Radical kitsch: il capitale umano e la Repubblica di Salòt

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di
Francesco Forlani

La parola kitsch è davvero magica; tra le poche parole al mondo universali, è l’unica in grado di diventare quello che nomina semplicemente perdendo una lettera: Kitch. Mentre le patrie lettere sfornano uno dopo l’altro “capolavori del pensiero” e del cinema, da salotto a salotto, che si tratti degli “interni” delle case borghesi o di quelli internisti degli studi televisivi, mi dico che forse solo una critica partigiana potrà qualcosa contro la cultura faziosa, egemone proprio perché di parte, di questa nuova Repubblica di Salòt, regno incontrastato della cultura radical kitsch.
A metterli tutti in fila questi “capolavori”, e per farlo basta entrare in una qualsiasi Feltrinelli,o recarsi in un multisala metropolitano, la prima cosa che balza agli occhi è la loro dimensione militare, non militante, reggimentale a difesa di quello che i francesi, qualche tempo fa, definivano la pensée unique.

Qu’est-ce que la pensée unique ? Cos’è il pensiero unico, si chiede ignacio Ramonet del Monde Diplomatique. La traduction en termes idéologiques à prétention universelle des intérêts d’un ensemble de forces économiques, celles, en particulier, du capital international. “È la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale. »
Il dramma, ma sarebbe più corretto dire la sceneggiata, tutta italiana, è che in questi anni si è affermato il pensiero unico senza pensiero, capolavoro assoluto della sinistra italiana, inimmaginabile qualche decennio fa.
Dopo esserci occupati delle inquietanti commedie, La mafia uccide solo d’estate di Pif e Un boss in salotto di Luca Miniero oggi parleremo dell’ultimo film di Paolo Virzì, Il capitale umano

Per chi non lo avesse ancora visto, 1 Il Capitale Umano, è la trasposizione, non solo cinematografica, del romanzo di Stephen Amidon, e che racconta sostanzialmente di un atto di pirateria stradale in cui vengono coinvolte diverse realtà, famiglie, personaggi, le cui contraddizioni si condensano nel racconto che ognuno di essi è in grado di fare in una sola giornata, quella fatidica giornata in cui nella titanica lotta tra un SUV e una bicicletta, quest’ultima sembra avere la peggio.
Suv, bicicletta. Prendete nota, mi raccomando. Dalla prima scena assistiamo non tanto alla contrapposizione di due modelli, archetipi, ma stereotipi genialmente identificati dagli autori in questa lotta di classe della ruota; magnifico, senza un primo, piccolissimo errore, sottilmente scivolato sull’asfalto. Chi guida la bicicletta dovrebbe in realtà stare alla guida del SUV. Di lui sappiamo poco, però dalle poche battute scambiate con il proprio capo, extra comunitario, vuoi per il mollare tutti a finire il lavoro post cerimonia, vuoi per come si rivolge al nero, ci sembra davvero uno stronzo. E se è vero che solo gli stronzi c’hanno il SUV perché ce lo troviamo in bicicletta? Se poi ci spostiamo sul SUV, è ancora peggio, perché, ma non possiamo dirlo per non svelare il mistero-chiave del film, chi c’è alla guida A) non è affatto stronzo B) non dovrebbe trovarsi lì.

Così grazie a Virzì noi capiamo che Il problema non è tanto quello di capire perché ci sono Suv nel mondo, come si chiedeva quel tipo che dalle parti di Modena ne fece fuori una dozzina, ma chi si trovi alla guida.
“Insomma i SUV li vogliono gli automobilisti” potrebbe obiettare il direttore comunicazione di un’azienda automobilistica produttrice di SUV, alla stregua di produttori cinematografici o meglio ancora registi che si parino il culo, alla solita maniera, dicendo ” diamo agli spettatori quello che vogliono”
copertina_328kloi In un illuminante breve saggio di Dwight MacDonald, Masscult e Midcult, troviamo questo passaggio : ” Qualora un Signore e Padrone del Masscult venga biasimato per la bassa qualità della sua produzione, automaticamente risponde: “Ma è ciò che il pubblico vuole, che ci posso fare, io?”. Si tratta, a prima vista di una difesa semplice e conclusiva. Ma a ben guardare essa rivela che : 1) nella misura in cui il pubblico “lo vuole”, il pubblico stesso è stato, entro certi limiti almeno, condizionato dalla produzione suddetta, e 2) gli sforzi del Signore e Padrone del Masscult hanno preso tale direzione perché a) anch’egli “lo vuole” (mai sottovalutare l’ignoranza e la volgarità di editori, produttori cinematografici, dirigenti radio-televisivi e altri architetti del Masscut e b) la tecnologia della produzione di “divertimenti” di massa (e anche in questo caso le citazioni sono prudenti) impone uno schema semplicistico, ripetitivo in modo che sia facile dire che è il pubblico a volerlo.”
E il pubblico vuol che a guidare il SUV, anche quel SUV ci sia uno stronzo. Così come il pubblico vuole che l’intellettuale di sinistra sia snob e, ancora una volta, stronzo.

