La resistenza e la rivoluzione a Kobane (e dintorni)
di Lorenzo Declich
La cittadina curdo-siriana di Kobane è stata sotto assedio per più di un mese.
A combattere erano gli assalitori di Daesh (IS, Stato islamico, Daesh, ISIS, ISIL chiamateli come volete), e i difensori curdi e arabi: YPG/YPJ e brigate dell’Esercito Siriano Libero.
A poche centinaia di metri dai luoghi dello scontro, in territorio turco, erano appostati diversi mezzi blindati dell’esercito regolare turco.
La maggior parte dei civili a Kobane era stata evacuata, ne restava in città un numero che, a seconda delle fonti, variava dalle poche centinaia (soprattutto vecchi, sembra) ai 5000-6000.
L’IS attaccava la città da tutte le direzioni eccetto quella nord, dove si trova la frontiera con la Turchia.
Lì, appunto, stanziavano i mezzi blindati turchi.
L’esercito turco è stato impegnato a sedare i tentativi di entrata in Siria di civili curdi e turchi che, appartenenti o meno a organizzazioni politiche di qualche genere, volevano andare a Kobane per unirsi ai combattenti che difendevano la città.
A un certo punto su Kobane hanno iniziato a volare bombardieri americani che hanno attaccato postazioni di Daesh in città e nelle retrovie.
Se la cosa fosse avvenuta un po’ prima gli obiettivi sarebbero stati di più facile individuazione, dicono diverse fonti.
Ma di fatto l’intervento dell’aviazione, anche se con una tempistica errata, ha spostato l’ago della bilancia in favore dei difensori, che hanno preso fiato e guadagnato terreno.
Negli ultimi giorni, poi, si è sbloccata la situazione a nord. I turchi hanno riaperto la frontiera selettivamente – hanno permesso ad altri curdi, i peshmerga iraqeni, di portare aiuti militari e umanitari.
Poco prima gli aerei dell’alleanza avevano iniziato a lanciare medicine e armi dall’alto.
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Essendo uno dei luoghi di scontro più accesi con Daesh, l’assedio di Kobane ha ricevuto in Europa e negli Stati Uniti ampia copertura.
Vista la vicinanza con la frontiera turca i giornalisti hanno potuto assistere ai combattimenti da una distanza decisamente ravvicinata, anche se rare sono le testimonianze video “da dentro”.
In tempo reale abbiamo potuto assistere a eventi simbolici come l’imposizione della bandiera di Daesh sulla collina più alta e, a giorni di distanza, la sua successiva eliminazione.
Abbiamo potuto visualizzare decine di mappe che registravano il progresso dellla battaglia: l’avanzata di Daesh, il suo ritiro.
Abbiamo letto centinaia di tweet di persone che si trovavano lì.
Abbiamo toccato con mano la repressione turca, l’arrivo di diversi gruppi di persone, curdi o meno, che manifestavano e volevano entrare.
Abbiamo registrato il moto globale di solidarietà che in Turchia ha scatenato la repressione e ha prodotto decine di morti.
Molti articoli e reportage hanno sottolineato le peculiarità delle enclave curde siriane.
Il toponimo “Rojava” ha fatto il giro del mondo così come l'”esperimento” di autogoverno e autonomia, sancito da una carta, da una dichiarazione di principi, lì messo in pratica.
Il mondo ha conosciuto i combattenti curdi dell’YPG, e soprattutto le combattenti curde dell’YPJ, bracci armati del partito curdo siriano del PYD.
Negli ultimi giorni sono state messe in campo diverse campagne volte alla raccolta di fondi e aiuti da destinare ai curdi del Rojava.
Ma per diversi motivi, prima di tutto a causa delle note e perniciose esigenze di semplificazione che affliggono gli operatori dei mezzi di informazione, l’opinione pubblica ha identificato Kobane col Curdistan.
L’attenzione si è concentrata su generici “diritti del popolo curdo”, quel “popolo senza Stato” che da un secolo subisce vessazioni di ogni genere.
In tanti hanno chiesto alla comunità internazionale di farsi carico delle responsabilità derivanti dall’aver “lasciato i curdi da soli”.
Il fatto è che fra quei curdi resistenti c’erano – come ho scritto all’inizio – degli arabi che erano accorsi in loro aiuto.
