Se me li sono persi: “Invisibile pittura”
di Eugenio Lucrezi
CORRADO COSTA, Invisibile pittura, Magma, Roma, 1973
Potremmo dire, parafrasando l’autocommento alla Storia della sarta che apre l’ “Indice ragionato” de L’invisibile pittura, che se in questa seconda metà del secolo fosse esistita la scrittura, noi avremmo certamente incontrato i Grandissimi Scrittori, e Corrado Costa tra loro. Poiché sono esistiti soltanto «arte e artifici, gruppi e divisioni, dichiarazioni e silenzi, controdichiarazioni e contraddizioni, cocktail e cocktailizzazioni, quote e quotazioni, etc. etc.», quelli che abbiamo incontrato, quelli che sarebbero stati grandissimi scrittori, erano gente in fuga, che viveva di nascosto. Come Costa, che ha «sprecato il suo tempo migliore parlando a vanvera e a casaccio di storie che stavano di qua o di là, al di sopra o al di sotto» delle Storie con la S maiuscola.
«Venire via dall’arte» è una grandissima fatica. Ma è ancora un’arte (l’ “arte del fiato perso” di Celati?), se vogliamo un’arte sacrificale, che si nutre della consapevolezza «che l’opera ha raggiunto dimensioni tali che non si vede più», e che «bisogna cancellare attentamente i confini che distinguono l’opera dal mondo che rimane».
Cosa fa dunque uno scrittore in un tempo in cui le ragioni del non scrivere gli appaiono preponderanti? Costa non sceglie il silenzio, la più assertiva delle locuzioni: semplicemente, parla d’altro. E se il suo romanzo è un vuoto, si mette a parlare «di tutto ciò che si può dire attorno a un testo di non-scrittura, ovviamente non scritto».
Invisibile pittura parla di tutto questo. Libro incongruo, incongruamente inserito in una collana di critica d’arte, alterna parole e immagini, inizi e ritorni. Le storie accennate subito si dirigono altrove, verso piani di racconto sotterranei alla pagina, o inesplicabilmente sospesi su di essa. Lo aprono e lo chiudono due storie: la Storia della sarta e la Storia di una storia non scritta, distanti ma legate dallo stesso destino-destinazione, il racconto della inconoscibilità delle storie. La sarta che alla fine della sua storia prende a leggere il ritaglio di giornale, e non capisce cosa sta leggendo, dice che ogni storia scritta non ha significato, perché il senso è fuori, nella pagina dalla quale il ritaglio è stato estrapolato (dice pure che non si sta parlando di letteratura, ché a questa il senso delle parole iscritte all’interno del perimetro del ritaglio basta sempre). Ma il (non) racconto va oltre: dice l’insensatezza smettendo di rappresentarla e trasformandosi nella materia ritagliata del suo corpo: nelle ultime pagine la Storia della sarta smotta, letteralmente precipita nei ritagli stessi, e in quelle figure sbilenche comincia davvero ad esistere.
Nella Storia di una storia non scritta l’abbandono del racconto è altrettanto radicale, ma si muove, per completezza ricognitiva e per compensazione spaziale, con moto ascensionale. L’espressione si fa inconoscibile per sublimazione, per abbandono del corpo, e l’apodissi risplende nella sottrazione, resiste beffarda all’interpretazione. Nelle parole della chiusa: «Il sedente sul trono disse: Ecco, io faccio muovere tutte le cose» il passo dell’Apocalisse si riferisce alla visione di Gerusalemme; ma il “sedente sul trono” potrebbe essere non Dio, ma, ironicamente, l’Uomo, il manipolatore di tutte le cose, colui contro il quale opera, nel segreto delle tenebre, il maestro della non-scultura.
