Il caso Bilbolbul ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana
di Igiaba Scego
Tette rosa, orecchie rosa, boccuccia rosa, unghiette rosa, panno rosa. Il resto nero come la pece. Il bambino, un bambino africano, si sta tenendo in equilibro su una gamba sola. Sta giocando forse o forse no. Chi può dirlo? A guardare il disegno -perchè di disegno si tratta- sembra anche un po’ stralunato. Si intravede un occhio spalancato, impaurito, un po’ vacuo. Ha paura di cadere? Di essere visto? Di cosa ha paura il bambino? In testa tiene sospesa della geometria assortita, una sfera e tre parallelepipedi sottili, tutti di diverso colore. Il bambino, a parte il panno rosa già citato, è nudo. Questo è bene sottolinearlo. Tutto in lui è selvaggio, trasandato, non civilizzato. Guardo la pagina nella sua interezza è noto che le ripetizioni di nero, giallo e rosa sono dappertutto. Provo un certo fastidio a guardare questa immagine. Non ci posso fare niente, ma qualcosa mi preme all’imboccatura dello stomaco. E quel qualcosa, lo so bene per esperienza, non è foriero di niente di piacevole. Mi fa male, accidenti! Sto incassando la solita botta, il solito pugno malefico, sempre lì nello stesso punto, sempre lì dove fa male da morire. Succede sempre così quando vengo investita da uno stereotipo. E quasi peggio del razzismo urlato in piena faccia, quasi peggio di quando alle elementari mi chiamavano “Kunta Kinte, sporca negra”. Ad un insulto razzista di quelli beceri so rispondere per le rime, è quasi più facile. Ma gli stereotipi, le parole sussurrate, quei non detti che ti inferiorizzano ecco quelli sono bocconi amari da mandare giù.
Ma lo devo proprio mandare giù questo boccone?
Riguardo la pagina. Bilbolbul VII edizione, ecco cosa c’è scritto. Ma si? Ora capisco! Stanno pubblicizzando la nuova edizione del festival internazionale di fumetto che si tiene a Bologna a fine Novembre. Un bel festival! Insieme a quello di Lucca uno dei migliori della penisola. Da lì ci sono passati tutti i “mejo” fumettisti italiani, da gipi a zero calcare per interderci. Pesi massimi insomma. E poi sono state tante le attività antirazziste che il festival ha organizzato nel corso degli anni. Sono gente attiva, in gamba. A pensarci però è proprio questo a farmi male di più ovvero che gente attiva, in gamba, non si è ancora posta il problema di mettere in discussione il nome (e l’iconografia) della loro manifestazione. Mi fa male sapere che gente in gamba nel 2014 riproponga un Bilbolbul nero, selvaggio, coloniale come se niente fosse.
Occorre fare un passo indietro però. Va spiegato ai più, a chi non la sa, chi è Bilbolbul.
Bilbolbul viene considerato il primo fumetto italiano. Comparve per la prima volta sul Corriere dei Piccoli il 27 Dicembre 1908 a firma di Attilio Mussino. Il fumetto rappresentava un bambino africano un po’ tonto che viveva letteralmente le metafore e i proverbi che incrociava nel suo cammino. Ed ecco che nel corso delle sue avventure si allungava, si accorciava, andava in pezzi, si rincollava e soprattutto cambiava spesso colore. Poteva diventare verde dalla rabbia, rosso di vergogna e così via. Quando tornava nero naturalmente rientrava nel suo stato di bambino tonto e ingenuo delle colonie. Le avventure di Bilbolbul erano ambientate in Africa. Ma non l’Africa reale, ma una sorta di giungla fiabesca ed arretrata dove tutto poteva succedere. Una terra piena di pericoli e magie che andava presto ricollocata nei binari della civilizzazione. Il personaggio era un perfetto figlio nella sua epoca storica. Bilbolbul era di fatto un sudditto coloniale, il “negretto” di Giolitti e per relazionarsi con lui si doveva usare una certa dose di pazienza e paternalismo, un po’ come gli ufficiali trattavano le truppe coloniali, gli ascari, con paternalismo e una buona (anzi cattiva) dose di frustrate. Bilbolbul era più una bestiolina che una persona. Una scimmietta mangiabanane che faceva le smorfie e faceva divertire i padroni bianchi. Ed anche il suo farsi metafora di fatto era un aderire completamente al volere di un sistema colonialista chiuso ad ogni speranza. Oltre al contenuto quello che colpì al suo apparire fu anche la forma del fumetto. Molti esperti ancora oggi sottolineano l’estro grafico di Mussino e la buona caratura stilistica del fumetto. Mussino era anche un pittore e la sua tecnica ha regalato una certa corposità a Bilbolbul. Era di fatto qualcosa che non si era visto prima. Per quei tempi il lavoro di Mussino era davvero all’avanguardia, stilisticamente parlando. Non è un caso che i bambini si affezionarono da subito a quella sagoma nera un po’ bizzarra, a quel simpatico “negrettino” al quale spuntavano letteralmente le ali ai piedi ogni volta che aveva fretta e la lingua era tutta a penzoloni ad ogni corsa fatta. Era un nero addomesticabile Bilbolbul, faceva di fatto abituare i bambini italiani (purtroppo aggiungerei) ad essere “razza” civilizzatrice. Bastava solo il fatto che i piccoli lettori di Bilbolbul erano tutti vestiti a puntino, mentre lui il povero africanino si aggirava per la foresta quasi come mamma l’aveva fatto. Certo non si era ancora arrivati agli eccessi del fascismo e ai racconti bellici dall’Africa Orientale, ma il personaggio di Mussino di fatto è stato (volente o nolente) una tappa preparatoria a quello sfacelo di razzismo e vanità imperiale voluta in seguito da Benito Mussolini.
Purtroppo Bilbolbul non era un eccezione in quei primi anni del Novecento. Nel Fumetto imperversava il colonialismo. Basti ricordare Nemo di Winsor McCay con il suo fantasmagorico regno di Slumberland o i Katzenjammer Kids, in Italia conosciuti come Bibì e Bibò, che erano di fatto una famiglia tedesca in una remota (e non precisata) colonia d’oltremare. Il tema si ritrovava pure nelle pubblicità, nei modi di dire, nelle canzonette. Ed ecco che lavare il nero era uno tra i leit motiv più usati per reclamizzare i saponi detergenti.
Questo succedeva nei primi anni del ‘900 quando Bilbolbul era nato. Ma oggi?
Perchè io figlia di migranti, afrodiscendente, afroitaliana apro una rivista nel 2014 e mi tocca vedere lo stesso Bilbolbul stereotipato? Sembra non essere passato nemmeno un minuto da quel 27 Dicembre 1908 quando il Corriere dei Piccoli presentava ai suoi lettori la creatura di Mussino. É sano questo? Normale?
Guardo le tette rosa del Bilbolbul del 2014 e comincio ad odiarle. Ma arrabbiarsi non serve. Dobbiamo usare tutti la testa. Tentare di trovare un sentiero condiviso. Ma quale?
Vorrei tanto che un festival di fumetto, un festival di pregio come questo, si mettesse in discussione.
Perchè in Italia serve come il pane mettersi in discussione. Spesso ci capita di arrabbiarci davanti al razzismo manifesto di certi esponenti politici. Parole amare, parole avvelenate traboccano dai nostri Tg o dai talk show. Il razzismo è stato sdoganato purtroppo. Ma è solo il razzista dichiarato il nostro problema? Spesso l’antirazzismo italiano gioca di rimessa. È un antirazzismo che risponde agli stimoli xenofobi, ma non sa più dettare l’agenda. È paradossale la situazione che stiamo vivendo. Si reagisce (ad una barzelletta, ad una dichiarazione, ad un pestaggio), ma spesso non si agisce in maniera preventiva sulle cause del razzismo che ci avvolge. Non riflettiamo più. Siamo in difesa, sempre in trincea, sempre a rispondere e mai a domandare. Ed ecco che esponenti politici di partiti apertamente e dichiaratamente xenofobi usano il razzismo perché hanno capito che da visibilità e voti nelle urne. E perchè sanno che sono soli in campo, sono loro a creare le azioni, nessuno li contrasta, nessuno. Per usare un’altra metafora calcistica possiamo dire che l’antirazzismo fa catenaccio stretto, mentre il razzismo sfodera una massa incalcolabile di centravanti. Ed ecco che si sollecita la pancia degli italiani. Si gioca molto sulle paure. La paura di perdere il lavoro, di perdere la fecondità, di perdere la salute, di perdere il benessere. La paura regna sovrana e si alimenta di stereotipi. L’altro quindi è sempre il poveraccio, l’untore di ebola, quello che stupra, l’ingenuotto mangio a sbafo, la prostituta. L’altro non è mai persona. L’altro è solo una cosa, un oggetto, un qualcosa di molesto che va eliminato, un essere inferiore ed inferiorizzato. Il razzismo di oggi si nutre di fatto degli stereotipi e dei meccanismo creati durante il colonialismo. E li trovi dappertutto in un articolo di giornale, in una fiction della televisione, in un dibattito politico, in parola pronunciata con noncuranza da uno speaker radiofonico.