E come vedremo quelli lì erano degli arabi speciali che non avevano lasciato soli quei particolari curdi.
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Sebbene i media abbiano dato ampio risalto alla vicenda di Kobane la copertura dell’evento è stata parziale, o meglio selettiva.
Alcuni elementi, di certo molto interessanti, sono stati messi in risalto, altri non sono stati presi in considerazione, o ignorati, o negati.
Il primo riguarda il combattimento vero e proprio o meglio l’identità dei combattenti.
Se da una parte c’erano degli indifferenziati ed efferati seguaci del Neocaliffo di Mossul dall’altra c’erano degli indifferenziati e generosi/coraggiosi curdi, aiutati talvolta da singoli o gruppi provenienti da mondi lontani e giunti in loco per dare il loro apporto.
Abbiamo incontrato “storie di solidarietà” antibarbarie: ad esempio quella di un americano, Jordan Matson, che “ha lasciato la sua ragazza, ha smesso di cercare lavoro ed è andato a Kobane”. O anche quella, un po’ meno decrittabile, dei bikers tedeschi e olandesi.
Molto meno abbiano sentito parlare della “cabina di regia” chiamata “Vulcano dell’Eufrate” (Burkan al-Furat), frutto di un accordo siglato nello scorso settembre dai curdi dell’YPG/YPJ e diversi gruppi di combattenti arabi locali o provenienti da aree ora occupate da Daesh, la maggior parte dei quali appartenenti all’Esercito Siriano Libero.
Parliamo di un numero di combattenti che oscilla dalle 300 alle 1000 unità. Un numero che può aver fatto la differenza in battaglia.
Cercando nel web si trovano le specifiche di questo accordo e diverse analisi riguardanti la sua natura.
La questione è controversa. YPG/YPJ e Esercito Siriano Libero si sono scontrati in passato, quando Daesh non esisteva.
L’Esercito Siriano Libero accusava i curdi siriani di collaborare col regime ed effettivamente per un lungo periodo le enclave curde hanno mantenuto rapporti stabili con l’amministrazione di Asad, in cambio di un’autonomia sempre più marcata.
Mentre il PYD costruiva l’autonomia, non senza compiere forzature per conquistare l’egemonia politica, l’Esercito Libero Siriano – che al contrario dell’YPG/YPJ era costantemente sotto il fuoco del regime – si andava sfaldando a causa di dissidi interni, mancanza di foraggiamenti, infiltrazioni di criminali comuni.
Si gonfiavano altri gruppi armati anti-Asad, quei gruppi come il Fronte islamico che, invece, ricevevano copiosi aiuti dai paesi del Golfo.
E si gonfiava anche la Jabhat al-nusra, che nell’aprile del 2013 rivelò la sua connessione con al-Qaida e nel cui corpo era germinata Daesh.
Nell’est della Siria, e attorno alle zone settentrionali a maggioranza curda, questa organizzazione era dominante.
Lì, come altrove, ciò che rimaneva dell’Esercito Siriano Libero si coordinava con la Jabhat al-nusra che si scontrava anche con i curdi.
Il paradigma cambiò con la nascita di Daesh, che rese la Jabhat al-nusra ininfluente in quelle aree e schiacciò l’Esercito Siriano Libero i cui combattenti, in parte, ripiegarono nelle aree curde, dove trovarono accoglienza.
Sono questi combattenti ad aver ricostituito un qualche coordinamento fra gruppi ormai allo sbaraglio dell’Esercito Siriano Libero, fra cui milita fra l’altro una brigata curda (Jabhat al-akrad), e ad aver inaugurato un nuovo corso.
C’è chi dice che questa cabina di regia esploderà nel preciso momento in cui Daesh sarà eliminato, sottolineando che i curdi del PYD in altre aree (ad esempio Hasake) si coordinano col regime contro Daesh.
E’ possibile, ma c’è chi racconta, invece, che le operazioni congiunte hanno messo in linea posizioni che fino a poco tempo fa sembravano inconciliabili e ha determinato nuove consapevolezze, nuove fratellanze.
E’ possibile anche questo. Fra le certezze che abbiamo c’è il comunicato del comando generale dell’YPG su Kobane del 19 ottobre scorso, un testo che sottolinea l’apporto dell’Esercito Siriano Libero e la collaborazione dell’YPG/YPJ con esso.