Nel valzer degli stereotipi proposti da questo straordinario film, credo che la palme d’or vada alla scena in cui lui, (interpretato da Luigi Lo Cascio ) intellettuale di sinistra snob e, diciamolo pure, abbastanza stronzo si scopa lei (Valeria Bruni Tedeschi) in salotto, nella magnifica villa del favoloso mondo made in Bernaschi, davanti a un maxi schermo su cui sfilano le ultime immagini di Carmelo Bene, in ” Nostra Signora dei Turchi”. E come un mantra Lidya Mancinelli ripete: Ti perdòno, ti perdòno!
“Kitsch”, apoteosi del kitsch, talmente radical che sono sicuro Carmelo Bene, se solo avesse potuto, avrebbe sbottato, come nella celebre puntata di Maurizio Costanzo, “Occhio zombie che stasera vi spacco il cervello” . La benalità del male, c’era stata già annunciata qualche scena prima, del resto, quando durante una riunione del futuro consiglio d’amministrazione del teatro che lei ( Valeria Bruni Tedeschi) grazie ai soldi del marito (Fabrizio Gifuni) ha rilevato, ritroviamo la critica teatrale, ovvero lo stereotipo, il Suv della critica teatrale radicale di sinistra, quella per cui “il teatro è morto”, l’assessore leghista che propone per la stagione, e l’inaugurazione, i cori di cappelle varie sparse per laghi e monti, e una tale pusillanimità culturale che ti dici : se questa è la scena teatrale italiana come si fa a non essere d’accordo con il marito di lei quando deciderà, con grande delusione della moglie, di rivendersi tutto per un’operazione immobiliare che porterà liquidità.

Diciamo allora che in Virzì il capitalista, stronzo, sta alla guida dei Suv come l’intellettuale, di sinistra, stronzo sta alla guida della cultura. E se capitale e cultura si equivalessero? Del resto l’accusa che l’intellettuale radical kitsch, (Lo Cascio) rivolge alla mancata amante, post coitum, (Valeria Bruni Tedeschi) non è forse quella di essere una dilettante, e non una professionista? Categorie del capitale applicate paro paro al mondo delle passioni per cui chi viene pagato è migliore di chi si sentisse già appagato dalla cosa in sé? Andatelo a spiegare ai rugbisti e ai poeti, tutto ciò.
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Cultura = Capitale

A Torino, in occasione della manifestazione Luci d’artista, da un po’ di tempo in piazza Carlo Alberto, si può ammirare l’installazione Cultura = Capitale. Alfredo Jaar l’ha posta sulla facciata della Biblioteca Nazionale. Ispirata alla celebre formula creata da Joseph Beuys, ‘Kunst = Kapital’ (Arte = Capitale), e dunque in chiave anticapitalista, l’effetto che fa, almeno su di me e un altro paio di persone con cui ne ho parlato, è quella di uno slogan, l’ideale quarto slogan Socing da aggiungere ai tre inventati da George Orwell (Socing nella neolingua imposta nel suo migliore dei mondi possibili in 1984, stava a significare socialismo inglese): l’ignoranza è forza, la guerra è pace, la libertà è schiavitù. Capitale è cultura.

In che modo allora il film Il Capitale Umano si può considerare come un’opera radical kitsch?
Lo è nel momento in cui unisce ciò che è separato, se c’è il capitale, diciamo noi, non può esserci l’umano, né tanto meno il culturale o peggio ancora l’artistico. Del resto, questo ci era stato promesso, no? Un attacco al cinismo del capital in grado di valutare al centesimo la vita di una persona. Il film non solo non ci dice questo, ma nei fatti, al di là di ogni intenzione, grazie proprio alla grammatica assolutoria, “tutti stronzi nessuno stronzo” e all’abile uso dei peggiori clichè e stereotipi, con la funzione pacificatrice dell’immaginario collettivo, a salvaguardia di tutti gli spettaori, conforta proprio quella tesi. Del resto la funzione delle opere radical kitsch è proprio di difendere lo stato delle cose. E a riprova di questo basterebbe notare come in un film di cui avevamo letto sui giornali, che avrebbe raccontato un territorio, un paesaggio, una cultura, come in tutte le opere radical kitsch non ha nemmeno tentato di raccontare un luogo, la lingua, le cose che si trovano in un posto e non in un altro, restando alla superficie, allo schizzo (sketch). Altra caratteristica del radical kitsch è proprio quella di puntare all’universale d’emblée quando sappiamo bene, anche attraverso la magnifica epopea della commedia all’italiana, che quanto più si è concretamente nel locale tanto più si accede all’universalità della storia.
Di quanto è accaduto al territorio ce lo spiega lo stesso regista in un’intervista rilasciata a Natalia Aspesi per Repubblica.

