Vanno ascoltati, gli immigrati

di Simone Brioni

 

Questo articolo nasce in risposta a quello di Filippomaria Pontani apparso su Il Post. L’articolo di Pontani parte dall’assunto che occorra ‘raccontare gli immigrati’ dato che non lo si sta facendo bene, e quando lo si fa queste analisi ‘ricevono scarsa eco’.  ‘Raccontare gli immigrati’ sarebbe necessario per via dello stillicidio che si sta consumando sul Mediterraneo, pur essendo meno urgente della necessità di salvare gli immigrati dal mare. L’articolo propone inoltre di fare i conti con la memoria coloniale per poter davvero cambiare le modalità narrative dell’immigrazione adottate finora. Sono felice che la questione sia stata sollevata: pensare che il modo di raccontare la realtà possa contribuire a cambiarla, vuole porre l’immigrazione in un discorso più ampio, in cui non si parla solo di sbarchi, ma anche delle opportunità da parte di un immigrato o di un’immigrata di progettare una vita in un paese refrattario a riconoscere il suo capitale sociale, umano, e culturale ma pronto a sfruttare la sua potenzialità economica (e sto parlando dei discorsi che ascolto sull’autobus, non solo di ciò che leggo nei libri e nei quotidiani). Non trovo nulla da ridire riguardo ad alcune affermazioni di Pontani, per quanto non siano esattamente una novità: pur ricevendo scarsa eco, già dieci anni fa il saggio Il cittadino che non c’è (Edup, 2004) di Ribka Sibhatu denunciava il modo in cui gli immigrati sono rappresentati nei media nazionali. Quello di Sibhatu era non soltanto il risultato di un lavoro di ricerca per il suo dottorato, ma anche una riflessione sulla condizione che la studiosa si trovava a vivere sulla propria pelle, essendo arrivata in Italia dall’Eritrea.

Altre questioni sollevate dall’articolo non mi trovano invece concorde. Pontani sostiene che l’immigrazione occupi ‘uno spazio tutto sommato modesto nella rappresentazione degli artisti e degli intellettuali’, e tra i pochi esempi virtuosi indica Terraferma di Emanuele Crialese (2011), un film che molti hanno criticato per la sua descrizione dei naufraghi nel Mediterraneo come presenze mostruose e minacciose. Indicare come priorità narrativa quella di ‘raccontare gli immigrati’ suggerisce che essi possano essere solo oggetti e non soggetti della propria narrazione, cancellando al contempo vent’anni di letteratura in lingua italiana realizzata da autori immigrati e relativa analisi critica. Quest’ultimo aspetto è accentuato dal frequente uso della dicotomia noi (italiani, soggetti narranti)/loro (immigrati, oggetti narrati) nell’articolo, e dalla scontatezza con cui quando si parla di artisti e intellettuali si presuppone che essi non siano immigrati a loro volta, ma intellettuali ‘italiani’ ‘puri’ ‘intenti a contemplare la grande bellezza della propria decadenza sulle indisturbate terrazze romane, o forse terrorizzati dal sempre incombente pericolo della retorica’. Pensare che ‘raccontare gli immigrati’ sia prioritario rispetto all’ascoltarne le voci è parte integrante del problema. Esiste addirittura un database, creato dall’Università La Sapienza di Roma, che elenca tutti i testi in lingua italiana realizzati da autori immigrati (http://www.disp.let.uniroma1.it/basili2001/). Mi si potrebbe obiettare che molti di quegli autori sono essi stessi intellettuali che scrivono di immigrazione, e che le loro voci non corrispondano esattamente a quelle ‘degli immigrati’ di cui si sente parlare sui giornali. È una critica sacrosanta, se non fosse che ‘gli immigrati’ esistono solo nella misura in cui non si ascolta ciascuna delle loro voci.