Parlando della inconoscibilità del racconto, Costa incontra le coordinate tradizionali di questo: la fabula e l’intreccio. Ambedue compaiono fugacemente nelle pagine – fanno le comparse − e subito vengono dislocate, messe al margine di qualche altra cosa. La sua (non) narrazione sembra chiedersi: chi sta dentro? chi sta fuori? e intanto si sposta lungo il confine instabile e tremolante tra mondo e scrittura (la sarta e la sua stanza sono allegoria dell’ordine della forma attaccato dai ritagli sbilenchi della carta straccia, carta reale. Oppure, al contrario: i ritagli di carta attaccano con la loro costituzione formale, scritta, il luogo chiuso e ordinato della esistenza laboriosa della sarta, chiuso alle perversioni e agli eccessi di luce del dire. Mentre il buio della stanza rappresenta l’opacità del vissuto che resiste al racconto, e il viso della sarta, oscurato da quel buio, è misterioso, indicibile) (dell’incerto destino di cui dicevo testimonia d’altronde il paronomasico bisticcio tra le due parole sarta e carta).
Su questa linea malsicura molte cose possono cessare di accadere, e senza un briciolo di rimpianto. Altre, con un pizzico di felicità, possono accadere: «Il maestro, la ragazza e il ragazzo vagano per la campagna, restituiscono le pietre ai greti, il legno al bosco etc.».
ha trovato subito la via d’uscita forse(parafrasando “ALL ALONG THE WATCHTOWER”); e probabilmente vale per la sua opera proprio quanto la Stein diceva di Picasso, e cioè che era possibile comprendere i suoi quadri soltanto ponendosi ad una certa altezza. In un contesto storico in cui invece hanno buttato alle ortiche l’asticella e lo spirito critico in pasto alle tigri, Costa è da rivalutare
https://www.youtube.com/watch?v=BqUkQXJKwbQ
Ci siamo dimenticati, Andrea o io, di indicare la provenienza dello scritto, che comparve in Altri termini, n°3, IV serie, maggio-agosto 1991. Nel presentare la rubrica un paio di mesi fa, Andrea precisava che si trattava di scritti inattuali su libri imperdibili. Questo libro, oltre che imperdibile, era introvabile anche quando lo scrissi, e Franco Cavallo me ne diede, allora, una fotocopia. Per fortuna i libri importanti sono attivi anche dopo essersi sbriciolati: io trovai traccia indubbia di questo Costa in un libro di molto posteriore di Dario Giugliano, del quale verrò a dare testimonianza.
Caro Eugenio,
ho ritrovato Corrado Costa ‘in persona’ tra queste righe. Nel mio ricordo Corrado è proprio questo racconto infinito e ‘festoso’: a cena, a Parma o Reggio, dopo molte grappe, il processo di Galilei che lui studiava da avvocato e da amante dell’assurdo… Si, più che temi e contenuti quello che mi resta è il ‘divergere’ continuo della festa.
Ho visto i suoi quadri in una mostra a lui dedicata un pò di anni fa: c’è lo spirito dell’invisibile pittura. E’ un modo di essere: considerare l’arte una pratica di vita, un modo di fare, uno stile concreto che non vuole arrivare ad un ‘risultato‘.. Ricordo che si stava insieme con vivo piacere e, come mi segnalava una volta Giulia Niccolai, non ci si leggeva subito: prima di ogni altra cosa ci si annusava come persona, si provava a stabilire di che pasta si era … Poi veniva il tempo della lettura e della discussione letteraria. Questo il clima di chi ‘viveva nascosto’… Grazie per aver fatto nuovamente circolare queste cose…
Chi ha fatto circolare nuovamente queste cose sei tu, che hai ripubblicato costa nel 2006. Per chi volesse leggere il poeta: in http://www.cepollaro.it si trova Poesia italiana, collane di inediti e ristampe, Biagio Cepollaro E-dizioni; e nella collana Ristampe si trova lo PSEUDOBAUDELAIRE di Costa, ripubblicato appunto nel 2006, e uscito la prima volta nel 1964.
Meno male che ci sono questi articoli capaci di farti rincontrare e rileggere autori e testi che altrimenti si temerebbero perduti. Costa ha il destino degli Antonio Barolini, Stalio Mattioni, dello stesso D’Arrigo recuperato fortunosamente su di una bancarelle. Ottima rilettura, grazie Eugenio.