Anthony Phelps. Due poesie e qualche domanda all’autore

A cura di Ornella Tajani

«Io, negro d’America, non sono uno scrittore negroamericano. Non sono uno scrittore afroamericano. Non esiste una letteratura negroamericana, né una letteratura afroamericana. Noi, negri del Nuovo Mondo, non siamo degli africani in esilio in America. È fuori questione che qualcuno ci affibbi un prefisso. Vi sarò grato se vorrete considerarmi uno scrittore americano, uno scrittore caraibico, uno scrittore haitiano o, più semplicemente, più umanamente: né nero, né bianco, né rosso, né giallo: un Poeta e basta».

.È così che Anthony Phelps, nato a Port-au-Prince nel 1928, si è più volte definito.

Autore di poesie, racconti e romanzi, nel 1961 ha fondato – con Davertige, Serge Legagneur, Roland Morisseau, René Philoctète e Auguste Thénor – il gruppo Haïti Littéraire e la rivista Semences. Stabilitosi in Canada, dopo l’esilio per motivi politici negli anni ’60, ha continuato a occuparsi di letteratura e teatro, anche per la radio e la televisione.

Il Forum Universale delle Culture lo ha di recente ospitato a Caserta, dove l’autore ha scelto di leggere la versione italiana di Nomade je fus, poesia tratta dalla raccolta La bélière caraïbe del 1980: un testo che, nelle parole di Phelps, «racconta un po’ quello che sono: un nomade».
Propongo qui di seguito La notte degli invertebrati e Nomade fui, tradotte da me in italiano in occasione del Forum e precedute da qualche domanda all’autore.

D. Haiti è protagonista di entrambe queste poesie: sembrerebbe che in La notte degli invertebrati prevalga un sentimento di dolore, mentre Nomade fui evoca soprattutto un senso di nostalgia. Qual è il suo rapporto con Haiti oggi?

 R. Il mio rapporto con Haiti non è mai cambiato. È un paese che amo, ma sono scioccato e indignato da chi è al potere: gente che non si cura minimamente del benessere dei cittadini e bada solo a riempirsi le tasche. D’altronde il dittatore precedente [Jean-Claude Duvalier, n.d.r.], colui che è responsabile della scomparsa di diverse migliaia di haitiane e haitiani, ha fatto ritorno nel paese in tutta impunità. Sta cercando di rimettere in piedi il suo vecchio partito politico col consenso dell’attuale governo.

D. A proposito della letteratura haitiana si è parlato spesso di indigenismo e negritudine: sono parole chiave anche all’interno della sua opera? Qual è per lei il rapporto tra poesia e politica?

R. L’indigenismo è un movimento letterario nato all’inizio del XX secolo con l’obiettivo di favorire la nascita di una letteratura originale in ogni paese, una letteratura che dunque, nel caso di Haiti, non imitasse quella francese. La negritudine invece è un concetto che appartiene perlopiù ai poeti Senghor e Césaire; secondo quest’ultimo, è proprio ad Haiti che la negritudine ha fatto sentire per la prima volta la sua voce. A mio avviso la poesia non ha in sé un’utilità politica. Capita che alcune poesie o romanzi trasmettano un senso d’orgoglio nazionale, penso ad esempio ad alcune opere scritte da Aragon durante l’occupazione, che certamente contribuirono a sostenere il morale dei parigini e dei francesi in generale. Nel mio caso, il mio lungo testo poetico Mon pays que voici, quando fu pubblicato in Francia nel 1968, ebbe un’accoglienza particolarmente positiva nell’ambiente degli haitiani in esilio, così come da parte di coloro che subivano la dittatura di François Duvalier: un’accoglienza speciale perché io dicevo ciò che loro non potevano dire; il richiamo alla Storia eroica di Haiti rafforzava la loro dignità di esseri umani.

