Les infréquentables: Georges Bataille

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da L’equivoco della cultura

(due estratti dalla rivista « Comprendre » n° 16, Société Européenne de culture, Venise 1956)

di

Georges Bataille

 nuova traduzione di Francesco Forlani

Chiedo venia per aver posto dall’inizio la questione al di fuori dei soliti punti di vista. La prima forma di cultura non appare ai miei occhi la stessa che intendiamo nella maggior parte dei casi. Intendiamo infatti, abitualmente, la cultura come individuale, ma i popoli primitivi – o arcaici – hanno la loro cultura. In risposta alla domanda sui doveri dell’ « uomo di cultura », può apparire fuori luogo risalire a tempi così lontani ; tanto più che sembra fuori dall’ambito in cui la questione si ponga per noi. Tuttavia, mi pare che sia nel quadro di una tale cultura, che nomino arcaica che le relazioni – e l’opposizione – della cultura e del potere sono offerte più chiaramente.

Il potere che si oppone all’autonomia della cultura può farlo, in primo luogo, se cede il passo agli affari militari, in secondo luogo, se allo sviluppo della cultura preferisce quello delle forze produttive. L’esempio dell’Egitto mi permette di chiarirmi. La sua cultura ha il vantaggio di definirsi, necessariamente, in contrasto con la cultura individuale dei Greci. Ma soprattutto le rappresentazioni che ne tirerò fuori mi permetteranno di essere capito senza eccessivi sforzi. Non tenterò di analizzare gli elementi che emergono a sufficienza. Comincerò con la familiare immagine delle Piramidi. Nessuno dubiterà del fatto che le Piramidi siano da considerarsi tra le meraviglie della cultura. Non mi addentrerò più in dettaglio nell’interpretazione religiosa delle stesse. Mi limiterò soltanto a ricordare che hanno avuto e mantenuto il senso del trionfo del pensiero sulla morte . Questo modo di vedere la cosa è indubitabilmente una semplificazione, ma non per questo meno legittima.

Potremmo contemporaneamente, con una riflessione superficiale, collegare le Piramidi al peso della pietra e alla sofferenza di migliaia di schiavi, ma è proprio per aver trionfato sul peso e sulla sofferenza che questi edifici sono meravigliosi. In loro, l’umanità è bellezza nella sua interezza. Il dolore è bruttura, impotenza e non risponde che attraverso il non-senso alla questione instillata in noi dall’angoscia. Nella serenità delle Piramidi , l’umanità è bellezza per avere superato la disgrazia di coloro che le hanno tirate su; umanità che è bellezza attraverso l’immutata apparenza, mantenuta in quanto effetto di una sofferenza brutta e incommensurabile, che si è zittita . L’umanità non smette individualmente di morire, soffrire e rabbrividire, ma oltre la morte , la sofferenza e il brivido, può contemplarsi nel sogno che fu la vittoria del pensiero sulla miseria della nostra condizione. La nostra cultura vero è che non sempre si attiene a tale movimento d’indifferenza del vincitore. Un movimento che ci lascia tutto sommato disarmati, però se la cultura, effettivamente, ci apre poco oltre un orizzonte orribile, il suo primo passo non ne è per questo meno legato alla possibilità di un trionfo tanto perfetto. Anche se doveva mentirci a tale fine, raffigurò in primo luogo per noi questo mondo a nostra misura.

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Tale trionfo, in sostanza, fu quello del lavoro ordinato dalla cultura, ma che differisce dalla cultura nel fatto che in tutto il suo movimento, sia l’effetto di un calcolo delle cause riferite al loro effetto pratico.
Credo che non si possa mai parlare di cultura senza opporla nella sua essenza al lavoro, che solo la cultura può distogliere dall’ applicazione immediata alla soddisfazione dei bisogni. L’esempio delle Piramidi è degno di nota in quanto mostra un grande lavoro al servizio di un fine inutile, appropriato alla cultura, un fine caratteristico alla cultura, non alla ragione d’essere alla base del lavoro, quali potessero essere il macello delle prede o la costruzione di capanne per non morire. Il lavoro di edificazione delle Piramidi è nella sua essenza la negazione del lavoro; furono edificate come se il lavoro fosse stato trascurabile e potesse esserne in qualche modo insabbiato. Dal punto di vista pratico, che è poi quello del lavoro, le Piramidi sono vane quanto sarebbe oggi la costruzione di un grattacielo seguita dal suo incendio voluto senza alcuna ragione .

