del centrocampista Donato Bergamini, morto dopo essere stato investito da un TIR: questa, almeno, è stata la versione ufficiale per molto tempo.
Carlo Petrini raccontò la dark side del moon calcio.
È morto l’anno scorso, cieco e aggredito da svariati tumori, conseguenza di tutta la monnezza che le società dove ha giocato gli hanno iniettato nelle vene e spinto in gola per renderlo più competitivo. Come a tutti gli altri, del resto. In effetti, soprattutto oggi, tra gli impegni di campionato, delle coppe europee e della nazionale, ce ne vuole di forza fisica per disputare una partita ogni tre giorni! Ma oggi non ci sono casi di doping: siamo migliorati fisicamente, ci prepariamo meglio, c’è il turn over e siamo diventati onesti.
Una chiacchierata col massaggiatore o è lo stesso nostro procuratore a dircelo come funziona all’antidoping. Sappiamo quello che succede. Tranne casi eclatanti, le cose si mettono sempre a posto. Il Sistema calcio non collassa per le scommesse truccate, figuriamoci per una questione di droga, soprattutto se si tratta di cocaina. Se proprio serve, si sacrifica qualcuno di tanto in tanto. A quelli del ciclismo li massacrano. Per i calciatori, la protezione dall’antidoping è massima. Figli e figliastri, a seconda dello sport che si pratica.
Justin Fashanu è stato un calciatore inglese in attività soprattutto negli anni Ottanta. L’attaccante del Southampton, del Manchester City, pagato un milione di sterline l’anno dal Notthingham Forest (il primo giocatore di colore a essere pagato così tanto), nel 1990 decise di dichiarare la propria omosessualità e rimediò almeno un altro milione, ma di insulti e minacce, fu rinnegato dal fratello, anch’egli calciatore, e qualche anno dopo dovette chiudere la sua carriera e anche la sua vita, perché si suicidò in seguito alle dichiarazioni (rivelatesi poi false) di un diciassettenne che lo accusò di averlo violentato.
Justin, povero ragazzo, non avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo in seguito al suo coming out.
Se questa sera di fine agosto che ti batte forte il petto, e sei per la prima volta in A e sei il talento che corre 90 minuti e sei questo col piede sulla palla a centrocampo, se stasera tu sei tutto questa cosa che sta ora qui al Dall’Ara nella prima giornata di campionato della massima divisione allora tu sai, da stasera più che mai, sai che non puoi dire a nessuno e proprio a nessuno che a te ti piace il cazzo.
I gay nel calcio non esistono. Nell’universo dei machi pallonari non ce ne sono. Il calcio è uno sport duro, contrasti aggressivi e cattiveria agonistica, senza contare che si sta nudi negli spogliatoi. Non esistono, ma nel caso ce ne fossero, dice su Vanity Fair la Seredova, moglie di Buffon, si dovrebbero dedicare spogliatoi ai soli giocatori gay.
Non ha importanza se qualcuno dice di esserlo, come Lucchello, ex portiere del Sion, che quest’anno è stato eletto Mister Gay dopo aver lasciato l’attività, non ha importanza se l‘americano David Testo o se lo svedese Anton Hysen e molti altri (non in Italia!) abbiano deciso di rivelare il loro orientamento sessuale ai compagni di squadra e ai tifosi, e non ha alcuna importanza se il presidente della federcalcio tedesco Niersbach o la Merkel dicano ai loro calciatori “Non abbiate paura“ (ripetuti i loro inviti al coming out; non costa nulla, tanto non sono certamente loro a dover scendere in campo ogni settimana, ma vuoi mettere la bella figura che fanno?): i gay nel calcio non esistono!
O meglio: nel calcio maschile. Va da sé che le giocatrici sono tutte lesbiche, e da sempre due ragazze omosessuali solleticano l’immaginario del maschietto che non vede l’ora di intrufolarsi nel loro letto (volgarità socio-antropologica, ignoranza). Del calcio femminile non si interessa mai nessuno e d’altra parte il business che gira intorno al calcio dei ragazzi ha volumi giganteschi rispetto a quello delle ragazze: quindi, chi se ne frega del loro orientamento sessuale eccetera eccetera.
“Si a sfaccimm da gent nun sai nient e pallon sai sul e ricchiun“ – evito la transcodifica.
Questo è uno dei – quasi sempre sgrammaticati – messaggi che in questi giorni mi stanno arrivando su fb, dopo l’uscita del mio nuovo romanzo Il Pallonaro, storia d’amore ambientata nel campionato di calcio italiano tra un portiere e un attaccante della stessa squadra.
