I santi padri di Amelia Rosselli. “Variazioni belliche” e l’avanguardia
(È uscito in questi giorni in libreria I santi padri di Amelia Rosselli. “Variazioni belliche” e l’avanguardia di Antonio Loreto, primo volume della nuova collana Letteratura italiana – Edizioni e ricerche oltreconfine, diretta da Paolo Giovannetti per le edizioni Arcipelago. Riprendiamo qui la Premessa del volume).
Non sempre si può chiudere con un suicidio.
Amelia Rosselli
Lavorando sull’opera di Amelia Rosselli la critica ha da principio seguito essenzialmente due filoni, volentieri combinandoli tra loro in virtù di una evidente comunanza prospettica. Da una parte la condizione idiomatica e il disagio mentale dell’autore – certo grazie anche allo spunto del pasoliniano lapsus[1] – hanno orientato le letture in direzione dell’irrazional-linguistico, tradendo perfino un intenditore quale Pier Vincenzo Mengaldo, che, con la storica inclusione nell’antologia Poeti italiani del Novecento, rendeva conto di una poesia «come abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica e dell’immaginario»[2] . Dall’altra parte, il fatto che si trattasse della figlia di Carlo Rosselli ha costituito per molti l’invito naturale a un approccio anche più insistentemente biografico, nel segno di un’esistenza (e lo fu, indubbiamente) tragica.
In un secondo tempo non sono mancati tentativi di abbandonare quel paradigma critico, a partire dal rifiuto esplicito che la diretta interessata espresse in qualche intervista; ma tuttora vi è chi parla di una poesia/poetessa caratterizzata da afasia, autismo, affabulazione incontrollata, con eventuale declinazione nei tòpoi della visionaria e della sibilla, che con preoccupante disinvoltura allineano poeta e soggetto lirico, al di là, molto al di là di unlegittimo rifiutodella vecchia (allora non così vecchia) barthesiana sentenza di «morte dell’autore».
Non che la valorizzazione di qualche riscontro d’ordine biografico sia da evitare, naturalmente; tuttavia è bene che di effettivo riscontro si tratti – la critica tenendosi lontana dal rischio di essere semplice «scrittrice di memorie»[3], ricettrice di confessioni – e che esso giunga ad aumentare in capacità il senso di un’opera già verificata nel suo reggersi perfettamente, nel tenersi. È bene in particolare lasciare che il soggetto poetico si formi sopra la pagina piuttosto che costringerlo a ricalcare il medaglione del suo autore: tanto più per un’opera come Variazioni belliche, che ha una gran parte di ragione, e di senso, proprio in un soggetto compreso nel recupero di un’identità che – per cause che sono insieme individuali e collettive, esistenziali e storiche, e che ricevono trattamento insieme lirico e narrativo (se si può far valere qualche omologia tra queste coppie) – appare sempre lontana, come il suo passato, dal concederglisi pacificamente. Un passato chiuso come si vedrà entro un’amnesia, che mentre fissa una specifica affinità tra autore e soggetto[4] inevitabilmente, definitivamente li separa.
La prospettiva che Barthes tratteggiava con polemica efficacia – «l’Autore, finché ci si crede, è sempre visto come il passato del suo stesso libro: il libro e l’autore si dispongono da soli su una medesima linea, organizzata come un prima e un dopo. […] con la propria opera [l’Autore] intrattiene lo stesso rapporto di antecedenza che un padre ha con il figlio»[5] – si rivela così specialmente inadatta al libro dell’esordio rosselliano, il cui soggetto, menomato com’è nella memoria storica personale, fa saltare ogni linearità del tempo e dei rapporti.