Ed ecco che la paura si alimenta di immagini antiche, sepolte nel profondo di un io in cui purtroppo il colonialismo e il suo sistema di potere (che divide il mondo in in inferiore e superiore) sono vivi.
Quindi cercare di problematizzare il nome (e l’iconografia) di un festival di fumetti non è questione di lana caprina, ma un esempio di quello che per me significa di fatto decolonizzare. Penso a quanti adolescentu, per fare un esempio, saranno esposti al moderno Bilbolbul nero pece, quanti penseranno nel fondo del loro cuore che in fondo in Africa sono così, sono un po’ selvaggi, un po’ bambini. E il passo è breve tra questo pensiero e picchiare una ragazza nera sull’autobus accusandola di portare l’ebola in Italia.
Non voglio accusare il festival di fumetto per carità. Ma la mia idea è quella di instillare il dubbio, aprire un dibattito.
Di Bilbolbul ne ho parlato tante volte anche con Viviana Gravano e Giulia Grechi. Queste due donne straordinarie hanno messo in piedi una grande avventura che spero possa avere successo. Io e molti altri abbiamo aderito con entusiasmo. L’idea di Viviana e Giulia è molto semplice, Loro vogliono creare una sorta di archivio del colonialismo italiano, un archivio sociale, fatto da tutti noi. Vogliono raccogliere oggetti, fotografie, francobolli, bambole, manifesti per creare una sorta di banca dati della memoria. Ogni persona che vorrà dare il suo materiale lo darà solo in prestito, l’archivio lo catalogherà, lo restituirà e lo metterà a disposizione online per ricerche accademiche e artistiche. L’idea poi è quella di superare il contenitore di memorie, ma creare una piattaforma aperta e un dispositivo vivo, in stretto contatto con il tessuto sociale. Il primo step [dopo la campagna di crowdfunding che sta continuando in questi giorni e del quale si può prendere visione su questo sito https://www.indiegogo.com/projects/immaginari-postcoloniali-postcolonial-visions] prevede un convegno di due giorni -27, 28 Novembre, casa della memoria, a Roma- dal titolo Presente Imperfetto. Le organizzatrici del convegno, che avrà un’impronta decisamente non accademica, hanno chiesto ai relatori di preparare gli interventi a partire da un oggetto/documento del periodo coloniale italiano, che verrà portato e mostrato al pubblico. Io sarò una delle relatrici. Ho deciso che porterò tra i vari oggetti anche due immagini di Bilbolbul. Una dei primi anni del ‘900 del XX secolo e l’altra il manifesto dell’edizione 2014 del festival che si terrà a Bologna dal 20 al 23 Novembre. Perché serve problematizzare anche quello che spesso diamo per scontato. Spero di cuore che qualche organizzatore del festival bolognese possa venire a Roma e discutere con tutti noi un modo di decolonizzare non solo Bilbolbul, ma anche l’intera Italia. Meritiamo un paese senza più stereotipi razzisti. Ora la strada è lunga, ma accidenti dobbiamo farcela.
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Ho letto e amato Bilbolbul da bambina: una strip che anche oggi che sono adulta, non definirei razzista e uno dei più grandi illustratori italiani. L’iconografia è da contestualizzare nel tempo in cui Attilio Mussino ha vissuto e disegnato, ovvero tra gli anni Venti e Quaranta. C’era un’altra strip americana di cui ero fanatica da piccola, Yellow Kid: un bambino di marcate caratteristiche cinesi, con una vestina gialla e un inglese sgrammaticato in una Little Italy di inizio secolo scorso, con bambini immigrati di origine italiana e non, sporchi e cenciosi, stereotipati forse, ma era il 1910!! In mezzo c’è un secolo di storia!!!! Nel senso: ma tra tanti pugni nello stomaco razzisti e assai più concreti, proprio del disegno della Sarah Mazzetti, ci dobbiamo indignare? Ma davvero???? E comunque Bilbolbul non era grullo per niente, anzi era un bambino molto sveglio. O almeno sembrava un figo, a me, bambina di 8 anni. La lettura è forzata, e invito tutti a leggere il fumetto, prima di indignarsi. A 10 anni chiamai il mio gatto Yellow Kid, spero che la comunità cinese non se ne abbia a male.
Concordo con Lucia, Bilbolbul nn era un idiota, ma uno stralunato e il suo essere stralunato era premiato da accadimenti prodigiosi, ovvero le metafore si avveravano così come le rime erano vere, lo trovo magnifico. Non entro nella vicenda personale di Igiaba, di essere irritata dalla scelta operata da un festival internazionale a chiamarsi e mostrarsi con il primo fumetto italiano, perchè mi pare ricada in una vicenda personale, per come è descritta da Igiaba, ma nn può essere giudicata in questo senso, Bilbolbul deve celebrare e festeggiare il fumetto, e questo lo fa.Con questo nn intendo certo sottovalutare il razzismo e relegarlo a episodi larghi, trovo giusto e azzeccato l’idea dell’archivio sull’Italia coloniale e il racconto di questa, e trovo meritevole il lavoro incredibile di Bilbolbul festival pieno di spunti vivaci. In definitiva L’Archivio e Bilbolbul, mi sembrano splendidi esempi di narrazione e integrazione…Buona fortuna a entrambi
Alle scuole medie la mia parola magica era “Balumba!” E non sapevo cosa volesse dire, mitizzavo un Africa fiabesca e non mi pare d’esser mai stato razzista. Ero solo il fratello minore dei cresciuti negli anni Sessanta e Settanta.
Sono il solo a trovare paradossale il fare le pulci a presunti stereotipi razzisti sotto una testata che identifica la nazione indiana con un Kokopelli animato male cui è stata disegnata una faccia?
trovo questa pagina semplicemente imbarazzante
la sua sostanziale pochezza analitica e argomentativa fa letteralmente a pugni con la sensibilità e l’intelligenza critica che ho avuto spesso modo di apprezzare negli scritti dell’autrice
lc
effeff
“il giorno oggi ha l’abitudine di scappare dal calendario, ma torna ogni quattro anni. E’ il giorno più strano dell’anno. Ma questo giorno non ebbe nulla di strano a Hollywood, nel 1940. Con assoluta normalità, il 29 febbraio Hollywood concesse quasi tutti i suoi premi, otto oscar, a Via col vento, che era un lungo sospiro di nostalgia per i bei tempi della schiavitù perduta. E così Hollywood confermò le sue abitudini. Venticinque anni prima, il suo primo grande successo, la nascita di una nazione, era stato un inno di lode al Ku Kux Klan”
I figli dei giorni
Di Eduardo Galeano
https://www.youtube.com/watch?v=T7W65CZWx3c
Scego ci sta chiedendo di riconsiderare il rapporto tra razzismo e eredità culturale italiana, di problematizzare certe rappresentazioni, anche quelle della cultura di massa, per diventare più consapevoli di come l’immaginario simbolico poi possa effettivamente avere conseguenze sulle relazioni sociali. Mi pare una proposta da prendere sul serio.
L’Italia soffre di razzismo, non è un mistero, ed è non solo legittimo, ma anche necessario chiedersi perché, e come affrontarne le questioni. Non è un mistero neanche che in nome del suprematismo razzista italiano si siano sterminate migliaia di persone, sul suolo europeo e su quello africano. Questo è avvenuto, ha lasciato delle tracce, non può essere negato, va testimoniato, storicizzato e integrato con le visioni di oggi. Il fatto che non sia ‘passato’, ma sia invece un trauma ben presente, è testimoniato dalla forza con cui ci si impegna a negare che abbia un qualche effetto sulla sensibilità e sull’immaginario.
Non è stato Bilbolbul a invadere l’Etiopia, certo, ed è anche possibile che la creatività che animava il fumetto fosse superiore ai suoi immediati rimandi denigratori, in modo tale che oggi possiamo riceverne la valenza artistica (come possiamo leggere, che so, Kipling pur consapevoli – spero – dei limiti del suo esotismo razzista). Ma prendere tutto ‘per buono’, come se nulla fosse accaduto, come se quel fumetto non fosse nato in un’epoca di imperialismo razzista che ha scatenato mostri, senza minimamente interrogare e problematizzare quell’artefatto, senza mettere in questione quel periodo oltremodo buio della nostra storia, sembra anche a me, francamente, sbagliato.
Grazie, dunque, per aver parlato del progetto di Viviana Gravano e Giulia Grechi.
Mi è sparito un lungo commento… aargh
Mi riassumo. Brava Igiaba Scego, la questione della decolonizzazione dell’immaginario è questione importante, tanto più importante per gli anti-razzisti che non vogliono, come dici tu, solo agire di rimessa, ma intervenire sulle rappresentioni e sugli stereotipi collettivi. I due primi commenti, che non mi sogno certo di considerare razzisti, dimostrano appunto l’importanza di uscire da una concezione ingenua del nostro passato e dell’immaginario che si è sedimentato in esso. Trovo poi esemplare nel commento di Stefania l’argomento per cui tutto ciò sarebbe frutto di un problema personale, indebitamente generalizzato. E’ il classico argomento, che noi uomini per primi utilizziamo quando le donne sollevano un problema di discriminazione: ma cara, non puoi generalizzare, guarda non è perchè sei donna, qui è una situazione del tutto particolare…
Più in generale, in questi commenti, come in altri dentro contesti diversi e discussione diverse, ritrovo un’identica situazione: l’ideologia, come concetto e come fattore che agisce sulle nostre vite, sembra sparita, è diventata trasparente, per cui non ha proprio senso interrogarsi sul grado di ideologia (qualsiasi ideologia) di cui un’opera, un’immagine, un racconto possa essere impregnato. Che la gente che abbraccia una visione di destra dimentichi premurosamente l’ideologia, va da sè, è la prima delle mosse che gli spetta, ma che persone che in qualche modo rivendicano una visione di sinistra – ossia di critica e di trasformazione dell’esistente per abbassare il tasso evitabile di sofferenza delle persone – facciano altrettanto è piuttosto strano e scoraggiante.