Quasi tutti i suoi film sono ambientati in provincia, questa volta lei, livornese, sceglie la Brianza. Perché la pensa più “americana”, più rapace, più spietata?
“L’ho scelta perché è vicina a Milano, dove c’è la Borsa, dove ogni giorno si creano e distruggono patrimoni: poi perché cercavo un’atmosfera che mi mettesse in allarme, un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso. Mi interessavano due scenari, quello dell’hinterland con i grumi di villette pretenziose dove si celano illusioni e delusioni sociali, e quello dei grandi spazi attorno a ville sontuose dai cancelli invalicabili. Ho girato nella campagna di Osnago, nel centro storico di Varese, di Como, città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina. E che ha una parte importante nel film, come simbolo di un inarrestabile degrado e sottomissione al denaro. La bella villa con piscina e i sontuosi interni, dove vive la famiglia opulenta di Gifuni, l’ho presa in affitto ad Arese, e l’ho pagata profumatamente: ci ho aggiunto solo il tennis”.

Il Radical kitsch è così, ci aggiunge solo il tennis.

Vorrei chiudere con Vittorio Giacopini che nella prefazione al bellissimo libro di Dwight MacDonald, Masscult e Midcult, libro fondamentale nella bibliografia anti radical kitsch, scrive:

Nell’uguaglianza ancora imperfetta della società di massa e dei suoi riti, la Arendt aveva intuito la genesi di un nuovo modello di «buona società» e di un inedito tipo di filisteismo; l’avvento di una generazione di «nuovi filistei» capaci di trasformare «gli oggetti della cultura in una valuta con la quale comprare una posizione sociale superiore o acquisire maggiore stima di sé stessi». Nel Midcult -mi sembra questo sottile processo di restaurazione è giunto felicemente a compimento. Il «tiepido velo fangoso» di Macdonald è diventato adesso un grosso pantano. Ce l’hanno fatta, quei piccoli filistei; sono stati bravi. Il Midcult ha riannodato in modo definitivamente autoritario il «filo spezzato della tradizione» e ha trasformato per l’ennesima volta la conoscenza, l’arte e la cultura in una subdola forma di potere.
Però non è detta l’ultima parola. Il Midcult ha vinto ma non ha trionfato. Il futuro è aperto, in ogni caso.
Nei prossimi anni -per l’arte e per la politica -sarà decisivo immaginare un altro rapporto tra cultura e democrazia. Bisognerà, credo, diventare più sobri, molto pragmatici e concreti in politica e più radicali, intransigenti, parziali, generosamente selettivi, per quanto riguarda l’arte, i linguaggi, la sfera della comunicazione,la cultura. Ma non so se per questo ci siano ricette vincenti o strade maestre da seguire salvo forse l’esempio prezioso di quei pochi, ostinati, «arcieri zen» che anche quando chiudono gli occhi non sparano a caso.

 

NOTE
  1. i film non ancora visti, i libri non ancora letti, ma che si vedranno e leggeranno comunque, sia che lo si faccia, acquistandone le copie o recandosi al cinema, o risparmiandosi le due cose, limitandosi a seguirne il dibattito, leggerne le interviste, andando alle presentazioni dei libri, generalmente sono quelle opere fondamentali nella vita felice della Repubblica di salòt🡅

11 COMMENTS

  1. sono d’accordo con le premesse, les tenants e les aboutissants de tout ton discours, caro effef, ma devo ancora vedere il film. (Mi chiedo però: cosa la vado a vedere a fare se mi hai raccontato tutto, per arrabbiarmi e avvelenarmi con la scenetta di Carmelo Bene? ) Ricordiamoci però anche che i il film di Virzì, come altri in Italia, hanno degli sceneggiatori, a loro volta adulati come scrittori, e che se si chiude il cerchio è ancora più soffocante di quello che sembra, pensiero unico e modello narrativo unico, violentissimo, ecco l’epica italiana. Un abbraccio, beppe s.