Solo per citare alcuni nomi, mi riferisco qui alle opere di Cristina Ali Farah, Amara Lakhous, Adrian Bravi, Gëzim Hajdari, Geneviève Makaping e Shirin Ramzanali Fazel. Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (E/O,2006) di Amara Lakhous ha vinto il premio Flaiano e il premio Racalmare-Leonardo Sciascia nel 2006, ed è stato tradotto in lingua inglese. Il poeta di origine albanese Gëzim Hajdari è considerato uno dei maggiori poeti italiani viventi, e ha vinto il premio Montale nel 1997. Lontano da Mogadiscio, uno dei primi testi a parlare del colonialismo italiano dalla prospettiva di un’autrice di origine somala è stato ripubblicato nel 2012 da Laurana in versione bilingue italiana-inglese. Come afferma lo scrittore e accademico italiano di origine brasiliana Julio Monteiro Martins nell’editoriale del numero 44 di Sagarana, rivista online sulla scrittura della migrazione da lui fondata, l’elenco dei riconoscimenti letterari o delle traduzioni ricevute non definisce certo la bravura di uno scrittore o di una scrittrice. Il valore di un’opera si misura piuttosto in relazione alla capacità di cogliere aspetti cruciali del mondo in cui viviamo, ed è precisamente quanto riconosco a questi autori e autrici (ma non sono i soli/le sole). Ciò nonostante, questi premi segnalano che non è possibile ignorare la portata dell’opera di alcuni di questi autori anche da parte dell’establishment culturale italiano (ma ciò accade puntualmente).

Lodando la Francia – ‘più sensibile di noi al tema dell’immigrazione’ – per avere aperto la Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration, Pontani chiude il suo articolo proponendo che ‘una delle tante architetture fasciste di Roma […] abbia a ospitare nel prossimo futuro non già l’ennesimo, inutile e costoso museo di arte contemporanea, bensì l’embrione di uno spazio espositivo dedicato a quanto sta avvenendo ormai da anni sotto i nostri occhi sempre più distratti’. Questa frase contiene due assunti. Il primo è gli immigrati non realizzino opere d’arte contemporanea, fornendo ulteriore conferma a quanto ho affermato in precedenza. Il secondo è che la creazione di un museo potrebbe ‘indirizzare una certa parte del mondo intellettuale e artistico verso questa problematica’ e portare a ‘un discorso pubblico condiviso’.

Pur apprezzando l’iniziativa francese ed essendo convinto che occorra fare i conti con l’ingombrante passato fascista risignificandone i simboli, non credo che la museificazione corrisponda necessariamente a un momento di riflessione istituzionale e collettiva. I musei possono anche servire a rinchiudere un vivo dibattito entro delle mura, o servire da giustificazione per l’introduzione di leggi sempre più restrittive (com’è accaduto del resto in Francia). Solo una riflessione pubblica può portare all’eventuale creazione di un museo e non viceversa. Se tuttavia vogliamo riflettere su quanto avviene ‘all’estero’, credo che questo esercizio possa essere utile nella misura in cui permetta di rintracciare sul territorio esperienze culturali che servano da modello per nuove modalità di racconto dell’immigrazione in Italia. Penso per esempio all’attenzione che il progetto di ricerca ‘Transnationalizing Modern Languages: Mobility, Identity and Translation in Modern Italian Cultures’ – finanziato dall’Art and Humanities Research Council e nato dalla sinergia tra i dipartimenti di Italian Studies di Warwick, St. Andrews e Bristol (in collaborazione con istituzioni di ricerca nazionali e internazionali) – ha dedicato alla vivissima realtà di associazioni che costituiscono da anni veri e propri cantieri di narrazioni resistenti dell’immigrazione. Oppure penso al numero sempre crescente di pubblicazioni in lingua inglese che sono state dedicate alla letteratura scritta da immigrati negli ultimi anni, tra cui (solo per citare i volumi più recenti) Postcolonial Italy: Challenging National Homogeneity (Palgrave Mc Millan, 2012), a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo, Migrant Imaginaries: Figures in Italian Migration Literature (Peter Lang, 2013) di Jennifer Burns, e Shifting and Shaping a National Identity: Transnational Writers and Pluriculturalism in Italy Today Trobadour, 2014), a cura di Grace Russo Bullaro e Elena Benelli. Rivolgere l’attenzione al lavoro culturale svolto dalle associazioni e dagli intellettuali immigrati nel nostro paese potrebbe essere un buon inizio per raccontare il mondo in cui viviamo in maniera più consapevole, e per valutare il modo in cui la tradizione culturale a cui ci siamo affidati finora possa esserci davvero utile in quest’impresa.