Naturalmente, il percorso suggerito da Igiaba non è semplice, e suscita inevitabilmente malintesi e difese. Nessuno pretende di darlo per scontato. D’altra parte, nel mondo accademico gli studi sull’esotismo (sui vari tipi di stereotipi culturali che le culture dominanti producono su quelle dominate, o semplicemente sconosciute)sono ormai ben radicati, e non solo nel mondo anglosassone. Sarebbe tempo, anche solo per superficiali motivi di aggiornamento culturale, di prenderne atto anche da noi.
Grazie poi della segnalazione del progetto Gravana e Grechi.
Ha detto bene l’autrice quando scrive che Bilbolbul viene considerato il “primo fumetto italiano”, peraltro di un autore superbo come Attilio Mussino che lavorò e si rese complice, lui come molti altri, del fascismo.
Proprio in quanto “primo fumetto italiano”, proprio in quanto opera di un uomo talentuosissimo a prescindere, un uomo specchio di un periodo ombroso, ambiguo ma anche culturalmente fertilissimo com’è stato il primo quarantennio del novecento italiano – Bilbolbul è stato scelto come fumetto icona del festival bolognese; festival organizzato da un’associazione culturale che da sempre si batte contro gli stereotipi, contro le facili e superificiali interpretazioni dei testi, qualsiasi essi siano questi testi.
In breve: non si può leggere “Bilbolbul” con gli occhi del 2014 proprio perché è stato creato più di cent’anni prima. E se si sospende il giudizio su questo, su com’era l’Italia cent’anni fa intendo, allora sì che il fumetto di Mussino (ma anche Little Nemo, e chissà quante altre opere concepite in altri contesti storici, politici e sociali) può essere compreso in tutta la sua eccezionale, universale e secondo me oggettiva bellezza.
Sì, ma perché dovremmo sospendere il giudizio? Perché mai non deve esserci spazio per riconoscere la “bellezza” in modo critico? Certo che dobbiamo leggere le opere nella loro epoca, ma se non le facciamo parlare con quel che siamo oggi a cosa serve leggere? Se Bilbolbul è “bello” allora tanto più fornisce una occasione buonissima per interrogarci, non per tacere.
Certo che dobbiamo leggerle anche con gli occhi della nostra epoca, ma questi occhi non devono prevalere, non devono giudicare, non devono stigmatizzare un’opera solo perché non rispecchia una visione maturata molti decenni dopo, ammesso poi sia stata maturata.
Mussino non è tanto più contemporaneo a noi di un Salgari che condiva i suoi esotici scenari di dettagli immaginifici che poco avevano a che fare con i posti reali, perché i posti reali non li aveva visitati. Salgari agiva di fantasia e la sua fantasia è giustamente celebrata dai più. Non possiamo riconoscere a Mussino la stessa ingenuità di sguardo di Salgari? Nel fruire l’indubbia e preziosa bellezza visiva del fumetto Bilbolbul, non possiamo tenere conto che l’autore ha vissuto molto prima che Martin Luther King, Nelson Mandela (per dirne alcuni) vivessero e con la loro militanza portassero all’attenzione mondiale temi che ancora non erano abbastanza maturi per scoppiare?
Possiamo considerare Bilbolbul, e anche Little Nemo che è stato citato, per quello che sono, in sè, cioè dei meravigliosi fumetti che resistono al tempo, alle ideologie, alle mode, proprio in virtù della loro bellezza?
La risposta a queste domande, dal mio punto di vista, è sì.
certo, concordo sul fatto che non bisogna essere anacronistici, e neanche, per quanto mi riguarda, drasticamente censori – io, ad esempio, leggo la poesia di T.S.Eliot, malgrado il suo deprecabile antisemitismo. però io lo so che Eliot era un conservatore dai risvolti imbarazzanti; quel che conta, dunque, così almeno credo io, è sapere e far sapere, sapere anche di quali discorsi l’opera di Mussino faceva parte, non prendere la “bellezza” come un valore trascendentale di cui non si può discutere
Ma infatti ne stiamo discutendo, ammettendo peraltro che Mussino è variamente sceso a compromessi coi regimi, e come tutti gli artisti de sempre fanno, con la sua arte ha rappresentato il suo tempo, nel suo caso anche con piglio satirico e umoristico.
Questo nessuno lo nega, lo può negare,lo negherà mai.
Ma allo stesso modo non si può negare il fatto che abbia creato il primo fumetto italiano, che questo fumetto sia notevolissimo, e che per queste ragioni venga giustamente celebrato in un festival del fumetto dal respiro internazionale.
La questione posta da Igiaba è per altro dibattuta, e sentita, anche dagli addetti ai lavori (autori di fumetti): si legga ad esempio questo – http://www.segretidipulcinella.it/sdp38/art_01.htm
Molto interessante l’articolo di Andrea Cantucci. Specie nel raccontare del recupero e della trasformazione nel tempo di alcuni personaggi in chiave emancipata e più democratica.
L’Italia soffre di razzismo, non è un mistero, ed è non solo legittimo, ma anche necessario chiedersi perché, e come affrontarne le questioni.
l’italia non soffre di razzismo, ma è incancrenita di razzismo fin nel midollo, il razzismo è una metastasi costitutiva del dna della stragrande maggioranza della popolazione
come lo si combatte, come si affronta la questione? ecco la soluzione: cambiando nome a un festival del fumetto che ha come emblema un personaggio ascrivibile a quell’immaginario…
eh sì, la politica dei piccoli passi è la strategia giusta per estirpare il morbo salvinista da questo paese… un po’ come quell’indiano d’antan che voleva sconfiggere il nano di arcore andando per bar e piazze a gridare che ce l’ha piccolo
lc
non mi pare che si parlasse di “cambiare nome”, ma prospettiva: spiegare, documentare, problematizzare le figure ricevute invece di accettarle acriticamente
A pensarci però è proprio questo a farmi male di più ovvero che gente attiva, in gamba, non si è ancora posta il problema di mettere in discussione il nome (e l’iconografia) della loro manifestazione. Mi fa male sapere che gente in gamba nel 2014 riproponga un Bilbolbul nero, selvaggio, coloniale come se niente fosse.
morresi: detto con sincera cordialità: trovo ammirevoli il suo spirito di corpo e la sua solidarietà femminile/femminista (che sta molto a cuore anche a me), ma in questo caso, vista la consistenza dell’articoletto, li ritengo entrambi sprecati, fuori luogo
saluti
lc
Lalocura, non ci capiamo: Scego invita a “decolonizzare” i modi in cui immaginiamo, proponendo di ripensare i simboli e le figure che usiamo ‘innocentemente’, il che include anche *”cercare di problematizzare* il nome (e l’iconografia) di un festival di fumetti” – questo è il nucleo della proposta. Devo spiegarle cosa significa “problematizzare”? è il contrario di trivializzare, quello che fa lei quando insinua bassamente che io sia qui per “spirito di corpo” o per “solidarietà femminile”.
Sono qui perché credo al progetto culturale proposto nelle righe qua sopra (un progetto popolare, non rivolto ad una ristretta élite, mi pare): raccogliere testimonianze, diventare più consapevoli, disinnescare (almeno un poco) le dosi di cinismo, distruttività e rassegnata accettazione delle cose-come-stanno che saturano i rapporti in questo paese.
Invece quello che disapprova lei, a parte lo stile dell’articolo di Scego, confesso di non averlo ben capito.
senta rmorresi, nel mio commento non c’era niente di triviale, cosa che invece non si può dire della sua piccata risposta
quanto al resto, io mi attengo alla lettera di quello che trovo scritto e le assicuro che non ho nessuna necessità delle sue chiose esplicative in merito a quanto leggo o a quanto *dovrei* leggere
e comunque, per quel che mi riguarda, potete benissimo commentarvi tra voi, visto che per inserirsi in una discussione, se non si parte con gli elogi di rito e non si resta quantomeno nei paraggi, si viene rimandati al ripasso dei pre-gressi e dei sotto-testi inerenti le intenzioni dell’autore
buona continu-a-zione
no, nel suo commento c’era la banalizzazione della mia posizione, che lei ha giudicato meramente corporativa, perché si meraviglia che mi sia piccata?
d’altra parte perché si picca lei, invece, se le faccio notare che quest’articolo non riguarda il “nome” di una manifestazione ma qualcosa di più complesso?
vabbè, nostre piccate a parte, penso che ci sia molto con cui misurarsi quando si apre la questione della storia del razzismo in Italia – non mi pare male lasciarla aperta e farvi circolare molta, molta riflessione
La contestualizzazione e` pericolosa. Potrebbe trovare giustificazioni a qualsiasi porcheria.