D. Oggi continua a riconoscersi nell’estetica del gruppo Haïti Littéraire, caratterizzata da un intimismo spesso ermetico, come ha scritto Silvio F. Baridon?

R. Quando Baridon parla di intimismo ermetico, direi che si riferisce in particolar modo a Serge Legagneur. Noi altri del gruppo, Morisseau, Philoctète, Davertige e io, abbiamo seguito quella linea più che altro in passato, ma oggi scriviamo credo una poesia più accessibile.

D. Lei è autore sia di poesia, sia di prosa. Come cambia il suo rapporto con la letteratura nel passaggio da una forma all’altra?

R. Scrivere i primi due romanzi mi ha permesso di liberarmi da alcuni traumi, di esorcizzare momenti dolorosi legati al periodo della dittatura di Duvalier. È stata una specie di catarsi. Nel romanzo La contrainte de l’inachevé ho scoperto quel fenomeno che ho chiamato «l’esilio del ritorno», cioè la distanza tra memoria e realtà, l’assenza di legami tra i ricordi e il presente.
Con la poesia invece è diverso: la scrivo sempre con gioia. Per me la creazione poetica è un vero e proprio godimento intellettuale. Non importa il tema, il godimento viene dalla padronanza degli strumenti con cui la si scrive.

 

°

 

La notte degli invertebrati
– da Motifs pour le temps saisonnier, 1976
Amore mio
donna-lucernario che scopri l’avvenire
filo su filo io dico il tuo orizzonte
nella casa del letto in
cui paziente
rammendo i quartieri della mia Città
per rifarle la tappezzeria

Sotto il tetto protettore della felicità
della tua gioia d’essere mia
io resuscito i dispersi
e rimodello i torturati
Ma il ritocco più maldestro
è quello dei cuori
da cucire
sinistro sul sinistro
Eppure
la stessa mano
Eppure
lo stesso lato
Vano lavorio d’ago
tutto tempo sprecato
perché il nome patria cantava fra le nuvole

È la notte degli invertebrati
Laggiù, oltre la nebbia
mi aspetta una Città
che riconoscerò dai nidi devastati
dal raccolto bruciato
la gioventù falciata
che riconoscerò dal suo zoppicare
Donna barca-lucernario
una Città mi aspetta alla deriva
e io
funambolo dai piedi piatti
sottratto allo spavento e al volo dei corvi
ascolto la mia Città che se ne va
questa Città dietro la nebbia
Port au Prince fiore d’eclissi e di paludi
Port au Prince beccata da uccelli da preda
Port au Prince oppressa
Port au Prince dagli dèi neri
a cavallo dell’Occidente
dèi dai colori d’Arcangelo e d’Immacolata
Port au Prince ricacciata ai confini dell’ombra
spinta ai margini

Il basilico e l’assafetida
hanno perso il potere respingente
e la crescentia stipata non provoca più coliche
Perché l’altro regna
Conta solo regnare
Il resto è dettaglio di fiori e siero di latte
Il suo profilo svalutato rotola sul listello
nel piatto di venditrici di farina e spezie
E l’altro violenta
Violenta e saccheggia
Violenta e ruba
Ruba e uccide
Il sangue non ha più onore

Quando si alzò la marea dei boia
fino alle spiagge dell’infanzia
quando picchiò il volo degli uccelli da preda
saccheggiando il raccolto
il braccio si è ricusato
il muscolo si è disteso
e ritornando nell’anonimato
il pugno si è nascosto in una pozza di paura
e siamo fuggiti dall’inferno
come fece il Presidente Pierrot
Pierrot il Nero
Pierrot il Pazzo
che fugge dal palazzo
prendendo la strada per il Nord
e maledice la Città le sue barelle
la Città e i suoi intrighi
la Città del Popolo
la Città del Principe
in mano alla marmaglia ladra e sanguinaria
Pierrot il Nero
Pierrot il Pazzo
che cerca rifugio fuori del palazzo
cammina a passo svelto
dondola la testa grigia
cullata a ritmo di galoppo
Port-au-Prince dei crimini, dei crimini, dei crimini