I maligni farebbero notare che i turchi qualche giorno prima avevano chiesto all’YPG/YPJ di confluire nell’Esercito Siriano Libero come pre-condizione per l’apertura delle frontiere. Questa dichiarazione, dunque, potrebbe essere niente altro che una strizzatina d’occhio a Erdogan. Ma non si può non tener conto dell’atteggiamento americano che, oltre a dare una mano dall’alto, ha sviluppato un’iniziativa diplomatica volta a convincere i turchi a cedere su Kobane, cosa che in una certa misura, come abbiamo visto è avvenuta.
E, inoltre, non bisogna dimenticare che i turchi, oltre a bloccare la frontiera e a reprimere con la violenza tutte le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei resistenti di Kobane, hanno negli ultimi giorni bombardato alcune postazioni del PKK, il partito dei lavoratori curdi di Turchia, descritto da molti come “la madre” del PYD ma soprattutto, di fatto, organizzazione omologa al PYD dal punto di vista ideologico (da notare, in questo quadro, che lo stesso PYD al suo interno ha una propria dinamica di sviluppo nella quale, affermano alcuni, le nuove generazioni prendono sempre maggiore influenza, allontanandosi dalla vecchia guardia, più legata al PKK).
Sembra dunque che il tributo dell’YPG all’Esercito Siriano Libero non sia un esercizio di cerchiobottismo, non sia un modo per tenersi buoni i turchi.
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Ma nel comunicato c’è molto di più, c’è qualcosa che ci fa aprire lo sguardo su uno scenario finora non colto né raccolto e che il lettore medio di notizie su Kobane probabilmente non ha mai nemmeno immaginato:
Combattere il terrorismo e costruire una Siria libera e democratica sono la base dell’accordo che abbiamo firmato con le fazioni dell’Esercito Siriano Libero. Come è evidente, il successo della rivoluzione dipende dallo sviluppo di queste relazioni fra tutte le fazioni e le forze del bene in questo paese (cit.).
In queste due frasi troviamo una rivoluzione, un’idea di futuro e un paese, la Siria, in cui questa rivoluzione e questa idea di futuro si proiettano.
Troviamo un piano di solidarietà interetnico, interlinguistico, interreligioso che sfugge ai reticoli nei quali sono stati imprigionati molti dei dispacci provenienti da Kobane.
Non si ringraziano i fratelli curdi di Iraq, di Iran, di Turchia.
Non c’è un Curdistan libero e democratico nel comunicato dell’YPG.
Al curdocentrismo del quale si è intriso il nostro mondo dell’informazione, che rende i curdi tutti uguali ed esclude dal racconto tutti gli altri, fra cui quei curdi che in Siria e in Iraq combattono o parteggiano per la parte opposta – ossia con Daesh – questo comunicato oppone un’altra realtà, della quale dovremmo parlare.
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Ho sotto gli occhi l’immagine di due curdi risalente agli inizi del ‘900. La didascalia recita: “Mesopotamia – tipi di curdi massacratori”. Perché massacratori? Perché i primi massacri di armeni, in Turchia (1894-1896), li fecero anche i curdi.
I curdi, insieme a turchi, arabi, turkmeni e yörük, furono al tempo inquadrati da irregolari in una cavalleria sultaniale, la Hamidiye, che prendeva di mira le comunità armene.
Passo a un’altra immagine, risalente al 1908. Siamo nella piazza principale di Urfa, l’antica Edessa, ma oggi Şanlıurfa, per gli arabi ar-Ruha, per i curdi Riha, per gli armeni Urha, per gli assiri Urhoy, una città che si trova a meno di 60 chilometri da Kobane, in quello che oggi definiamo “Curdistan turco”.
La pluralità di denominazioni della città riflette la sua storia “mista”. E’ il 24 luglio, il giorno della restaurazione della costituzione in Turchia da parte del sultano. Nella piazza ci sono persone di lingue, culture e religioni diverse. Turchi, curdi, armeni, assiri, tatari, arabi e così via.
Ora Şanlıurfa è una città mista, ma molto meno mista di prima. Negli anni 1915-1916 fu toccata dal massacro degli armeni (e degli assiri): il 40% della popolazione (che allora era di 75.000 persone) fu sterminata. Non ci sono più armeni a Urfa, almeno non quelli di una volta. Erano circa 25.000.