Potrebbe… Per evitarlo occorre sia accompagnata dalle opportune spiegazioni e seguita da giudizi espliciti.
Concordo con Raos, subito oltre: Il manifesto è davvero brutto!
Il non piccolo problema di quel manifesto è che è davvero orrendo. Non rende nulla dell’eleganza e della bellezza del povero Bilbolbul originale, che è pur sempre una delle pietre miliari del fumetto mondiale e che, inoltre, per essere giudicato va guardato insieme ai testi in rima che lo accompagnano, e che straniano ulteriormente rispetto a ogni razzismo “letterale”. In quegli anni e nei successivi è girato di molto peggio, purtroppo (certe cose di Tintin gelano il sangue, come ben sappiamo).
Penso sia anche per via di questa bruttezza che – sono d’accordo con Igiaba – l’effetto è a dir poco sgradevole.
A maggior ragione è doverosa ogni azione di contestualizzazione – educazione all’immagine e lavoro di memoria vanno insieme, credo, soprattutto in un caso del genere. E grazie per il progetto che segnali, Igiaba, sembra davvero meritorio.
A Lalo e altr*,
Non entro nel merito di come è scritto l’articolo, né del fumetto che non conosco se non per averlo googlato pochi minuti fa.
Credo che in modo abbastanza inequivocabile l’articolo di Igiaba sollevi una questione fondamentale e cioè la necessità di fare i conti con prodotti culturali che perpetuano in mille modi (creativi, talentuosi, oppure medi e mediocri, poco importa) ma soprattutto spesso inconsapevolmente tracce di un immaginario di stampo (neo)coloniale: segni, simboli, parole, suoni e icone ecc. Parlo indistintamente di letteratura e pubblicità, cinema e giornalismo.
“Decolonizzare” l’immaginario, come sembra suggerire Igiaba, credo non significhi liquidare né mettere all’indice dei prodotti culturali, ma “contestualizzarli” senza per questo ridurli al contesto. La contestualizzazione non è per forza strumento di giustificazione pericolosa, lo è solo se in nome del contesto si sospende il giudizio. Io invece credo che servano sia il contesto che il giudizio. E di nuovo, non per fare un processo a un disegnatore di fumetti di inizio Novecento, ma per connettere una storia partorita nel 1908 che racconta le allegre avventure di un bambino nero che se ne va in giro svestito, ‘stralunato’, ‘ma non grullo’ a quel “1908 in Italia”.
Così come non si tratta di processare Flaubert o Ingres per orientalismo, ma non si può negare che quella letteratura e quella pittura vengono prodotte in concomitanza con (o come dice Said sono “coestensive” a) la penetrazione coloniale europea in ‘Oriente’) e nel fare questa osservazione non vedo nessun riduzionismo spicciolo. Magari verrebbe da chiedersi, va bene, ma una volta che scopriamo che bilbolbul è figlio del suo tempo – tempo di conquista dell’Africa, di dominio e infantilizzazione coloniale di intere popolazioni, culto del primitivismo dei buoni selvaggi e violenza disumana contro i selvaggi cattivi – che ce ne facciamo? Ecco che ce ne facciamo tecnicamente non è facile a dirsi, però penso che abbia comunque senso scoprire queste connessioni. C’è una frase che Spivak usa spesso e che secondo me rende l’idea di una pista possibile, anche se può suonare – mi rendo conto– come uno slogan facile: dice che non bisogna cadere nella trappola retorica dell’excuse or accuse, ma avrebbe senso optare per abuse (abusare nel senso di destinare qualcosa a un uso diverso da quello per cui è stato pensato). Per le faccende filosofiche di cui mi occupo io non è così difficile immaginare cosa significhi operare degli usi abusivi. E lo trovo molto più sensato che prendermela con Hegel perché era razzista, o Platone perché era sessista. Rileggere un fumetto del 1908 nel 2014 può essere anche un abuso (nel senso positivo di Spivak), dipende dal livello di consapevolezza con cui lo si fa.
Un’altra cosa, ma chissà se centro il punto o non ho capito cosa intendesse dire Lalo.
Che il razzismo non sia solo questione di stereotipi, è verissimo. E per inclinazione personale e politica tendo anche a pensare che la lotta ai soli stereotipi sia un’arma spuntata e insufficiente se non si accompagna a una critica e a una prassi coerente che il razzismo lo combattono su più fronti, soprattutto su quelli materiali, ovvero dei meccanismi sociali e istituzionali che lo tengono vivo. Però è vero che l’una cosa non esclude l’altra. Cioè criticare, che so, il modo in cui tanta fotografia sulla stampa italiana restistiuisce immagini dell’Africa (questa sconosciuta….) tra estetizzazione triviale, orrorizzazione e national geographic, da un lato e, denunciare i pacchetti sicurezza, i cie, le condizioni di di vita dei lavoratori immigrati sfruttati, le stronzate della Lega e non solo, e chi più ne ha più ne metta, dall’altro, non sono cose in contraddizione tra loro.
Un’ultima cosa è la “questione personale”. argomento in effetti classico, come diceva Andrea I.. Della serie: te la prendi perché sei donna, perché sei nera. In parte sì,ovvio che le antenne sono più sensibili al razzismo quando non sei bianca, e al sessismo quando sei donna, ma questo dal mio punto di vista non scredita affatto i contenuti delle obiezioni/critiche. Se andare a rinnovare il permesso di soggiorno di mio padre in questura ogni qualche anno con tutte le amenità che ne conseguono mi dà una percezione più immediata e diretta di che significa essere extracomunitario, beh, questo non rende le mie considerazioni in materia di immigrazione meno valide perché personali, credo (“dici così solo perché sei figlia di un immigrato con un passaporto di quarto ordine..”). D’altra parte sono sempre contenta quando constato che non bisogna avere il padre extracomunitario per avere a cuore sanspapiers e conpapiers in difficoltà. Idem sugli stereotipi, per fortuna che a denunciarli spesso non sono solo gli/le interessat*. Così come, invece, a volte a riprodurli, venderli e svenderli sono proprio gli/le interessat*: non per forza un’autrice siriana (penso a Salwa al Neimi) o un’artista marocchina sono meno orientaliste di Flaubert, e così via.
Dici molte cose giuste, Jamila.
Penso anche a come a partire dal secondo dopoguerra si è, per riprendere le tue parole, “abusato” di Wagner per salvarne i lati buoni dal pantano in cui erano stati infilati.
Proprio per questo, un punto che mi interessa moltissimo del tuo commento è quello finale, sugli stereotipi riprodotti – più o meno in buona fede – dagli interessati. Un ottimo esempio di questo secondo me sono proprio gli italiani, un popolo straordinariamente bravo a orientalizzarsi da solo. C’è un collegamento diretto tra questo e il binomio diabolico “estetizzazione triviale / stronzate della Lega” di cui parli, che sarebbe fondamentale scardinare. Voglio dire che un piccolo ma significativo passo in avanti, per gli italiani, sarebbe che finalmente trovassero il modo di guardarsi in faccia senza nè esaltazioni nè vittimismi nè autoflagellazioni. Da adulti, diciamo.
ritorno sulla questione rispresa da jamila: ossia l’argomento della personalizzazione…
“Della serie: te la prendi perché sei donna, perché sei nera. In parte sì,ovvio che le antenne sono più sensibili al razzismo quando non sei bianca, e al sessismo quando sei donna, ma questo dal mio punto di vista non scredita affatto i contenuti delle obiezioni/critiche”.
Il problema di quell’argomento, a mio parere, è che esso non pretende screditare il problema generale del sessismo o del razzismo. Credo che la cosa più insopportabile per tutti quelli che subiscono discriminazione o riduzione della loro identità a stereotipo, è questa: “il razzismo (sessismo) certo che esiste, sono una persona progressista, non mi sogno di negarlo, ma caro/cara in questo caso NON si tratta di questo, hai preso fischi per fiaschi, anzi sei un po’ paranoico/a”. L’argomento più subodolo, anche quando è avanzato in buona fede, è questo: manteniamo il principio generale (siamo tutti d’accordo i problema esiste) ma inficiamo la testimonianza particolare.
Tutto questo non è venuto fuori a chiare lettere nel succinto commento citato in risposta a Igiaba, ma è argomento implicito in ogni mossa che tende a particolarizzare, a personalizzare il problema.