“Vedi“, dice Lalla Careddu sulla mia bacheca fb, “questo paese ingoia tutto, ma non l’insulto al grande C. Il grande C è l’ossessione, il totem. Il grande C sta nelle mutande e va solo in una direzione, quella che voi campani chiamate la fessa. Il grande C ha la sua apoteosi negli stadi. Tocca il grande C, fallo deragliare ed ecco qua. Questo paese è ossessionato dal cazzo”.
Profonda verità.
Qual è la ragione di tutto questo ostracismo? Perché un calciatore non può dichiarare di essere omosessuale? Verrebbe da chiedersi perché dovrebbe farlo, ma la risposta la conosciamo già.
Cosa arriverebbe dagli spalti? Il coro delgi ultrà sarà Ricchiò! Ricchiò! Ricchiò! oppure intoneranno la canzone de L’elefante gay, non più lui ma lei?
Quali ripercussioni economiche si avrebbero riguardo gli sponsor? La Nike ritirerà i suoi svariati milioni o proporrà scarpette con tacchettini a spillo fucsia? E magari poi farà come la vigliacca Barilla?
In squadra, proprio nello spogliatoio, cosa accadrebbe? Si potranno ancora sentire cose come: “Mi passi il bagnoschiuma? È proprio qui, ai miei piedi“?
In campo, il riccioluto Diamanti urlerà ancora “finocchio di merda“ all’indirizzo del metrosessuale Borriello? O lo linceranno, magari lo accuseranno di omofobia, lo tortureranno costringendolo a guardare per un’intera settimana spot olandesi e danesi sul coming out dei giocatori?
E infine, quell’allenatore là, dopo l’allenamento, quando tutti gli altri se ne sono andati, continuerà a fare sesso nella palestra dello spogliatoio col suo biondissimo difensore centrale?
Sì, cambia l’ambiente, ma è proprio come certi manager facevano (fanno) con la loro segretaria (miserabile eredità machista che ha visto il suo acme negli anni Ottanta).
Ogni domenica sugli spalti ci sono decine di migliaia di persone. Ognuna vive una settimana intera la sua realtà fatta di lavoro, di figli da portare a scuola e di stipendio da farsi bastare, di anziani genitori da accudire. Ogni settimana centinaia di migliaia, milioni di persone, davanti al televisore o sopra le gradinate, quando ci vedono giocare vivono un sogno. Nessuno di loro potrà mai avere la vita mia o la tua. Sono dei perdenti e lo sanno. Noi abbiamo una responsabilità: questa gente chiede, sì, anche a me e a te Baldini, chiede a noi di essere il mito e di essere il vincente che loro non saranno mai. È un sogno, riscatta la loro realtà.
Il mito. Il sogno. Il riscatto. Tutte parole maschie. Il mondo è maschio da millenni. Come il potere. Che sia su una poltrona in cucina o una in pelle al Parlamento. Il calcio, parola maschietta, ha a che vedere con la cultura e la politica di un Paese, e queste ultime due sono parolelle femminucce, quantomeno da noi in Italia. Perché quando qualcosa, come il calcio da noi, è così popolare allora diventa una macchina del consenso ed è capace di influenzare i gusti, le consuetudini, il pensiero di un popolo intero.
L’animale. Il tifo. Il credo. Il cazzo.
Il nostro Paese fa il bullo su princìpi di civiltà che gli Stati di tutto il pianeta stanno affermando. Invece, sui ricchioni e sulle lelle, pare ci sia una Russia nascosta nel profondo dell’anima di molti italiani. Sarà così?
Marisa vuole raggiungere almeno cinquanta membri. Professionisti. Provenienti dalla A e dalla B, soprattutto. Portieri, centrocampisti, terzini, centrali, attaccanti. Lo scopo è un coming out collettivo che prenda per le palle il sistema. Uno, due o tre, non servono. Singolarmente non cambia nulla. Ma cinquanta insieme per il Palazzo del calcio diventa un nodo da gestire. Lo dovranno fare, soprattutto se ci sono nomi importanti. Giocatori eterosessuali ci appoggeranno. Anche glorie del passato sono disposte a rivelarsi. Dopo i due mesi di prova ti verrà chiesto se sei disposto a dichiararti quando verrà il momento. Se non accetti sei fuori. Questo è l’obiettivo.
“Non comprendo. Su quali basi sostieni la presenza dei gay nel calcio? Addirittura una rete (Marisa, nda) di calciaori gay! Per sua natura, il calcio non impatta gli omosessuali. Agli omosessuali il calcio non piace. Il mio consiglio è di continuare a occuparti di camorristi, di psicopatici e di neomelodici: è quello è il tuo ’campo’.“ – messaggio firmato. nella mia posta. Questo è scritto meglio rispetto agli altri, ma privo di argomentazioni se non le solite cose riguardo la virilità.