La cosa iniziò con una “resistenza armena”. Un’ immagine, risalente al 1915, ritrae “civili armeni di Urfa che si difendono dai turchi e dai curdi, luglio 1915”.
Oggi diverse associazioni curde riconoscono le responsabilità curde nei massacri degli armeni, ma se mettete a confronto le mappe “storiche” del Kurdistan e quelle dell’Armenia vedrete che si sovrappongono un bel po’.
Con questo non voglio dimostrare quanto siano illegittime le rivendicazioni dei nazionalisti curdi o quelle degli armeni della diaspora, né il contrario.
Vorrei far riflettere sul fatto che tutti i nazionalismi sono escludenti e non si vede il motivo per cui un nazionalismo possa essere più valido e meno potenzialmente genocida di un altro.
Di certo i curdi sono stati perseguitati in diverse forme e a più riprese in ognuno dei paesi nei quali si sono ritrovati a vivere dopo i trattati che seguirono alla conferenza di Parigi del 1919-1920, che non diedero loro uno Stato.
Ma ancora nel 1908 i curdi semplicemente “non erano”, o meglio “non erano riconosciuti come qualcosa a sé nell’impero ottomano”.
Nelle elezioni che seguirono alla promulgazione della costituzione turca nel 1908 nessun seggio parlamentare andò specificamente a curdi.
Il nuovo parlamento era composto di 147 turchi, 60 arabi, 27 albanesi, 26 greci, 14 armeni, 10 slavi e 4 ebrei.
Forse, ma dovrei controllare, fra quei 146 turchi c’era qualche “turco di montagna”.
Insomma, voglio inserire la questione curda in un quadro problematico ma, soprattutto, ricordare che, se la questione è dire sì a uno “Stato curdo” come “risarcimento” per i torti subiti, apriamo il vaso di Pandora di contenziosi centenari.
E, contestualmente, voglio ricordare che non tutti i curdi sono nazionalisti, anzi: come in un qualsiasi altro contesto linguistico-culturale vi è chi non ha la minima voglia o il minimo interesse a promuovere l’idea di uno Stato indipendente.
Diverso, e ancora una volta molto complesso, si fa il discorso se parliamo di autonomia, un concetto che coinvolge la possibilità di esprimere una identità e anche un certo patriottismo che può superare le frontiere degli Stati.
Guardando alla distribuzione delle comunità curde nei diversi paesi vediamo che ognuna di esse ha una corrente autonomista che si articola anche in base alla risposta che le rivendicazioni ricevono in quei paesi.
In Iran l’autonomia curda è negata, in Iraq è sancita, in Turchia è (o era dopo i recenti eventi) in discussione, in Siria è stata negata fino alla rivoluzione del 2011 quando Asad, per “tenere buoni” i curdi l’ha promessa, insieme alla concessione di una cittadinanza fino a quel momento semplicemente ignorata.
In tutti questi paesi, e la comunità internazionale non è da meno, l’idea di uno Stato curdo indipendente non è neanche presa in considerazione.
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Fra i gruppi certamente autonomisti ma non nazionalisti ci sono evidentemente i curdi siriani del PYD. Ma, appunto, sarà bene specificare di quale autonomia parliamo.
In Iraq l’autonomia dei curdi si è tradotta, in breve, nella gestione del potere nelle zone di pertinenza, alle dipendenze dal governo centrale iraqeno, con una conseguente lotta fra potentati, più o meno intensa.
In Siria, come hanno sottolineato da più parti, il modello – prodottosi in tempo di guerra – è diverso sotto molti punti di vista.
Il procedere del processo di autonomia ha segnato, anche grazie al disinteresse crescente del regime di Asad nei confronti delle aree curde, un cammino di autogestione meno controllato dall’alto, anche se egemonizzato dal PYD.
Si tratta di un modello che trova il suo più diretto parallelo a pochi passi dal Curdistan siriano, in altre zone della Siria, sebbene queste siano state esperienze immensamente più difficili viste le “attenzioni” (cioè i bombardamenti) ricevute dal regime.
Negli anni seguenti alla rivolta del 2011 molti territori in Siria sono stati gestiti con metodi e mentalità profondamente simili a quelli che ritroviamo a Kobane.