Quanto ai massimalisti di sinsitra (o pretesi tali), che dicono che la vera battaglia del razzismo non è questa ma un’altra, per questi signori – che per carità sono alla fine molto pochi – la vera battaglia è sempre un’altra, quella che fanno loro o che, quasi sempre, si limitano a indicare loro, e questo gli permette di dispensarsi da qualsiasi tipo di solidarietà, di sostegno a lotte che possono essere diverse nella forma ma identiche nella sostanza; probabilmente, hanno paura costoro di perdere la loro “originalità” e di confondersi con qualcosa che non è uscita dritta dalla loro sovrana individualità.
inglese, presunto intellettuale dei miei coglioni, ma tu che cazzo ne sai del massimalista di sinistra che qui ha scritto che la vera battaglia al razzismo è un’altra e non certo attaccare il manifesto di un festival del fumetto? cosa nei sai, tu, di me, di quanti lavorano quotidianamente nei centri di accoglienza, di chi si batte per la chiusura dei cie, di chi va a difendere un campo rom, di chi porta solidarietà e cure mediche ai reietti della stazione centrale, di chi rischia il posto di lavoro perché vi porta ogni giorno la carica dirompente di queste pratiche destabilizzanti dello status quo e lo fa sempre in prima persona, mettendoci faccia e corpo e vita? me lo spieghi cosa ne sai, tu? l’hai mai fatto? tu, da quel filosofuccio di quart’ordine in carriera che sei, puoi solo portare il tuo ecolalico quaquaraqua di commentini sgrammaticati in un blog, puoi solo intervenire con le chiacchiere sterili del tuo mondo di carta su situazioni che non hai mai vissuto, su realtà dalle quali ti ritrarresti inorridito se solo le sfiorassi per un attimo in prima persona: esattamente come hai fatto nel merito della macelleria di genova, sulla quale per anni hai scritto un cumulo di dotte puttanate quando poi tra quella gente massacrata non c’eri mai stato. quindi, vai a farti fottere, tu e la claque plaudente che ti circonda in attesa del tuo verbo e della tua benedizione
federico fassini
Se proprio vuoi dire cose del genere dovresti almeno firmarti con il tuo nome vero, non credi?
raos, quello è il mio nome e quella è la mia mail, puoi sempre rivolgerti alla polizia postale per verificarne l’esattezza
feder[dot]fas[at]libero[dot]it
se ti serve il mio numero di telefono, mandami una mail, ti risponderò allegando anche copia della carta d’identità e del codice fiscale
qualcuno si è sentito offeso? pensa come mi sono sentito io e qualcun altro quando abbiamo letto queste parole sprezzanti, soprattutto dopo una notte passata a cercare un rifugio asciutto per una ventina di *barboni*
*Quanto ai massimalisti di sinsitra (o pretesi tali), che dicono che la vera battaglia del razzismo non è questa ma un’altra, per questi signori – che per carità sono alla fine molto pochi – la vera battaglia è sempre un’altra, quella che fanno loro o che, quasi sempre, si limitano a indicare loro, e questo gli permette di dispensarsi da qualsiasi tipo di solidarietà, di sostegno a lotte che possono essere diverse nella forma ma identiche nella sostanza; probabilmente, hanno paura costoro di perdere la loro “originalità” e di confondersi con qualcosa che non è uscita dritta dalla loro sovrana individualità.*
Che pena che mi fai, Francesco. Va beh, affari tuoi.
Spero che la discussione qui prosegua su altri binari.
sei tu che fai pena, raos, perché stai offendendo una persona che non è in condizione di risponderti e che ha l’unico torto di essermi amico
perché non vieni a trovarci? è ospite qui a casa mia, vengo a prenderti io, se vuoi, così verifichi in loco e, se sei ancora capace di farlo, provi anche a vergognarti, ma solo un po’, per aver fatto quel nome
Fassini io di te ne so poco, esattamente quanto ne sai tu di me, dal momento che sembri conoscere la mia biografia, e di sapere cosa o che cosa non ho fatto. Ovviamente di quanto credi di conoscere non m’importa nulla. Mi conferma solo che se hai bisogno di trovarti un nemico qui, in NI, o in gente come me, accomadati. Se il tuo militare contro i centri d’accoglienza, ti fornisce una patente di superiorità rispetto a tutto il resto della società, buon per te. La maggior parte della persone che conosco, militanti e impegnate in modi diversi e in diversi fronti, non ha questo atteggiamento. Ma questo attaggiamento lo conosco bene, e l’ho visto anche da vicino. E lo ritrovo nei tuoi commenti. Per questo in genere ti ignoro, e continuerò a ignorarti.
Se invece sei tu francesco, vabbé. Sappi che a me non fai neppure pena.
siete semplicemente ridicoli e nei prossimi giorni qualcuno vi spiegherà direttamente perché
(poco fa ho riletto “la restaurazione” di moresco, adesso è tutto più chiaro. addio)
Io ritengo che le immagini vadano contestualizzate. Sarebbe grave se oggi un bambino africano venisse disegnato così. Ed è giusto che chi riprende il disegno di Mussino lo faccia con la giusta distanza critica. Nessuno si sognerebbe di epurare le opere di Shakespeare dove è presente un forte antisemitismo e il suo genio non è in discussione (però in un’opera di oggi non sarebbe ammissibile). Nessuno chiede di ridoppiare il personaggio di Mamy in “Via col vento” (ma mi auguro che a nessuno venga in mente di fare oggi un film con un personaggio che parla così). Persino Calimero (delizioso) la cui mamma lo lava per farlo diventare bianco non può più essere ammesso senza una presa di posizione critica. Va anche detto che a volte a noi i problemi non sembrano tali perché non ci toccano. Mi spiego: l’altro giorno discutevo con una persona di famiglie gay e questa mi diceva che per lei era una scemenza mettere “genitore 1” e 2 nei moduli scolastici perché “mamma” e “papà” sono bellissimi e vanno bene così. Le ho fatto notare che per lei vanno bene così, perché è sposata con un uomo ma la sua famiglia fosse diverso magari non essere riconosciuta dal discorso non le farebbe piacere. Allo stesso modo, anche Calimero è innocente, ma prova tu a essere un bambino africano che si identifica con il pulcino nero e scopre che per essere accettabile deve essere sbiancato. Quello che voglio dire è che prima di sentenziare “Ma non è offensivo”, bisogna mettersi nei panni dell’altro. Ciò detto, non sono per cancellare il passato ma per sottoporlo a revisione critica.
Condivido e aggiungo che il punto non è il fumetto originale Bilbolbul, che ha un contesto storico e culturale molto evidente (qui una immagine da wikipedia, ), quanto il poster del programma, di cui non trovo l’autore, che è brutto e infelice perché prova ad aggiornare, reinterpretare gli stereotipi senza uscirne né ripensarli criticamente (il resto del poster, leopardo colori e foresta, è nell’insieme accettabile).
Calimero è esempio lampante del problema, e le polemiche sulla genitorialità sono espressione di due atteggiamenti estremamente consolatori:
– io non sono razzista, sei tu che sei nero
– se non posso essere felice, almeno impedirò a qualcun altro di esserlo.
Nei primordi della mia frequentazione di questi luoghi ameni capitai al centro di furibonde discussioni intestine al punto che mi proposi per cercare un esorcista. Uno dei padri spirituali mi invito` a sedermi perche` questo era il mood della compagnia nonche` il suo punto di forza. A parte questo, magari potrebbe essere il caso col beneplacito degli interessati di cancellare i commenti dove sono volate parole pensate in riserva mentale e con lo spirito alterato (poi fate vobis)
http://youtu.be/Hwc0k6v-C-I
Concordo, confermo e sottoscrivo.
Visto che qui è partita la caciara, con due persone che si tirano le trecce e fra un po’ cominciano a minacciarsi di bucarsi le ruote della macchina (a parte Francesco, che da quello che emerge dai simpatici scambi di piacevolezze sembra essere un puoverettoh che vive sotto i divani di Filippo, e quindi non so se una macchina ce l’ha), io direi che è il momento di citare uno dei “mejo” fumettisti dei quali si parlava nell’articolo.
In una maniera “simpaticamente sguaiata” che tralaltro, rende abbastanza evidente il solito disinteresse e senso di superiorità che c’è di fronte al medium fumetto (devo ancor sentir parlare de “i mejo poeti/registi/scrittori/quelcheè”), nonostante poi arrivi puntuale la solita tiritera di riconoscimento del valore intellettuale e dell’importanza artistica, per pararsi il culo e suonare attenti al panorama culturale del contemporaneo.
Che io, sarò onesto, provo un certo fastidio a leggere ‘ste cose. Mi fa male accidenti!
Comunque, sottile polemica a parte, lascio la parola al buon Zerocalcare:
http://www.zerocalcare.it/2014/09/08/i-litigi-su-internet/
Rimango davvero stupita di come in Italia persone anche con un’ottima cultura, e decisamente schierate in senso antirazzista, non comprendano che proprio le immagini apparentemente innocenti, addirittura piacevoli, sono in effetti le è più pericolose. La contestualizzazione è importante ma nel senso che proprio in quegli anni, segnati da un colonialismo italiano aggressivo e violento, si definivano e disegnavano gli stereotipi che oggi, sotto nuove forme, riemergono proprio perché non abbiamo mai analizzato quelli del tempo. Non si tratta di dare un “giudizio” ma proprio di contestualizzare, cioè di capire perché in quegli anni era essenziale dare un’immagine stereotipata e sciocca degli “altri” per giustificare il dominio che andavamo imponendo su di loro. Quello che a mio modo di vedere serve oggi, non è dire “ma era carino”, o l’illustratore era bravo, ma chiedersi perché si facevano certe scelte estetiche, e etiche, e come queste riemergono oggi. Aggiungo che anche Fortunato Depero è stato un grande artista e ha fatto dipinti magnifici, ma non per questo bisogna negare che sia stato un esaltatore del fascino in molti suoi lavori. Se l’illustratore era razzista allora non vuol dire che non era bravo o interessante, ma che allora partecipava di una razzializzazione degli altri funzionale al potere coloniale, e se oggi non sappiamo rileggere questo non sapremo mai rileggere i fenomeni razzisti di cui è infarcita la pubblicità, la letteratura, il cinema italiano in maniera malcelata. Dunque invece di attaccare Igiaba difendendo un’immagine segnata da un passato coloniale, faremmo meglio a imparare tutti a decodificare le eredità rimosse del nostro colonialismo per evitare che si ripresentino oggi. Concludo dicendo che questo “buonismo” italiano viene manifestato con tanto livore solo quando si parla delle rappresentazioni degli “altri”….forse ci dobbiamo chiedere: perché?