È un complicato lavorìo logico-sintattico, fondato innanzitutto sulla variazione, a far apparire l’io a questa stregua, e al contempo impegnato tanto in un’autoesibizione ossessiva quanto nell’elaborazione continua ed elefantiaca di nessi logicitra i materiali a disposizione, rinvenutianche e soprattutto attraverso il ricorso alla tradizione letteraria, che assurge allora – al di là del fatto che è attraverso il linguaggio, in generale, che si costruisce un soggetto in senso pieno (Benveniste) – alla funzione di surrogato mnestico. Non si tratta di ricostruire, da ciò che egli scrive, l’autore; non si tratta in sostanza di una ricostruzione dell’altro («Non ho mai ricostruito mio padre tramite la letteratura»). Piuttosto, Rosselli si mostra convinta – e concepisce il suo soggetto poetico sulla base di questa convinzione – che la letteratura consenta una auto-ricostruzione (il passo appena citato così continua: «l’ha fatto benissimo da solo lui stesso»), sia nell’atto della scrittura sia, quando accade, nell’atto della lettura («una volta mi è capitato di aprire a caso un libro chiamato Fuga in quattro tempi, che è l’unico breve libro suo [di Carlo Rosselli] non dedicato a politica o a problemi di antifascismo o di resistenza […]. Ebbi un piccolo spavento […] ho sentito una specie di identità»). Si capisce dunque, in Variazioni belliche, l’ipertrofica componente lirica, che risulta in tensione con la narratività prodotta funzionalmente al recupero del passato. Tensione si dà peraltro anche tra la dimensione individuale della ricerca e la dimensione almeno collettiva degli archivi – quelli letterari – entro cui la si conduce.
Di un tale quadro dialettico partecipa in modo tutt’altro che accessorio quell’invenzione, incerta o piuttosto ambigua tra prosa e verso (ma la sua sembra essere una ragione più ampiamente estetica e ambiziosamente universale), ad oggi non sufficientemente chiarita, che va sotto il nome di «spazio metrico». Variazioni belliche mentre cerca una nuova forma del verso mette in discussione i fondamenti della metrica stessa, il tutto entro un disegno complessivo di una coerenza impressionante: per quel che riguarda il sistema degli elementi testuali e per quel che riguarda la sponda che questo sistema riceve dalla biografia dell’autore (da non sfruttare senza mediazioni ma anche da non rifiutare a priori, lo ripeto), il quale, a non aggiungere troppo altro, vediamo frequentemente impegnato, per mezzo di false datazioni come di occultamenti delle fonti – faccio valere il caso macroscopico del saggio di Charles Olson Projective Verse (1950), a calco del quale Rosselli scrive il suo Spazi metrici –, in un «lavoro di autocostruzione»[6]. E verrebbe da pensare a Spazi metrici come ad una vida e ad una razo (data anche la sua natura tecnica e insieme di narrazione biografica) per la scarsa attendibilità e per quel certo fondarsi sul dover essere, quasi dando un referente esistenziale all’io lirico, secondo la formulazione di Paul Zumthor[7].
D’altra parte il superamento delle ristrettezze del dato biografico permette, per esempio, di vedere nella devianza linguistica della tardivamente italofona Rosselli un fenomeno interno a una più larga critica del linguaggio, capace di coinvolgere svariati istituti poetici (anzitutto metrico per primo) e infine lo statuto stesso della poesia. Siamo alla marxiana «autocritica» di un’istituzione, che nel caso dell’arte (ma non solo in tal caso, evidentemente) corrisponde all’avanguardia […]. L’istanza critica rosselliana e gli strumenti che l’attuano sono in effetti debitori (come si è a volte disposti a riconoscere genericamente) delle ricerche che le avanguardie artistiche, musicali e letterarie hanno compiuto dall’inizio del Novecento: richiedono perciò (ma questo non si è disposti ad ammetterlo neppure genericamente, come qualche pubblica discussione mi ha insegnato) di riferirsi alle questioni estetiche e filosofiche – perlopiù di stampo analitico[8] – che quelle esperienze hanno contribuito a sollevare.