Un omosessuale non è virile e, viceversa, se uno è virile non è omosessuale. E poi, l’eterosessuale ’maschio’ rispetta sempre e comunque la legge della foresta: l’omm’ adda puzzà. Poco conta se la cosmesi maschile fa tre miliardi di euro di fatturato all’anno, il 30 % delle vendite di categoria: è il principio che conta e che deve immutabilmente essere sempre vero.
Gli omosessuali, si sa, sono tutti gentili e teneri.
Siamo ancora a questo punto?
Il nostro Paese ha bisogno di un po‘ di leggerezza emotiva su questi argomenti, sia da parte degli etero sia da parte dei gay, ha bisogno di reimparare il rispetto della persona, il senso del limite e ha necessità di un bel po‘ di trasparenza su tutto il resto.
Petrini ha pagato i suoi errori e lo ha detto chiaramente qual è l’ambiente dei pallonari. Fashanu ha pagato la sua onestà intellettuale con la morte. Ogni giorno decine di migliaia, centinaia di migliaia di uomini e di donne affermano la loro dignità, in silenzio, subendo l’inverosimile in un contesto che si definirebbe progredito.
Si dice che i calciatori gay non esistono. Si dice, semmai esistessero, che il problema sarebbe la convivenza con i compagni – etero – di squadra. Si dice che i tifosi non lo accetterebbero mai. Si dice che è un fatto di soldi, che gli sponsor poi li ritirerebbero ’sti soldi.
Robbie Rogers, centrocampista della Major League Soccer, a febbraio di quest’anno si ritira e dichiara la sua omosessualità. Convinto dal suo procuratore, torna a giocare e firma con i Los Angeles Galaxy. Al 77° minuto della partita contro i Seattle Sounders sostituisce un compagno. L’ovazione dei suoi tifosi, non appena mette piede in campo, e l’abbraccio del suo capitano sull’erba, dicono tutto quello che c’è da comprendere.
Certo, c’è un oceano di mezzo. In tutti i sensi.
Si dicono tante cose, pur di non ammettere che la questione è ricondicibile a chi guida, a chi comanda, ai dirigenti. E naturalmente non sto parlando solo di calcio: per la nostra classe dirigente le cose devono andare così, perché così sono andate sempre.
In realtà, se un calciatore, se tutti i calciatori di serie A venissero allo scoperto sarebbe un grande passo verso quel consenso (detto beceramente e politichesamente) che determinerebbe un salto di civiltà nell’immaginario collettivo, obiettivo che nessuna legge sull’omofobia – men che meno quella proposta! – potrà mai raggiugere.
I verdenero convergono nella nostra area di rigore. Si stringono intorno a me e Stefano. Si dispongono intorno a noi e fanno una cupola con la testa. Tutte le teste vicine e le mani che abbracciano la vita. Difficile vedere, da qualsiasi angolazione, cosa succede dentro al cerchio. A me e a Stefano ci manca la forza nelle ginocchia. Ci mettiamo come in castigo, senza ceci a terra ma solo erba, erba sotto le ginocchia. Sono a dieci centimetri dalla sua faccia e lo tengo ancora stretto tra le mie dita. Stefano capisce cosa voglio fare, mi toglie una mano e se la porta sul petto. È tenerezza.
– È un fatto nostro.
– Fammelo fare.
– Una cosa alla volta, me lo hai insegnato tu.
– Non significa niente. Io così io non esisto. Non esistiamo.
– Sono con voi. Qualsiasi cosa fate – dice il capitano. – Tutti noi siamo con voi.
I verdenero fanno sentire un sì forte e chiaro a tutto lo stadio.
Boato dei tifosi. Sul videowall c’è una squadra in cerchio che si stringe intorno alla soddisfazione di aver centrato la Champions. Una squadra che compie il suo rito di fratellanza, di festeggiamento, di fedeltà.
– Non cambierà mai niente – dico disperato.
“Ci sono argomenti di cui non si dovrebbe scrivere. Questo è un romanzo che non andava scritto“. Lo ha detto l’editor di una prestigiosa casa editrice dopo aver letto il mio romanzo, dopo averlo inesorabilmente rifiutato. Mi verrebbe da replicare qualcosa, più di qualcosa ma taccio.
Le cose si fanno, ma non si dicono.
È la nostra legge.
Perché ciò che complica la verità di un uomo è la presenza di un altro uomo di fronte.
Questo articolo sta diventando troppo lungo. I ‘suggerimenti‘ che qui vi ho dato bastano e avanzano per per fare le vostre considerazioni e… anche per urlare, dagli spalti o in faccia a un televisore con altri cento amici, liberatoriamente e felicemente: Forza Napoli!
(i corsivi contenuti nel testo sono estratti dal libro )
[…] di L.R. Carrino parla di gay nel mondo del calcio. Ha scatenato interesse e curiosità (e insulti all’autore) ma, considerati i recenti coming out nel mondo dello sport, si rivela di stretta attualità. Ne […]