Letto tutto.
Continuo a non capire che c’entri, nella discussione, un Fumetto come Little Nemo.
Strepitoso nel segno, avveniristico- onirico- nella Narrazione.
Ma l’avete letto o cosa?
Igiaba,
Condivido quello che hai scritto. Chi dice di non vedere il problema rifiuta, o semplicemente ignora, come la manipolazione dell’immaginario culturale attraverso la comunicazione sia necessaria per tenere aperte possibilità di gesti più tangibili, fino a raggiungere decisioni politiche (mi vengono in mente “L’Industria Culturale” di Adorno, o “Orientalismo” di Said, ma sono certo che la letteratura sull’argomento è sconfinata). Ovvero ci sarebbe meno spazio per parole, immagini e azioni se i limiti non fossero già stati abbattuti nel discorso.
Si pone però anche un’altra domanda, e mi espongo qui a mia volta al pubblico ludibrio se mi sfugge qualcosa oltremodo evidente. Che cosa rende uno stereotipo ‘razzista’? Che cosa lo distingue da un’insulto cosiddetto normale?
Il tuo post denuncia la mancata decolonizzazione della cultura italiana contemporanea, o più probabilmente una ‘colonizzazione di ritorno’. Ma mi chiedo cosa dia forza a questo tipo di costruzione e rappresentazione di un’identità, cosa la sostenga? La discriminazione si basa su una dinamica che riduce l’altro a un livello meno che pienamente umano, meno che individuo (i fascismi del ventesimo secolo hanno fatto ampio uso di questo strategemma nella comunicazione per prepare il terreno e rendere prima accettabili e poi normali la repressione e lo sterminio). Eppure perchè, per esempio, un film come Borat non non sembra esser stato ricevuto come razzista nei confronti degli Stati Uniti?
Un primo problema emerge quando si riconosce che immaginiamo il razzismo fluire in una sola direzione, dall’occidente bianco verso l’esterno, instaurando una gerachia nei confronti del resto del mondo posto alla periferia dell’occidente come centro (eurocentrismi non tanto lontani nel tempo volevano che altri paesi vivessero età storiche e umane che l’occidente aveva già attraversato). Risulta invece inconsciamente inimmaginabile essere a propria volta oggetto di discriminazione. Eppure accade. Così come accade che esistano razzismi che non passano attraverso l’occidente, ma coinvolgano direttamente altre culture.É questo il nocciolo?
La domanda che mi pongo è cosa dia all’illustrazione che tu critichi la forza –negativa- che ha. Che cosa fa sì, per esempio, che gli stereotipi sull’Italia e gli italiani che ho incontrato in più di vent’anni da emigrato non mi abbiano mai fatto sentire sminuito ma anzi mi facciano giudicare chi li pronuncia una persona ignorante delle realtà lontane dal piccolo mondo in cui vive e anche un po’ stupida (anche le metropoli globalizzate possono essere provinciali). È solo cecità dettata da presunzione? O è necessario che si sia già instaurata una disparità e un gerarchia perchè lo stereotipo e forse anche l’insulto, feriscano come tu descrivi e non siano solo segni di volgarità e ignoranza? Ovvero il razzismo comincia in momenti come questo poster, dove immagini apparentemente innocenti prendono una direzione piuttosto che un’altra? Oppure qualcosa più a monte è necessario? Se è così cosa è questa disparità? È ancora solo e semplicemente disuguaglianza economica, il potere esercitato dal capitale? O qualcos’altro?
Sono consapevole che tre paragrafi non sono sufficienti ad articolare la domanda in modo completo e probabilmente sono carichi di rischiose semplificazioni a loro volta, ma mi sembra importante aggiungere questo punto al dibattito che si sta sviluppando attorno al tuo post.
Mattia
Caro Mattia, scrivo velocemente ma ho letto il tuo come gli altri commenti con molta attenzione. Ecco, io credo che in quella tua domanda “[…]O è necessario che si sia già instaurata una disparità e un gerarchia perchè lo stereotipo e forse anche l’insulto, feriscano […]?” stia il nocciolo della questione.
E’ necessario, appunto, che vi sia qualcosa a monte.
Lo stigma opera dopo, successivamente, quando già qualcosa è stato attivato, dove già c’è un terreno pronto ad accoglierlo: ecco, là opera. C’è bisogno di quel sostrato, e che ci sia una disposizione ad accoglierlo, anche se passiva.
Esistono, va da sé, le più svariate forme di razzismo, stereotipizzazione, stigmatizzazione e discriminazione di cui nemmeno ci accorgiamo, e che continuiamo però a respirare come fumo passivo. Non credo esista una “colonizzazione di ritorno”, credo piuttosto che l’operazione, molto più sottile – e che viene fatta in tutte le zone toccate da forme di discriminazione – che si mostra nel suo rovescio possa produrre al contrario effetti ancor più stigmatizzanti. Pensiamo all’uso (perché di uso si tratta) di ragazzi portatori di handicap nelle trasmissioni televisive, del protagonista omosessuale di un reality che “deve fare l’omosessuale”, delle operazioni all’interno de centri di salute mentale, che passano dal “tutti PAZZI per il cinema” al giornalino “LiberalaMENTE” alle “BORDERbag”, borsette cucite e che richiamano il concetto di Borderline.
Ecco, la volontà sembrerebbe quella di uscire dallo stereotipo dicendo : parliamone, siamo tutti uguali, portiamo “in piazza” ciò che prima si nascondeva. L’effetto prodotto è però paradossalmente l’opposto. Idem per l’immagine ripresa da Igiaba. La domanda allora non è tanto : è un’immagine volutamente razzista? La questione è : c’è un simbolismo razzista. Esistono simboli razzisti e che continuano a tornare. Più che ri-colonizzazione, credo siano in alcuni casi operazioni non volute ma agite passivamente, senza punto interrogativo – e in altri casi, operazioni che, nel tentativo di non riprodurre lo sterotipo, rincarano la dose. Nei casi peggiori, un modo per fingere di non essere razzisti, per dirsi accoglienti quando respingenti con la paura di una possibile contaminazione.
La pillola è la stessa, cambia solo il sapore. Questo è forse tanto più pericoloso perché, appunto, “invisibilizzato”, addolcito. Qualcosa su cui sembra possibile far spallucce. Igiaba mi sembra stia dicendo : attenzione. Qui c’è qualcosa che va al di là di un’immagine. Il punto non è questo, non è una copertina di un fumetto. E’ quello che c’è prima, che continua ad esserci e ad agire – appunto – a monte.
A monte c’è la nostra autocoscienza, c’è l’io. Poi si passa al noi: famiglia, gruppo, quartiere, squadra di calcio, città, paese, società. Quando la cosa diviene sistemica, ovvero ideologica, si può parlare di razzismo, che è il nome che abbiamo dato alla discriminazione su base razziale, ma che non agisce differentemente da altri tipi di discriminazioni, che siano su base estetica (sei brutto, sei grasso) o intellettuale (sei stupido) o culturale (i romanzi di genere, i fumetti, i videogiochi). Difficilmente riusciamo a catalogare le differenze su un piano orizzontale, anche perché il nostro giudizio esiste in forma binaria: mi piace-non mi piace. Questo è universale, animale per certe specie animali.
A proposito di fumetto e di fumetti, sempre riguardo al Convegno ‘Presente Imperfetto’, proprio in queste settimane è in corso il workshop sul tema presso il Liceo Artistico di V.le Pinturicchio a Roma.
Le tavole saranno esposte in occasione dell’incontro.
Forse ti è sfuggito, un saluto.
Manuel De Carli
A Mattia,
mi permetto d’intervenire, e di fornire una mia risposta, anche se la domanda è rivolta a Igiaba, ma continuo ad essere convinto che la questione sia generale e ci coinvolga tutti.
Si realizza una sorta di gerarchia rispetto alle forme di discriminazione? Ci sono forme di discriminazione che necessitano una maggiore reazione collettiva e una maggiore solidarietà esplicita che altre? Credo che tu colga un punto fondamentale. Per me la risposta è una sola, andando per le spicce: il contesto storico. La discriminazione – anche soft, attraverso stereotipi – che tu Mattia, che vivi fuori dall’Italia, hai subito – come ho subito io – non è paragonabile a quella che hanno subito, negli anni Cinquanta o prima, le famiglie italiane che si sono stabilite in Francia, venendo da regioni povere dell’Italia. I rapporti di forza tra la comunità d’immigrati italiana di allora e la popolazione locale, non erano gli stessi che sperimenta un immigrato quale noi siamo e che, pur essendo bersaglio di stereotipi, ha individualmente un bagaglio culturale, qualifiche, esperienza professionale, e una strumentazione abbastanza ampia per inserirsi in una nazione europea che non sia la sua. La stessa immagine dell’Italia del 2014 non è quella del 1950, rispetto ancora alle sue vicine europee.