Quelle frasi, sopra riportate, del comando dell’YPG suonano molto familiari a molti siriani, soprattutto a quelle migliaia di attivisti che in Siria hanno costruito forme di autoorganizzazione e autogoverno omologhe a quelle che ritroviamo a Kobane.
Suonano invece “uniche” e “isolate”, oltre che molto esotiche, nel resto del mondo, dove la rivoluzione siriana, citata dal comando dell’YPG, è quasi completamente sconosciuta o disconosciuta.
O nascosta dietro a stereotipate guerre etcniche e/o religiose.
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Consiglio qui alcune letture:
The struggle for Kobane: an example of selective solidarity
We need to support forms of liberation struggle unconditionally
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Grazie per questo pezzo, Lorenzo. Non solo perché ricostruisce posizionando frammenti di storia lungo una direttrice, ma perché aggiunge, mostra parti e questioni di cui – effettivamente – il lettore medio di notizie su Kobane ( e io è là che mi colloco ) non può accorgersi. E questo apre anche alla riflessione su quanto conti la mancanza di informazione o l’omissione e l’oscuramento di parti del discorso : non è solo “un meno”, può anche stravolgere completamente o parzialmente la percezione e la realtà dei fatti.
Sì… alzare il “volume” non significa sempre “sentire meglio”
Un’attenzione quasi ‘impossibile’ cionondimeno mirata…Nei tempi sempre più rapidi non c’è più tempo probabilmente per progettare uno stato curdo. Ma che ne emerge dalla complessa ricostruzione? Le cose di dovunque…i già oppressi pronti a trasformarsi in oppressori, tel quel gli israeliani….Oggi le diverse etnie del mosaico mediorientale, le differenze e i torti delle fazioni tribali, cessati i massacri, le autobombe dovranno per forza approdare a un superiore equilibrio?….una coesistenza più pacifica?….altra forma di relazionarsi?
[…] […]
a Lorenzo,
mi sono alla fine immerso nella lettura di Georges Corm, e sto cominciando ad avanzare in una nebbia meno fitta.
Premessa minima per riprendere questo tuo passo:
“In queste due frasi troviamo una rivoluzione, un’idea di futuro e un paese, la Siria, in cui questa rivoluzione e questa idea di futuro si proiettano.
Troviamo un piano di solidarietà interetnico, interlinguistico, interreligioso che sfugge ai reticoli nei quali sono stati imprigionati molti dei dispacci provenienti da Kobane.”
E’ questa probabilmente l’unica via d’uscita che non solo quella situazione specifica ha, ma l’intera regione (oggi dissestata) ha. Una via d’uscita che mi sembra di capire da tempo tenta di affermarsi, ma è sempre schiacciata da logiche più familiari, radicate, cronicizzate. Da logiche che lo stesso Occidente favorisce, perché è lui il primo a non credere che sia possibile in quella regione una solidarietà che scavalchi le frontiere nazionali, quelle tra arabi e non arabi, quelle tra musulmani e non, tra sunniti e sciiti, ecc.
Sì Andrea, la penso proprio così. Qui c’è una lettura interessante sul tema:
The Destruction of Syria: In Memory of Edward Said
http://therepublicgs.net/en/26144
Rana Issa, l’autrice, utilizza un “interruttore concettuale” usato da Edward Said in letteratura: filiazione/affiliazione.
Ci sarebbe molto altro da aggiungere, sto lavorando insieme ad altri su questi argomenti, secondo me cruciali.
Non ti conoscevo. Complimenti, non so se sei un giornalista, ma se non lo fossi dovresti esserlo. E saresti uno dei più puliti. Le troie che scrivono sugli stracci di carta che in questo paese chiamano giornali dovrebbero venire qui a prendere lezioni. Non di scrittura. Di onestà intellettuale.
Grazie del tuo scrivere e continua a fare l’ottimo lavoro che stai facendo.
Gentile Lorenzo,
è davvero notevole che si consigli la lettura di Omar Aziz per meglio comprendere i fondamenti delle organizzazioni di base che hanno animato da un punto di vista laico la ribellione siriana. A tal proposito, e partendo da queste tue frasi:
“Vorrei far riflettere sul fatto che tutti i nazionalismi sono escludenti e non si vede il motivo per cui un nazionalismo possa essere più valido e meno potenzialmente genocida di un altro. […] E, contestualmente, voglio ricordare che non tutti i curdi sono nazionalisti, anzi: come in un qualsiasi altro contesto linguistico-culturale vi è chi non ha la minima voglia o il minimo interesse a promuovere l’idea di uno Stato indipendente.”