Se l’opera rosselliana si costruisce attingendo alle diverse discipline (ben oltre il vago richiamo alla musica e al post-webernismo su cui in anni non lontani si è lavorato) e, dentro queste, alle diverse tradizioni, essa va d’altra parte manifestando una notevole autononima intellettuale, poiché è nei confronti del linguaggio della stessa avanguardia che Rosselliesercita la propria attitudine critica: esercizio – anche tematizzato (bastino i citatissimi versi della Libellula: «La santità dei santi padri era un prodotto sì | cangiante ch’io decisi di allontanate ogni dubbio | dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere | il salto per un addio più difficile. […] E io | lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su | de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia | fattucchiera») – che da un lato la mette nella condizione di non far gruppo(ha buon gioco Pasolini nel tentativo – ché tale fu lo sponsorizzare Variazioni belliche presso Garzanti – di strappare Rosselli al Gruppo 63), e dall’altro lascia emergere, se possibile, una personalità poetica ulteriormente d’avanguardia. Anche perché, se l’avanguardia è caratterizzata da un allargamento dei confini della singola disciplina, da un movimento estensivo[9], e se tale movimento – inteso come tentativo di dare soluzione formale ai nodi problematici della propria arte rifacendosi ad arti altre e ad aspetti attuali del mondo extra-artistico, e attraverso questi ridiscutere l’arte stessa e i modi della sua presenza nel mondo – è necessario (e forse sufficiente) a definire una inclinazione d’avanguardia, bisognerà separare da essa, e direi subordinare ad essa, l’idea di avanguardia come gruppo organizzato e intenzionato ad incidere, per via estetica, sulla configurazione sociale e politica del tempo; il quale gruppo può comprendere autori e opere che ai problemi formali forniscono soluzioni tutte letterarie, e in generale tutte interne alla disciplina d’appartenenza, insomma autori e opere che d’avanguardia, presi per sé, non sarebbero.
Per tornare al motivo primario del libro, e per concludere, dominante è la ricerca del tempo perduto e dell’identità che l’io ha perduto con esso. In questa ricerca la poesia, la letteratura, più che essere sintomo abnorme (posizione superata dalla stessa psicoanalisi, col Lacan del Seminario VII)possono servire da strumento prezioso, anche se – siamo di fronte a un’opera tragica – finalmente inefficace: perché il soggetto, nella brama di riconoscersi, finisce col fabbricare una storia di cui l’io è fulcro a tal segno da annullare i riscontri del reale, che pure dovevano essere garanti della sua auto-costruzione, e si svela quale funzione del linguaggio invece che quale individuo. Dicevo: un reale soprattutto letterario, carattere che lungi dall’essere responsabile del fallimento implica una collettività se non universalità del riferimento. Non per nulla è a un’opera tra le universali per antonomasia come quella di Shakespeare che Variazioni belliche soprattutto si affida, all’Amleto e al Macbeth in particolare. Per essi Franco Moretti annota:
Avviene spesso […] che l’eroe inizi un monologo alla presenza di altri personaggi: costoro – letteralmente – non lo udranno, e il monologo potrà avere termine solo quando l’azione […] tornerà a reclamare i propri diritti. […] addirittura, il personaggio che lo pronuncia non ne serba alcun ricordo, tanto che Amleto e Macbeth ricominciano ogni volta daccapo tutto il ragionamento. […] Qui parla sempre una sola voce, o forse meglio una sola funzione […], autoreferenziale, svincolatasi […] da tutto ciò che la circonda e ormai assorbita – dolorosamente assorbita – in se stessa.[10]
Si tratta di un fenomeno che Rosselli incorpora nei suoi testi (lo si vedrà al principio dell’ultimo capitolo, Un dramma modale), fatto salvo questo punto: all’azione – al reale potremmo dire – il soggetto rosselliano semplicemente impedirà di reclamare i propri diritti, rimanendo funzione dolorosamente assorbita in sé stessa.
E dunque: dobbiamo riconoscere una validità specifica (pur negandogliene una generale, se vogliamo) al programma strutturalista secondo cui «si tratta di togliere al soggetto […] il suo ruolo di fondamento originario, e di analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso»[11]. Il che, se non significa la morte dell’autore (la morte – eventualmente per suicidio – è quel necessario accidente che riguarda l’individuo; o magari ha ragione Artaud: «on ne se suicide pas tout seul»[12]), significa il caos. E laddove questo può in effetti essere compreso e razionalizzato comunque entro una funzione – così è per l’ottimismo logico di Leibniz, ad esempio – Rosselli devasta quell’ottimismo per elefantiasi. Ciò che ne risulta per il soggetto è la perdita senza rimedio della propria identità? Forse solo il suo discioglimento in un’identità collettiva, nella storia di tutti.
Antonio Loreto
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