Io sono quotidianamente razzista – leggi il mio pezzo postato oggi – ogni giorno con una gran quantità di persone. Non è un vanto, è uno stato di fatto. Ma mi vergogno molto meno di avere una visione stereotipata del tipo che gira con il fuoristrada in città, anche se è un’anima progressista e umanitaria di gran lunga migliore della mia, che di avere una visione stereotipata delle donne, in un contesto lavorativo, o delle madri velate che accompagnano le loro figlie a scuola, e che incrocio accompagnando la mia.
Borat è feroce con l’America? Esagerato? Bene, l’America ha saplle grosse: ha i droni, le atomiche, Guantanamo, i fondi speculativi, il cinema, ecc.
Si può prendere in giro una persona libera di reagire e difendersi, o si può prendere in giro una persona dietro le sbarre, o mentre lui è a piedi e tu passi in macchina. Si può prendere in giro il Re, o il più vulnerabile dei sudditi. Qui non ci aiuta la morale, ma uno sguardo storico e circostanziato, che prende in esame i rapporti di subordinazione economica, culturale, politica tra i diversi soggetti in campo.
Sono poi del tutto d’accordo con Mariasole. La questione non credo sia quella di un ritorno di immaginario coloniale, ma la persistenza taciuta di elementi di quell’immaginario, che basterebbe appunto nominare a chiare lettere, per poterli alla fine relativizzare ma in modo consapevole. Così viaggiano in incognito, e se qualcuno li rileva, gli si dice “che il problema non esiste”.
Questo thread è interessantissimo, spero che Igiaba Scego e NI ne continuino la traccia, e mi permetto di aggiungere un altro commento ispirata dall’intervento di Mattia Paganelli.
Non è che la stereotipizzazione esaurisca il razzismo o viceversa. Si può usare uno stereotipo anche in modi non razzisti, come nella comicità. Oppure usarlo in modi razzisti, ma in contesti che non gli consentono di prendere forza modellizzante. Per stare all’esempio tuo, Mattia: se sei in un paese dove le pratiche discriminatorie non assumono forme sociali penalizzanti e hai un capitale simbolico da cui attingere, dello sfigato che ti dice “sporco italiano”, giustamente, te ne sbatti. In effetti le forme di razzismo si articolano in molti modi: stereotipi denigranti, sì, e poi isolamento, confusione storica, classificazioni burocratiche-amministrative, marginalizzazione sociale, politiche vessatorie, azioni di repressione, e nel mezzo un sacco di pratiche simboliche discriminanti (eccesso di invisibilità ma pure ipervisibilità, come ricordava Mariasole). Non mi pare però che questi immaginari razzisti arrivino sempre DOPO: nella diaspora africana, per es., il razzismo è stato fondante, discorso costruito attraverso secoli, prima, e poi concomitante alla schiavitù, che ha prodotto un corto circuito senza scampo molto utile a chi deteneva il potere. Per restare in Italia: per il geniale sindaco che ha suggerito la segregazione negli autobus teoria e pratica del razzismo si nutrono mutualmente che è una bellezza. E se le donne piemontesi gli chiedessero di fare autobus separati per gli uomini per evitare le molestie, lui probabilmente risponderebbe “Eh, mi dispiace per quello che succede a qualcuna, ma non possiamo mica legiferare sulla base di faccende personali”.
Quando si protesta, dunque, che in fondo “una illustrazione che male fa”, “non è mica questo il razzismo” (e, di conseguenza: se ti senti ferita è colpa tua che non capisci la “bellezza” dell’arte), si sta già in una posizione che ha deciso a priori quali sono i criteri, ha deciso che essi non possono essere attraversati e reinvestiti da discorsi di cui – a giudicare da questo thread – si sente invero l’urgenza. Invece mi pare una bella sfida per chi fa arte, e arte pop, stare nel proprio tempo e riconoscere che Bilbolbul sta nel suo, e magari trovare nuovi modi per conversare con quell’opera che non siano quelli della mera convenzione formale, che ci costringe a cuccarci tutte le tristi premesse e allusioni. Modi, insomma, che non cancellino le tracce di una distanza temporale che, per fortuna, esiste.
Dunque il razzismo si installa su dinamiche, o meglio distribuzioni, di potere già in atto. Non si tratta tanto di disprezzare il prossimo, nel senso della persona a fianco, il vicino di casa, il gruppo culturale o etnico che in un modo o nell’altro è emerso e ora è presente nella vita quotidiana. Presumo che ognuno abbia più o meno il diritto di detestare chi gli pare. No, si tratta di avere il potere, sottolineo “potere”, di mettere in atto questa differenziazione. (Mi manca qui un termine più adatto: odio è troppo forte, antipatia troppo debole; la lingua inglese in cui vivo direbbe ‘dislike’.) Cioè la facoltà di far seguire azioni a quello che altrimenti è solo una posizione soggettiva. Eppure non mi sembra possibile ridurre il problema a una questione di classe. Sembrerebbe necessaria una forma di autorappresentazione che produca un soggetto opposto a un non-soggetto. Non sarebbe possibile altrimenti commerciare in persone, producendo così la schiavitù moderna. Allo stesso tempo nemmeno questo è sufficiente a chiarire il problema. Lo schiavo dell’età classica poteva essere riscattato, mentre allo schiavo moderno, dalle colonie americane in poi, non è ancora stato concesso di affrancarsi completamente. Certo il non-soggetto si costruisce, così come il soggetto, anche attraverso pratiche come quella del poster in questione. Ma questo ci riporta al punto di partenza.
Scusate se arrivo ora e riprendo uno spunto arrivato proprio nel momento (chiamiamolo così?) dello sbrocco collettivo di questo thread interessantissimo.
Un po’ di tempo fa mi sono trovata a discutere su facebook della risposta di Balotelli seguita alla sconfitta dell’Italia nei Mondiali. In quel commento, il giocatore si ritorceva in modo aggressivo contro chi gli contestava di non essere un “vero italiano”, parlando deliberatamente di “noi negri” e sostenendo che gli africani non avrebbero mai scaricato un loro fratello. Era evidentemente la risposta a un (l’ennesimo) insulto razzista e le reazioni a quello sbotto, incluse quelle dei soliti giornali di destra, erano una valanga di merda ancora più evidentemente di quell’impronta.
Ma io mi sono sentita ripetere tantissime volte che il razzismo, per quel che concerne Balotelli, non era una categoria da scomodare. Quello era solo un giocatore deludente, tra l’altro superstrapagato, nonché un’ emerita testa di cazzo. I problemi del razzismo in Italia sono altri: i Cie, la Bossi-Fini, le campagne della Lega ecc….se aggiorniamo ai giorni nostri i pogrom alle porte di Roma.
Questo tipo di ragionamento lo ripeteva per esempio una persona con la stessa esperienza di volontariato antirazzista di Federico-LaloCura. Magari era proprio lui, non lo ricordo. E tante altre di cui non stento a credere che razziste non lo sono davvero. Ora non fatico a ammettere che le vicende di un fumetto o di un calciatore abbiano una priorià e gravità minore di episodi o circostanza sistematiche che rendono la vita un inferno per moltissime persone.
Ma quel giocatore che avrà tutti i difetti professionali e personali di questo mondo, non si era inventato né le diverse forme di insulto e dileggio razzista di cui è costantemente oggetto né la pelle scura; questo dato di fatto mi ha fatto apparire sconcertanti le risposte che ho ricevuto: come fossero spinte da un’urgenza di diniego.
Diniego che mi pareva dettato dal bisogno di non mettere in discussione la propria visione di sé come persone antirazziste che al contempo, come normali tifosi, avevano le palle girate con questo fallimentare attaccante.
Ora, a mio avviso, non sarebbe poi stato complicato dire va bene, questo mi sta sulle palle e ha giocato una merda e io per questo sono incazzato, ma anche se prende milioni, ha ragione a incazzarsi come una bestia anche se gli scrivono “tu non sei un vero italiano”.
La cosa più insidiosa – e qui esagero per farmi capire – non è che uno con i suoi amici al bar (ma non in comunicazioni scritte e pubbliche) guardando una partita possa sbroccare in un “negro di merda”, ma l’erigersi serenamente e inconsapevolmente a autorità “neutra” che decide che cos’è degno di essere stigmatizzato come forma vera di razzismo e cosa no. Perché è esattamente questo il frame mentale che, non riconoscendolo, si trascina dietro secoli di storia in cui qualcuno per il solo fatto di essere bianco o uomo o etero o cristiano deteneva (e ancora detiene) il diritto di dettare norma sul “diverso”.
Non è una cosa per cui si richieda di cospargersi di ceneri il capo e stracciarsi le vesti. Siamo impastati di secoli di cultura razzista, maschilista, omofoba ecc, anzi: come ricordavano Renata e Jamila persino alcune delle opere più belle o basilari ne sono intrise e non per questo possiamo buttarle alle ortiche. Però se lo ammettiamo, capiamo anche che questa matrice non scompare solo perché – per fortuna – sulle questioni più gravi e fondamentali parecchie persone non hanno dubbio su quali posizioni prendere e alcune si danno anche da fare per portare solidarietà e aiuto.