Pierrot il Nero
Pierrot il Pazzo
che lancia fatture e malefici
a scoppio ritardato

Ah tutte le parole e le mie gioie
tutti i miei canti e tutti i giochi
per una mano solare che sfidi l’iniquo editto
per un solo grido di bambino
che riscopre il girasole

Febbre Febbre in cima alla lavagna
su cui il gesso incerto traccia la vera scienza
Il bambino recita a singhiozzi
il canto dell’apriti sesamo
e solleva un Paese intero
dalla polvere dei passi quotidiani

Ma
è la notte degli invertebrati
e io ascolto la mia Città che se ne va
nei suoi dettagli e negli spiccioli
bolla scoppiata delle paludi

Amore Mio
Donna-melagrana aperta al sole
la geometria del fascio si consuma sotto il cielo
come un abbraccio
e il corpo a corpo nel recinto
sull’arancio del letto
albero senza foglie avvezzo a ogni fatica
si placa in giacenti felici esausti

Ah! Ancora ieri
sentinelle al largo d’un Paese
facevamo il turno di guardia
ai piedi della piccola Speranza
Dormiva nell’abito rigonfio di vento salino
e il viso pur impreciso
formava una pallida macchia
per noi luce
e promessa di riuscita

Spiando le indiscrezioni delle nuvole
ascoltavamo il vento che portava parole di terra
nei corpi abitati da uccelli
come Pierrot sregolati
smarriti fra raggi lunari
eravamo banderuole
all’avanzata del palo

Fratelli d’esilio
compagni dai piedi impolverati
nei nostri sguardi la stessa visione
i ricordi in cella dietro il vetro opaco
pesano come lapidi
Restano a noi solo fumosi gesti
per raccontare il tempo dei kénépier in fiore
perché entriamo in una strana terra
decisa nel voltar le spalle al Paese
e il vetro e l’acciaio cambiano il nostro credo

Viviamo in una città
in cui il canto dell’arrotino
non è più neanche un ricordo
in cui nessuno rammenta il flauto triangolare
le note acute che
salivano e scendevano lungo la nostra infanzia
Viviamo in una città
che non conobbe mai l’uomo
dotato del potere di creare stelle
a mezzogiorno
Città di vetro Città d’acciaio

Ah sirena del mezzogiorno
campana della Cattedrale
continuate a battere l’ora altrove
ma non qui
in questa città d’esilio
in cui i kénèpes non fioriscono mai
O Paese senza estate
siamo i negri che sono partiti
chiusi nel silenzio nell’oblio
Siamo i negri trapiantati
seduti all’ombra del grattacielo
dove il Paese d’ieri non ha eco
La brocca d’argilla rossa
non gocciola più sul tavolo
né ci risuona nelle orecchie
il tintinnio della caldaia di ferro
Il grido d’adunata delle anatre selvatiche
non ci infiamma più d’attesa nelle saline
o, pietre acciaio e pietre
pilastri d’un cielo nuovo

Caraibici di lunga data e antica stirpe
ora parliamo la lingua dei grattacieli
parole di brina e nomi di neve

E’ la notte degli invertebrati
ombra plenaria sul silenzio dei fuggiaschi

 

°
Nomade fui
– da La bélière caraïbe, 1980
Passato di memoria d’angelo che decripto
Sotto il pelo crespo delle parole sirene
e i frammenti del tempo
riavvolgo il filo di storie crepuscolari
punteggiate di divinità marine
di padroni di incroci

Sul profondo cammino degli aromi
la mia voce senza casa ritrova paglia e feltro
In chiacchiere tortuose che erodono la distanza
la vita si riaccorda sotto lo sguardo nuovo dell’infanzia
e in pieghe ben precise
rientro nuovamente nella tenerezza di un popolo
Sole
sole setoso frusci sotto l’unghia
sole in un sibilo mio luogo interpellato
indice alzato e colmo d’inchiostro profeta
mi esercito all’oracolo