Vorrei provare a bypassare la questione nazionale, e chiederti cosa ne pensi del progetto, se ho ben capito leggendo fonti altre avviato nel periodo della rivoluzione siriana, delle comunità autogestite in territorio siriano (ne parli già in quest’articolo, ma ti chiedo un approfondimento) e del progetto confederalista-democratico, rivendicato dal PKK e fondato sulle teorie di un altro pensatore libertario quale Bookchin.
Leggendo più fonti (report di persone che sono tornate da Kobane, stampa dei movimenti sociali) mi pare di capire che il PKK e le organizzazioni che in qualche modo afferiscono a questa entità politica hanno rifiutato la prospettiva nazionalista, pur dopo un periodo in cui la prospettiva politica era quella del più duro nazionalismo etnico [cfr. un documento degli anarco-sindacalisti americani], per adottarne una autogestionaria.
Tu credi che quello che resta pur sempre un partito, peraltro connotato in passato dall’ideologia tipica di molte forze di liberazione (nazionalismo + marx-leninismo terzomondista), possa condurre una rivoluzione sociale i cui fondamenti si dicono essere quelli dell’autogestione e dell’autonomia comunitaria? Ed è possibile che una forza politica simile riesca a superare definitivamente una prospettiva nazionale in nome di un’apertura territoriale (che si può poi leggere in una particolarizzazione del territorio nelle varie comunità autogestite) che potrebbe anche sfuggire al suo diretto controllo?
Grazie per l’articolo e per le tue eventuali considerazioni.
Le esperienze di autoorganizzazione, come ho accennato nel pezzo, sono parzialmente diverse. In particolare quelle arabo-siriane non sono partite da basi ideologiche univoche, si sono andate formando nel “processo rivoluzionario”. Citavo Omar Aziz (del quale come scrivevo altrove sto facendo uno studio insieme ad altri) proprio perché, nonostante l’etichetta di “anarchico”, questi mostra di non avere dalla sua altro che un buon numero di letture e il desiderio di non lasciare nulla di intentato per dare libertà al suo paese. Proprio per questa non circostanziata appartenenza ideologica le esperienze arabo-siriane risultano più variegate e spesso più fragili. Nel Curdistan siriano gli esperimenti potrebbero fallire invece per un eccesso di “dirigismo”: il PYD e il PKK hanno una storia e un organigramma, potrebbbero prevalere interessi particolari e accordi sotto banco. Inoltre, nonostante il luogo comune che lo vede come unica forza politica in campo, il PYD ha incontrato un’opposizione anche a sinistra e ha agito repressivamente contro di essa in diverse occasioni. Le dinamiche politiche in tempo di guerra sono ovviamente diverse da quelle cui assistiamo in tempo di pace. Ritengo che sia ancora presto per capire se all’interno di un’organizzazione così strutturata e così “in mutamento” vincerà il pensiero, la teoria, o l’interesse. Quanto alla parte siriana la cosa è per molti versi decisamente più drammatica. Il Curdistan non è stato quasi raso al suolo da Asad, le aree della ribellione nella parte araba sì. Ciò che rimane delle esperienze di autogoverno e autoorganizzazione (non poche, comunque) rappresenta in effetti più che altro un lume acceso di speranza per il futuro e una testimonianza di ciò che la Siria potrebbe essere. Lì, davvero, ci sarebbe bisogno del sostegno dell’opinione pubblica mondiale.
Un giornalista entra a Kobane
http://www.al-monitor.com/pulse/politics/2014/10/turkey-syria-kobani-24-hours.html
cito:
Are you in contact with Turkey? Her reply: “We met with Turkey before. Kobani canton had asked for Turkey’s assistance. We want Turkey to assist Kobani’s resistance. IS is major threat to Turkey’s people. The Turkish president is making contradictory statements. He meets with us as a party and then says, ‘The PYD is the same as the PKK.’ His equating the PYD and the PKK is not a correct policy because the PYD and the PKK are not the same. The PYD is fighting for its identity in Syria. The PYD is a Syrian party. Today we are fighting in Syria to prevent disintegration of the country and to prevent sectarian strife. It is not appropriate to attack our party by citing the PKK. We want this attitude to change.”