Si richiede solo la disponibilità di riconoscere il problema e quella di pensare che non riguardi solo degli altri ben identificabili. Perché l’immaginario è qualcosa che cambia molto lentamente, ma se si è disposti a interrogarlo, prima o poi si modifica per forza. E questa, penso, è un’aquisizione di maggiore libertà anche per chi in ne alberga qualche residuo nella propria mente.
Provo a dire qualcosa di un po’ diverso a partire dalle cose condivisibili che dici. Proprio perché è un cosiddetto frame mentale è difficile mettere in discussione se stessi, e lo vediamo bene nelle resistenze maschili a sinistra circa le questioni di genere, a volte affrontate con eccesso opposto di volontà di dimostrarsi pronti. E questo è chiaro. Così come è chiaro il problema dello stile, per dirla con Antonio Pascale, e anche qui la riflessione a sinistra è dolente, perché se è ovvio il razzismo conclamato è ugualmente un problema lo stereotipo benevolo che ad esempio dal punto di vista economico fa ugualmente grossi danni, pensiamo alle politiche di sussistenza che mi pare economisti africani hanno spesso denunciato. Però io vedo nel tuo discorso un punto che mi pare scontroso, ovvero il fatto che come è un frame mentale l’ergersi a giudici del confine razzista è ugualmente un frame mentale il razzismo stesso. Mentre mi pare che fra le obiezioni ricevute ci sia poi lo stesso problema che si chiede Igiaba. Sempre per usare una metafora calcistica la decostruzione doverosa dell’immaginario collettivo equivale un po’ al rubare palla all’avversario, ma poi ovviamente con la palla bisogna fare qualcosa. Mi pare che ci sia un po’ la credenza che il razzismo sia una questione culturale. (anche nel film Ghost World il personaggio di Thora Birch porta come tesi di fine corso un manifesto pubblicitario razzista degli anni ’50 credo USA e lo fa con l’intento di scioccare per poi far riflettere su come sia facile scandalizzarsi quando il razzismo è manifesto, ma molto difficile quando è subdolo, nascosto da un apparente benessere moderno) La paura viene alimentata dallo stereotipo ma è concreta ed esige una risposta più ampia di quella che può offrire anche il miglior lavoro culturale. Perché la cultura, in senso di produzione culturale e di condivisione di usi e costumi, è solo il mezzo attraverso il quale il razzismo agisce. Ma il razzismo non può essere estirpato in quanto frame mentale, può solo essere modellato in senso positivo.
ciao h, ho scritto il mio commentone che ero parecchio stanca, quindi magari certe cose non le ho messe a fuoco bene. Non metto in dubbio la necessità e anche la priorità di combattere il razzismo nelle sue forme più aggressive e rilevanti sotto l’aspetto politico, sociale, giuridico. Vale a dire, sono convinta che sia un problema politico e non solo “culturale”, sebbene non sia possibile tracciare una netta linea di demarcazione. Tu scrivi “La paura viene alimentata dallo stereotipo ma è concreta ed esige una risposta più ampia di quella che può offrire anche il miglior lavoro culturale. Perché la cultura, in senso di produzione culturale e di condivisione di usi e costumi, è solo il mezzo attraverso il quale il razzismo agisce.” D’accordo. Però in questo ambito i sentimenti reali incanalati, alimentati e manipolati non sono soltanto la paura, ma anche la frustrazione, il risentimento, la rabbia impotente, il desiderio di sentirsi uniti e così via. Insomma tutto ciò che rende premiante l’offerta di soggetti deboli come colpevoli di tanti problemi altrettanto reali e importanti. Di questo, come sappiamo bene, alcuni soggetti politici approfittano in maniera esplicita per aumentare il loro consenso e potere, altri cavalcano l’onda in modo più ambiguo, altri ancora si limitano a avvallare in modo possibilmente asettico e semi-invisibile politiche di contenimento come quelle di “Mare Nostrum”. Qui è evidente che la “cultura” del razzismo rappresenta una sovrastruttura di conflitti e interessi ben più concreti. Ma è proprio per combattere tutto questo che sarebbe utile cercare di essere meno impacciati da quegli aspetti che abbiamo discusso qui, aspetti che forse costituiscono principalmente dei residui culturali, anche se, a quanto pare, mettere in gioco alcune coordinate della propria autorappresentazione non sembra una rinuncia così facile. Ci sarebbe da chiedersi il perché l’identità politico-culturale sia diventata un “bene rifugio” così importante.
In sintesi: bisognerebbe fare tutte e due le cose insieme, semplicemente.
scusa, mi sa che sono stato io poco chiaro :-)
Io dicevo una cosa diversa, ovvero: il discorso di questo post sul piano culturale va benissimo, ma appunto agisce sul piano culturale, anche su forme più nascoste di razzismo inconsapevole. Ma sul piano politico non parlavo di combattere il razzismo, ma di dare risposte politiche a quelle esigenze che poi fanno da base per un razzismo più deleterio. Il problema delle periferie non è il razzismo, è il degrado. Se non si risolve il degrado è del tutto inutile lavorare sul razzismo. Se le persone si impoveriscono e cominciano a manifestare il razzismo non gli si può rispondere con le statistiche che vedono il saldo positivo economico dell’immigrazione, o con altre parole. Il che non significa abbandonare il campo culturale, anzi bene potenziarlo con un lavoro più profondo come quello proposto, ma significa prendere atto che non è così rilevante. Il razzismo non è solo un comportamento culturalmente determinato, è un meccanismo mentale che ha delle basi biologiche, così come il nostro attaccamento all’identità.
Qui, scusami, ci vai giù piatto con una sorta di darwinismo sociale che non solo è un lascito preciso del periodo coloniale, ma che proponi anche in maniera piuttosto incasinata. Perché il degrado che nomini è un problema sociale, alla cui origine poi non è tanto difficile vedere il problema economico – vuoi riguardo al semplice assetto urbano di quei quartieri, vuoi circa la condizione di vita e lavoro dei suoi abitanti. L’identità che invece nomini alla fine è invece sì un costrutto culturale persino piuttosto recente. Gli antichi romani non andarono a rubare le donne dei Sabini per rafforzare la loro identità, né l’imperialismo italiano sotto il fascismo o anche prima veniva glorificato in questi termini. Le ideologie anche neodarwiniane che sostenevano quella spinta alla conquista, o la stessa retorica dell’italianità non battevano certo in difesa (o pseudodifesa) come avviene oggi con l’idea dominante e informatrice di ogni razzismo che bisogna salvaguardare una qualche identità. Perché gli abitanti di quei quartieri degradati di Roma, quelle persone che giustamente si sentono tagliate fuori, non vanno a Montecitorio e nei paraggi a far casino?
Non capisco cosa c’entri il darwinismo sociale, che è un insieme di cattive interpretazioni di una teoria scientifica. Non credo di essere un darwinista sociale, potresti dirmi cosa te lo fa pensare? L’identità di cui parlo non è un costrutto sociale, è la ragione stessa per cui sono esistiti i romani, i fascisti, i popoli eccetera. Gli uomini si uniscono in gruppo e difendono il gruppo. Gli abitanti dei quartieri non sono organizzati e rappresentati per cui non possono che prendersela con gli elementi percepiti come estranei che li circondano. Non hanno appunto un’ideologia di riferimento, ma una naturale predisposizione alla difesa di sé e dei propri cari. Per questo un’ideologia fortemente identitaria che rafforza il sentire naturale ha facile presa.
forse ho un modo di scrivere un po’ freddo e credo scontroso.
Senza avvitamenti intellettuali e giri di parole, trovo sconcertante che Hamelin (l’associazione che ha ideato il Festival) e Sarah Mazzetti (l’illustratrice dell’immagine di BilBolBul 2014) non abbiano contribuito alla discussione sollevata da questo articolo.
1) BilBolBul 2014 esiste anche grazie al contributo dell’associazione Africa e Mediterraneo e l’Ambasciata Francese in Italia, attenta alle tematiche del post-colionale. Il concetto di “Festival Internazionale” che implicitamente richiama a uno scambio culturale, alla valorizzazione di altri segni e narrazioni non è mera retorica piglia soldi, è una buona pratica funzionale al mettersi in discussione, all’interrogarsi sugli immaginari e gli stereotipi. Se no che lo facciamo a fare di chiamare fumettisti da tutto il mondo?
2) Stiamo parlando di un Festival internazionale di Fumetto non di attrezzature per la pulizia dei pavimenti, quindi dobbiamo dare per scontato che la questione del linguaggio e del codice visivo ne sia centrale non marginale. Mai sentito parlare di direzione artistica? Il brief per l’immagine rappresentativa di BilBolBul 2014 (così come le edizioni precedenti) richiede un omaggio a BilBolBul o richiede una reinterpretazione di BilBoBul per spogliarlo dal contesto razziale? Sono due messaggi differenti. Che se ne assumessero la responsabilità, suvvia non ci si può nascondere dietro a una matita.
Mettere in discussione gli stereotipi ed eventualmente utilizzarli in modo consapevole è una pratica antirazzista molto valida. Cosa aspettiamo?
Bella discussione, grazie a tutt@! :)