Donna di ispirazione
scrivo per esaudire la fine d’un passaggio
ma a volte mi viene fantasia
di richiamare all’ordine i fantasmi
Così li invito a pranzo
guido le loro mani cieche
sulla tovaglia antica delle notti bianche
verso il pane duro di tanti nomi
senza alfabeto

Trascrizioni a spirale di formule magiche
Cubo o rettangolo
Dado o domino
Doppio sei
Bianco ovunque

Archeologo e spazzacamino
vivo dietro le quinte del mito
A partire da un frammento
la frase intera e significante
Da un tronco ormai carbone
tutto un fuoco di Bengala
Il meglio d’un popolo sotto un orlo di sangue

Donna di ispirazione
oltre le nevi e gli alberi spogli
il mare dà alla sabbia il sale che le spetta
e l’occhio si rifà le palpebre
perché nel delirio dei sensi
la stirpe imposta
si è ridotta disgregata in una farsa
fratture cocci di sogni beati
Il cervello si è sciolto sul granito del baldacchino
ed ecco il recinto del combattimento superato
dove la violenza finiva in piume e sangue
usurpazione del cotone senza gemma
e flutto braccato dell’indigo
Luogo aspro di memoria felina
ora aperto alla vegetazione
Tenacità del dente di leone innocente impiccione

Donna di ispirazione
scrivo perché sole e mare
liquidino il contenzioso.
Il mio luogo antico vipera di tante soste
il mio luogo antico cambia pelle
e io attacco frammenti
in una casa giardino
come un Pollicino che in estasi
ritrova i sassolini germogliati
diventati spighe.

Fa un tempo nuovo
in una venatura di altissima tenerezza

Dormendo la testa sui tesori
ho sognato un luogo d’acque bonarie
lingua di passi lenti
e sieste dolenti
in cui nessuno è clandestino
Un luogo-dimora di sentieri-tartaruga
dove l’azzurro incantato si estende oltre misura
in parole di piume e pietre
Residenza del credo in cui nessun inganno
spaventa i giochi delle balene malva
Dimora antica e sempre gaia
come una donna alla toeletta
Ho sognato un luogo-dimora senza orologi
dove l’avo su dita di sole
rifà il conto delle rondini
e ricorda ridendo nelle rughe
la predizione dell’hibiscus
La lampada del caso
brucia sempre la mano falciatrice di papaveri

Ho sognato una gioia di cuscini senza pene
cinta di lana ricoperta di colombe
Gioia a porte aperte
lettrice rigogliosa e senza scorta
né guardie guantate di falsa vigilanza
Ho sognato una gioia credibile per una volta
bella da sogno autodidatta e profumata
nel rianimare la dimora dall’alfabeto addormentato

Sogno di luogo Sogno di gioia
Dettato favoloso
che trascrivo con mano viva e ferma
perché non filo più i fili per le bende
il vento-bambola mi lecca in segreta traversata

Esorcizzando sulla scia dell’Orsa e lo Scorpione
il concerto di lucrose voci
e il recitativo di ideologi straccioni
sono sfuggito al sortilegio dei lotofagi
Ora non erro più
tra i cerchi duri di visioni a rombo

Bussole ferme lontano dai furtivi predatori
e dalle bestie di cartapesta a scoppio
ho fondato il mio luogo vero
nella grazia liberata dagli specchi
la mia fortuna coricata in alto
un dito di sale sulle labbra

Sogno di luogo Sogno di gioia
Sulle conchiglie nane senza epitaffio o grido
la barca-io ha fatto scalo
e la chiglia in risacca di meringa
sfonda a passo perso i veti dell’altro
poroso guardone idolatra e castrato