Si è già detto e scritto molto in questi anni di immigrazione – quasi tutte le case editrici ‘maggiori’ hanno un titolo sull’argomento –, ma si è scritto spesso ‘al posto di’ o ‘su’, e molto poco ‘in prossimità di’ e ‘in dialogo con’ immigrati. Le narrazioni e gli studi sull’immigrazione che Pontani cita a ragione nel suo articolo non sono affatto casi isolati, né recenti: in Italia esiste una solida opposizione a quei ‘centri’ culturali in cui non si parla o si parla male di immigrazione. Un’opposizione che ha visto scrittrici e scrittori immigrati in prima linea, ma che è rimasta spesso inascoltata. Sarebbe forse ora di rendersi conto che queste voci sono numerose, e iniziare un dialogo che altri – in ‘periferia’, fuori dai musei, nelle strade e nelle piazze – hanno iniziato da anni. Prima dell’ascolto, credo tuttavia che sia doveroso chiedersi quali opportunità abbiano gli immigrati di potersi raccontare, di far sentire la loro voce, rispondendo alla domanda che poneva Gayatri Spivak in un famoso saggio del 1988: Can the Subaltern Speak? [Può parlare il subalterno?]. È questa assenza che evocano le bocche cucite degli immigrati del CIE di Ponte Galeria: la sintassi di un silenzio autoimposto descrive un ‘vuoto rappresentativo’ incolmabile, ma che forse si potrebbe meglio comprendere ribaltando le dinamiche tra chi racconta e chi è raccontato.

 

2 COMMENTS

  1. per non dover cominciare sempre daccapo, per non starci a ripetere tutte le volte la storia del “nuovo fenomeno”, per ricordarci che la riflessione esiste già e da diversi anni, rimando anche al bel contributo di Daniela Brogi qui su NI
    https://www.nazioneindiana.com/2011/03/23/smettiamo-di-chiamarla-%C2%ABletteratura-della-migrazione%C2%BB/

    “Scrittori italiani di seconda generazione allora? In realtà, a più di un decennio di distanza dall’uscita del primo romanzo di uno scrittore di origini straniere cresciuto in Italia (Verso la notte bakonga, 1999, di Jadelin Mabiala Gangbo[8]), l’espressione stona; in un paese dove, secondo il ventesimo rapporto sull’immigrazione presentato nel dicembre 2010 dalla Caritas, i figli degli immigrati costituiscono già un terzo della popolazione sotto i trent’anni, c’è qualcosa che ormai fa problema nella definizione “scrittori italiani di seconda generazione” che, se ci pensiamo, per molti aspetti potrebbe diventare un’espressione anche difensiva; e offensiva, svalutativa, perché rischia di mantenere l’autore così indicato in una condizione di second class citizen – per usare il famoso titolo di Buchi Emecheta(9) -, e in ogni caso rischia di ridurre il soggetto a oggetto: depositario di un’identità eteronoma, cioè tutta vissuta e ricostruita da un altro piuttosto che autodeterminata e autodefinita. Il rischio, in altre parole, è quello di riprodurre un modo discorsivo e mentale che, sia pure con le migliori o più inconsapevoli intenzioni, rafforza un’idea di integrazione come processo a senso unico (: ci integriamo nella misura in cui tu impari ed assimili la mia lingua e la mia cultura, ovvero ci integriamo nella misura in cui io ti incorporo), piuttosto che come scambio.”

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