Tale sfida alla morte a nessuno evitò la morte, al contrario comportò molte morti accidentali. Ma il suo folle rifiuto ebbe un senso : quello della ricchezza, del lavoro dileguato, che, per il fatto di sfuggire al loro impiego utile, prendevano il valore di fine supremo. Tale ricchezza, il lavoro dileguato in effetti consacravano sovranamente il faraone morto, facendo di lui ciò che non era stato da vivo, l’immagine dell’eternità divina. È attraverso la loro sottrazione all’impiego servile che le cose abbandonano il loro senso ultimo e non sono più cose, ma riflessi divini, apparenze sovrane, cose sacre. È per porsele davanti e contemplarle, tale apparizioni, che gli uomini decisero di incarnarle nella persona di uno di loro, che da allora poteva diventare la fine di tutti gli altri, segnando il luogo dove la schiavitù veniva dissolta : all’ombra delle Piramidi, la realtà si staccava perfino dalla vita, senza fine la morte la trasfigurava .

Le Piramidi manifestano un valore della cultura indipendente dalla composizione di forze su cui si fondò la potenza dell’Egitto: la potenza, vale a dire, uno stato realizzato attraverso un esercito. Eppure tale indipendenza di principio non poteva essere assicurata in modo stabile. Sebbene la dignità di Faraone avesse un proprio valore attraverso un pensiero esteriore al potere militare, sappiamo che la designazione del sovrano poté dipendere dalle battaglie. Sono le guerre a mettere nelle mani di uno solo il patrimonio religioso di vari paesi : e la ricchezza propria a tale sovranità locale poté essere acquisita militarmente. La ricchezza spirituale, in un certo senso mistica, differiva essenzialmente dai movimenti dei carri e delle truppe. Allo stesso modo, anche se con maggiore limpidezza, la dignità di un papa non smise mai di essere distinta dai comandi dei mercenari pontifici. Si tratta da una parte di creazione della cultura, dall’altra, di una forza materiale. Non esiste che raramente forza materiale che non sia legata ad un qualche prestigio .

Però vicendevolmente, sul piano in cui ci troviamo in questo stesso istante, non c’è proprio ricchezza spirituale in grado di essere sovrana altrimenti che nella misura in cui disponga di una forza armata. In teoria, posso immaginare un potere spirituale puro, tanto che il prestigio legato a una dignità basti a  spostare  questa forza. Ma in pratica, la forza obbedisce meglio a coloro che possiedono qualità propriamente militari (fisiche o tecniche). Ecco perché non c’è potere spirituale che non possa essere inficiato dall’intervento di valori militari, vale a dire, dalla forza fisica. In cima a tutto, tuttavia, è un effetto della cultura che agisce, legato al potere che un essere ha di magnificare i valori sovrani, e di porli al di sopra del calcolo dell’interesse. In modo fondamentale, è sovrano, sul piano spirituale, colui che senza calcolare, senza tenere conto, che vuole l’irradiarsi dello splendore (i valori spirituali più recenti, che fanno la parte della morale, non intervengono che in secondo luogo ; al tempo dei faraoni, sono ancora insignificanti).

L’opposizione dei valori sovrani a valori utili è della più grande semplicità. È sempre facile da fare e questo mio quadro generale lo denuncerà. È la base della contrapposizione dei beni della cultura ai valori pratici. Su questo punto, la confusione è di norma. Spesso i beni culturali sono valutati in base al loro valore pratico: mi sembra che ne derivi uno svilimento della vita umana, ed è questa la ragione per cui scrivo queste pagine. La fonte della confusione è del resto chiara: è connessa con lo scivolamento di senso di cui parlo e che, nella misura in cui i valori spirituali si legano al potere politico, lascia gli stessi alla mercé della forza armata. Tale scivolamento  è reso ancora più pesante  dal fatto che ci sia una possibile affinità tra due realtà sostanzialmente opposte,  quella militare e quella sacra. Questa affinità è superficiale, ma non per questo senza conseguenze. Che la guerra metta la morte in gioco, e che, in essa, quanto meno nelle condizioni  della civiltà arcaica, la violenza è spesso più forte del calcolo degli interessi, pare che si accordi con sentimenti molto popolari e profondi. Questo accordo  menzognero, e profondamente infelice è responsabile in primo luogo dello svilimento che voglio denunciare. (…)

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Post-Scriptum

Non ho ritenuto necessario dare indipendentemente dai suoi fondamenti il senso della mia posizione ; la cultura non può considerare il problema del potere (conseguentemente quello della libertà, cioè, della resistenza al potere), fin tanto che alla base non se ne sia distaccata. Soprattutto nelle circostanze presenti, mi sembra che la politica della cultura politica debba limitarsi a capire da ogni punto di vista le posizioni avverse. In effetti è di una grande banalità dire ora che gli avversari, o si comprenderanno, o si annienteranno in uno stesso movimento. Non possono rinunciare, senza infingimenti, all’ annientamento dell’altra parte che a condizione di andare fino in fondo alla comprensione, dovendo quest’ultima fondarsi su un riconoscimento di finalità umane al di là dei mezzi della civiltà industriale. Questo non significa passività, ma pazienza nei confronti delle forze politiche che le necessità interne del loro movimento oppongono alla libertà di questa comprensione.