  2. dimenticavo. Sento di dover rispondere alla domanda che viene spontanea a questo punto: ma il film ti è piaciuto o no?
    Assolutamente. L’ho visto, amato i ruoli femminili, sia Valeria Golino che la Bruni Tedeschi, e me lo sono goduto come le luci di un lunapark, quando sei in macchina e ci passi accanto veloce. L’importante è non fermarsi. Fondamentale è sapere che il cinema è altrove, la bellezza molto dopo, molto prima del kitsch. effeffe

  3. caro Beppe se l’arte, lo stato attuale delle cose dell’arte mo, non è in grado di porre domande, incrinare i rapporti di potere, sia a livello di immaginario che di produzione, è bene che lo faccia la critica. effeffe

    • io lo faccio scrivendo, ostinandomi a chiamarlo letteratura – o arte come dici tu – e so che anche tu lo fai, senza paura di non guadagnare qualcosa – ecco il vero demone e motore del capital kitsch, il vero pensiero unico.

  4. Ecco un passaggio fondamentale: “la funzione delle opere radical kitsch è proprio di difendere lo stato delle cose.”

  5. Dopo ferie d`agosto,tutta la vita davanti,e probabilmente anche caterina va in citta`(qui sono in dubbio perche` il personaggio di amendola non trova una catarsi),paolo ha girato un`altro film dove per la paura di tirarsi addosso accuse di manicheismo o per una consapevolezza zen sublimata i (maledettamente simile all`aria di paternariato che spessi tracima dalle pagine del corriere,non a caso il giornale piu` venduto)”cattivi cosi cattivi non sono mai”

  6. non saprei se adottare il termine radical kitsch, che ha una pregnanza niente male con il mondo culturale cui si riferisce.
    mi piace, ma sin’ora ho sempre trovato più agevole utilizzare il termine “fazismo”, che ha un assonanza più cattiva e offensiva, nei confronti di quella certa gente cui si riferisce, e il pregio di adottare un pratico emblema personalizzante, come piace ai sudditi di quella particolare egemonia, cresciuti a pane e berlusconi per decenni, oramai. in più, con quella crudele assonanza, da l’idea di quella dittatura morbida del buonismo e del buonsenso (sempre sottinteso e, va da sè, conforme al pensiero unico), di quella finta debolezza in grado di digerire qualsiasi cosa, con la giusta mediazione e mediatizzazione narrativa, e soprattutto di defecarla sotto forma di discorso moraleggiante ed autoassolutorio/espiatorio.

    non andrò mai nella vita a vedere questo film, mi chiedo con che faccia Virzì si metta a fare denuncia sociale, dopo aver dimostrato tutta la propria pusillanimità da direttore del Torino Film Festival, emblematica questa intervista, di fronte al comportamento così maleducatamente coerente di uno come Ken Loach.
    è evidente da che parte sta Virzì, e la sua “denuncia sociale” non potrà che essere un esorcismo della sua cattiva coscienza, buona per quelli come lui; meglio spendere il tempo davanti a un filmato semiamatoriale e anche un pò palloso come questo:
    http://www.youtube.com/watch?v=hHxGMBHtMcc&feature=youtu.be

  7. Se capita, il film andrò a vederlo. Non so se Virzì o altri esorcizzino la propria cattiva coscienza mediante la (presunta) denuncia sociale, ma lo spettatore può essere indotto, credo, a qualche sua propria riflessione su certe vicende del nostro tempo (penso a “tutta la vita davanti”); magari ha una testa, a onta del “fazismo” dominante. Quel paio d’ore saranno credo meglio impiegate che davanti alla TV, guardando un filmetto tutto corse in macchina e sparatorie.
    E quale piccola autrice provinciale e “moralista” chiedo dove posso quali siano (dovrebbero essere) i tratti dell’intellettuale non kitsch. Ottengo poco e talvolta mi rispondo da sola, dubbiosamente.

  8. “ 29 gennaio 1991 – Gli anni Ottanta sono stati – per me – innanzitutto l’esperienza della piccolezza della voce. I giornalisti, ovvero il coro delle vocine, vocette, voci bianche (che è il titolo di un film di Festa Campanile). La scrittura giornalista sta alla scrittura letteraria come il falsetto di certo rock a al “ belcanto “ dell’opera lirica. vedi in generale tutto il nuovo kitsch come sistematica mise en abîme. “

  9. Anche nel film di Terrence Malick La rabbia giovane una coppia si dà alla fuga: in un viaggio attraverso l’America segnato da delitti e ferocia, la bellissima e sconfinata natura del Montana sta a guardare silenziosamente la gelida follia omicida di Kit Carruthers, interpretato da Martin Sheen e accompagnato nel suo viaggio da una giovanissima Sissy Spacek. Un film in cui i giovani sono ribelli e omicidi senza una causa: il distacco emotivo è il loro tratto distintivo. Un ritratto inquietante della cultura giovanile, qui presentata allo sbando e priva di coscienza.

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017