posso ipotizzare qualche motivo per cui Kobane ha suscitato tanto interesse:
-tradizionale legame tra questione curda e ambienti di sinistra europei, in particolare attraverso le reti di solidarietà del PKK
-presenza di forti comunità curde, generalmente politicizzate, in europa
-effetto Peshmerga, dopo la conquista di Mosul da parte dell’ISIS e il dissolvimento dell’esercito iracheno, quando i Peshmerga hanno occupato Kirkuk, è iniziata ad emergere l’immagine dei combattenti curdi, di una società più secolarizzata e meno sessista della media del medio oriente, cosa che ha attirato notevolmente i media
-effetto Sinjar, il salvataggio degli Yezidi in Agosto ad opera dell’YPG e dell’HPG ha improvvisamente catalizzato l’attenzione sulle milizie curdo siriane gli “altri curdi”, come ha scritto qualcuno, fino ad allora totalmente ignorate dai media occidentali
-durante l’estate i curdi si sono fatti la fama di unica forza di terra in grado di contenere l’ISIS (fama non meritata, in verità, visto che anche l’Esercito Siriano, quantomeno, ha avuto i suoi avanzamenti, dopo la disfatta di Raqqa, ma anche i turcomanni di Amerli, che hanno retto due mesi di assedio in condizioni disperate più o meno quanto Kobane, tanto per fare qualche esempio)
-facilità nell’identificare “i nostri”, il ruolo delle donne dell’YPJ ha contribuito sicuramente tantissimo in questo, offrendo immediatamente l’immagine di una forza laica, in contrapposizione alle barbe dell’ISIS o di Jahbat Al Nusra
-la propaganda dell’YPG/YPJ, attraverso l’enfasi sul ruolo delle sue donne combattenti, ha offerto un contraltare positivo alla propaganda mortifera dell’ISIS
-peraltro, l’evidente immagine laica delle milizie curde ha prodotto curiosi testacoda, come la solidarietà della destra europea, in funzione anti islamica, alla resistenza formalmente anarco-comunista di Kobane.
-l’enorme esplosione di solidarietà tra le comunità curde disperse tra Iran, Iraq, Siria e Turchia è comunque un fatto politico rilevantissimo nei precari equilibri del medio oriente, che si mantenga entro una prospettiva autonomista, come nelle posizioni ufficiali di PKK e PYD, o tenti di costruire un’entità statuale indipendente, come è nella prospettiva del KDP e del PDK
-in Siria la percezione diffusa dai media occidentali è che oramai tra le file dei ribelli esistano soltanto forze islamiste, perlopiù ultraradicali, non c’è conoscenza di esperienze differenti (peraltro anche la conoscenza delle milizie islamiste, o delle milizie aderenti all’ISIS è scarsissima, e quella delle milizie che sostengono Assad ancora di più, tolta Hezbollah, in questo è interessante, per esempio, il lavoro di Aymenn J Al-Tamimi https://twitter.com/ajaltamimi)
-è anche vero che la gran parte delle esperienze di autogoverno laico in Siria, per forza militare e consistenza territoriale, non sono generalmente paragonabili ai cantoni del Rojava
-in generale l’idea diffusa era che in Siria ci sia un inferno ove non c’è più niente da difendere, Kobane ha quantomeno ribaltato questa percezione, in prospettiva ciò potrebbe essere utile anche per altre aree della Siria
-tutto sommato Kobane ha offerto una narrazione semplice e lineare, bene vs male, di quelle che piacciono ai media occidentali, che nel resto della Siria è progressivamente venuta a mancare con l’emergere sempre più preponderante di Jabhat Al Nustra, del Fronte Islamico e dell’ISIS.
-infine, se è vero che ultimamente le notizie dalla Siria si sono concentrate su Kobane, ignorando gli altri numerosi teatri di guerra, è anche vero che per più di due anni le aree controllate dai curdi sono state completamente ignorate nella narrazione giornalistica, così come è stata notevolmente ignorata la narrazione del campo pro-Assad, assai più composito di quanto non si voglia credere (chessò: http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2014/10/syria-tartous-alawites-pro-regime-protests.html#), focalizzando l’attenzione su ribelli interpretati, secondo gli schemi semplicistici della stampa, prima come “forza del bene” e poi, con disagio crescente, come “altra forza del male”.