Mi si chiede cosa io pensi delle possibilità degli uomini di cultura” in Francia. Dal mio punto di vista, non mi resta da dire che li percepisco, sul piano della ricerca del fine, divisi come lo sono altrove. Indubbiamente la ricerca dei mezzi di sostentamento alla base della ricchezza materiale li divide ancor più. La distribuzione delle risorse decide le più o meno maggiori avversità tra i popoli. Rimane da dire solamente  che il fatto di essere un uomo di cultura” significa una qualsivoglia consapevolezza del fine che avvicina, al di là dei mezzi che dividono.

A questo proposito la cultura in Francia ha due aspetti. L’aspetto tradizionale è lo stesso che altrove. Ma il solo di cui parlerò, l’aspetto moderno e singolare che è emerso, in modo vistoso, e  che indubbiamente non smette di emergere, soprattutto in prossimità del/span> surrealismo. Questo aspetto è la sovversione. Credo che, per la sua parte vivace, l’attuale sviluppo della cultura in Francia è dominato dallo spirito di sovversione. Indubbiamente cgli spiriti sovversivi nella intolleranza dello stato di cose stabilito poterono trovarsi in accordo con la sovversione politica, e in tal modo allontanarsi dalla ricerca di fini. Che il surrealismo, per primo, abbia posto come principio la necessità di innazitutto eliminare, attraverso la rivoluzione, la divisione degli uomini in classi comunque non significa indifferenza al problema del fine. Il fine dell’ uomo, per il surrealismo, si dà nella poesia.

Si può perfino dire che l’interesse fondamentale è all’origine delle incomprensioni e difficoltà essenziali che opposero i surrealisti  ai marxisti (lo stalinismo non è l’unica spiegazione). Vero è che l’esempio del surrealismo mostra piuttosto la possibilità di molteplici disaccordi a partire dalla sovversione. Credo che questo sia un rischio superficiale, piuttosto direi  che solo la sovversione possieda per natura la capacità di aprire all’estremo la soluzione di tali disaccordi. Soltanto la sovversione   alla cultura il senso di un accordo dell’uomo con sé stesso. L’articolo che avete accettato di pubblicare mi sembra a questo proposito sovversivo, se non sensibilmente, essenzialmente : essendo il fine dell’uomo dato solo attraverso una sovversione, un rovesciamento dei valori. Non è inutile sottolineare qui tale paradosso che,  a scapito di un carattere conciliante, io stesso sono stato considerato in Francia come uno spirito sovversivo, uno dei più sovversivi, mi è stato detto talvolta!

Infine, vorrei sottolineare il fatto che, dal punto di vista dell’ eversione, il surrealismo in Francia non è un sintomo isolato ; gli scrittori più significativi, che siano passati o meno dal surrealismo“, sono stati agli inizi e indubbiamente ancora degli spiriti sovversivi. Ho implicitamente tirato in causa Breton. Nominerò Blanchot, Malraux, Char, Michaux, Leiris, Queneau, Genet (non ne citerò altri per non creare ancor più confusione). Non ne voglio trarre conclusioni affrettate, ma tale fatto,  trascurato o ignorato, mi sembra soltanto  giustificare  l’interesse che suscita lo sviluppo della cultura in Francia. Sul piano culturale, la Francia è oggi il paese della sovversione. Ora, la comprensione di cui parlo, se matura, richiede un rovesciamento. Faccio a meno, se posso, di lasciare intravedere questo nei miei scritti. Però credo che, senza un movimento violento, tradotto nella coerenza calma del linguaggio, la cultura non possa essere il fine che esige il rigore dell’ essere, ma un chiacchiericcio impotente che goda della propria impotenza.

Sento fin troppo bene quanto tale visione abbia di paradossale e insoddisfacente. Ma delle due cose l’una, se si vuole, è possibile almeno seguirmi nel presentire la necessità della questione. Se non ci si attenesse? Non ho mai trovato l’occasione di instradare quanti vogliono evitare il problema delle finalità. La cultura, a mio parere, spesso porta a fraintendimenti di ciò che essa stessa è, ma ancora più contraria alla cultura, di peggio non c’è forse l’impazienza?

 

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017