La barca-io ha fatto scalo
rompendo le acque pupille dell’amore
il legno il rame e gli ori
sono ora dimora

Una città piramidale
tutta cucita d’alfabeto
trascina strascichi setosi di stradine e piazze
e sotto arco e aroma
la Donna e l’Uomo si misurano
tra incroci complici di sguardi
in tenerezze luminose di purpurei giochi

Dettato favoloso
che adatto ai passi d’oggi
L’abbecedario del ragno non è più ammissibile
A occhi chiusi gioco a misirizzi
sapendo il segreto di ogni siepe-labirinto
Caraibico immemore
ritrovo la turbolenza del pisello odoroso
la farina del dio senza tremore senza macchia
e il mio mezzogiorno ludico
ravviva l’alato tenero ricamo
Donna di ispirazione
fa un tempo rituale
àncoro la dimora sotto la luna placata
ma vagabondo straccivendolo e timoroso incredulo
avanzo con piedi di piombo
nella mia nuova oasi
Nomade fui di recente memoria

Ebbro come un mattino d’ottobre
una stella ex-voto sfugge all’aurora
e nelle pieghe carnose del giorno
il suo canto sibilante come un lazo
ravviva il cerchio benefico
L’avo arzillo e ardente
contro la pietra antica e angolare
ha rotto la ciotola settaria
Ogni vita si libera
sulla quinta del pappagallo
sul belare della pecora
e le costellazioni sparse
si ordinano larghe sul diritto dell’ardesia

Dimora e luogo abbracciati
senza spine o tensioni
nell’ora malva dei fenicotteri
il tempo spazzaureole
m’apre paesaggi d’acque cantanti
e uomini e donne di mais
fanno fremere la sabbia e ballare l’erba folle
in doppia pausa e in barocco imbroglio
Donna gemelli
la mia fortuna in piume e fiori
tu sei io sono
Luce addormentata
rovesciata nell’amicizia doppia
di vocali e consonanti
la tua sete porta l’acqua alla mia mano
e noi facciamo bolle
nello stagno di parole
la testa in nebulosa senza calcolo o violenza

Racconti a vele speziate
entrano nella luce radente
Lo spione dal collo rotto
non lancia più il malocchio
Tu sei io sono
nel riconoscimento della mandorla
Lungo fruscio di sangue nelle vene della sorgente
Grate di convolvolo
L’acqua fugace cuffia
Tu sei io sono
e le leggende
rinnovano i conciliaboli
sotto la tenda dell’infanzia
dove allegri i nostri giochi maturano
in pierrot e maghi

Tu sei io sono
Tu giochi il gioco d’io
quello di noi
Parola per parola di timo
dici coriandoli
e mi ringiovanisci le coniugazioni
Stai bene nel mio occhio
e vedi noi da dentro
Tu sei io sono

Donna gemelli
idolo di bosco occhi di profetessa
le nostra risa placide
scambiano il tempo antico esoterico e sulfureo
con un gesto chiarificatore
le nostre voci senza pari
destano la terra nei giardini di pioggia
nelle terrazze di luna
Le nostre voci senza erosione d’assenzio
inchiostro e fulmine
salgono fino a più non posso
fino al timpano dei colibrì

Tu sei io sono
Donna gemelli
mio bell’avvenire miracoloso
dolce lenta e levigata
la carne non inventa segreti
si coniuga al respiro
Un passo
un passo ancora sulle campane del vento
e io avanzo senza punteggiatura
superando la tappa-mummia
nello stupore estatico delle porte

O nuova dimora
detentrice del triangolo e padrona dell’arco
luogo d’inciso e lievito in cui officio
profeta dai gesti di mago
in camicia d’aubade o tunica di mattutino
maestro del papiro

Donna d’ispirazione
fa un tempo inenarrabile
quello del vivere a cuore aperto fra tesori ridestati.

Nomade fui di vecchissima memoria.

 

 

 

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