La regina della neve (prima parte)

nella versione quasi fedele di Viviana Scarinci

 

Molto spesso nelle favole di Andersen, come nelle favole di molti altri narratori,  c’è qualcosa di importantissimo da recuperare. Qualcosa che forse neanche c’era stato segnalato all’inizio della storia ma che sappiamo comunque perduto e che può anche non essere evidente. Lo intuiamo, ma  non è  chiaro in che modo sia la causa di tutto. Ne Il brutto anatroccolo ad esempio ciò che il pulcino ha perso prima dell’inizio della storia è la specie cui appartiene, e noi, come lui non lo sappiamo fino alla fine, grazie alla magistrale tessitura in cui Andersen, come se fossimo quel pulcino, ci impiglia facendoci patire lo stesso smarrimento del protagonista, il quale non trova la sua identità, e insieme a quella, il suo bene,  in nessuna circostanza che il destino gli propone. Ne La regina della neve è un bambino a perdersi e non sono un papà o una mamma che lo stanno cercando ma una bambina come lui che è l’unico essere umano ad avere qualche speranza di poterlo recuperare. Nel caso de Il brutto anatroccolo anche il destino per un lungo periodo sembra ignorare l’identità del pulcino. Non sembra curarsi di lui, come se lo stesso destino potesse agire efficacemente solo su quelle vite che abbiano avuto modo di rinvenire al di là delle numerose falsificazioni, il loro vero atto di nascita. Nella storia che stiamo per raccontare sembra che il destino sia la personificazione di quella stessa città che James Hillman ci descrive come incurante di noi finché qualcuno o qualcosa si faccia carico di recuperare il  bambino che abbiamo smarrito.

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quando mai c’è, per quel che ne sappiamo, una cosa senza di noi? Chi è attore di linguaggio, ma amoroso di figure, deve pur compiere con parole quel che vede, facendolo rinascere dalla sua lingua. Nanni Cagnone

Nelle fiabe c’è spesso un convegno al quale messaggeri meravigliosi hanno convocato e condotto. Poi, giunti al luogo non c’è nessuno: “una fratta selvaggia oscura e vuota”. Ciò significa soltanto, in quelle fiabe, “Ti aspetto più avanti” (ascende superus, duc in altum, Lc 14,10- 5,4). Dove? Nessuno lo sa; più avanti. Cristina Campo

 

 

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Arthur Rackham

Il diavolo

All’inizio de La regina della neve  Andersen dà un annuncio solenne che ci fa pensare che l’autore non si stia rivolgendo soltanto a un pubblico di piccoli lettori. Andersen ci avvisa che alla fine di questo lungo racconto noi ne sapremo molto di più sul diavolo e del suo potere sul mondo. La prima storia delle sette che compongono quel meraviglioso romanzo che è La regina della neve infatti è un antefatto, il motivo cioè che causerà  le disavventure di una bambina e di un bambino per via  di un incidente occorso a uno strumento diabolico. La seconda cosa sorprendente che apprendiamo riguarda un aspetto della vita intima del  diavolo, frequentato di rado anche dalla letteratura per adulti, cioè quello di come impiega il suo tempo libero. Infatti lo vediamo impegnato per diletto, come un qualsiasi hobbista, nella costruzione dilettantistica  di un oggetto. Ma siccome è il diavolo, non sta facendo decoupage, ma sta fabbricando uno specchio che di ogni cosa riflette  il contrario se questa è dritta, il rovescio  se questa è  bella, la sua perversità  se questa è amata.

Diciamo che all’inizio lo scopo principale di questa impresa diabolica era soltanto la derisione. Ad esempio  un pensiero buono diventava qualcosa di ridicolo, qualcosa che faceva ridere.  Per un po’ fu sufficiente questo per divertirlo, ma poi dopo quella domenica pomeriggio in cui inventò lo specchio, il diavolo, che era un cattivo maestro, tornò alla sua classe di cattivi studenti e più allegro del solito, raccontò il suo esilarante fine settimana, così tutti i suoi studenti diabolici andarono in giro a raccontare che finalmente un miracolo al contrario era in grado di mostrare veramente come fossero gli uomini e il mondo.

“Io sono il dio nelle cui mani gli uomini pongono i loro desideri” scrive Gustav Meyrink, parlando per bocca di Lucifero.  La tentazione si può dire che per un diavolo costituisce le basi del mestiere in quanto è la premessa di ogni dannazione sua e altrui ma è anche l’irriverenza che sta alla base di tutti i moti indipendentisti dell’anima. Per cui accadde che gli studenti del diavolo furono tentati di mettere alla prova la straordinaria malignità dello specchio risalendo con quello alla mano tutte le gerarchie del bene al solo scopo di ridicolizzarle. Ma finché si trattò di cherubini alati ricciuti e paffutelli,  lo specchio si limitò a sghignazzare rendendoli deformi, però quando la risalita dei goliardi arrivò un po’ più in alto, lo specchio non resse alla visione pervertita degli arcangeli e tanto si agitò che scivolò dalle mani degli studenti per precipitare fin sulla terra frantumandosi in mille pezzi, schegge e polveri che si dispersero ovunque nel mondo diventando il mondo, anche un po’ fatto delle stessa sostanza di quello specchio.

I ghiacci non si trovano solo al colmo delle altezze ma sono anche al colmo della profondità. Sotto la terra, sotto l’acqua, sotto il fuoco dell’inferno, c’è il nono cerchio dantesco, l’ultimo, che è fatto di ghiaccio ed è riservato ai traditori. Qui, di ghiaccio e non di fuoco è la casa di Lucifero. Un luogo in cui nulla è abbastanza fermo, assoluto, cristallizzato, compresa l’intenzione del male. Questo è l’antefatto di una storia che già dal principio smette apparentemente di riguardare il diavolo per diventare la narrazione del viaggio iniziatico che  una ragazza  e un ragazzo compiranno in questo mondo danneggiato da uno specchio diabolico, separatamente, forse non tanto per ritrovarsi alla fine, come sembra lo scopo dichiarato del viaggio.

Kay

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Arthur Rackham

Tutto ebbe inizio in una città che è il luogo del destino per eccellenza. Ma che è anche un posto in cui di rado c’è spazio per i giardini, specialmente nei quartieri più degradati o quelli in cui la gente va solo a dormire e ci lascia i figli per forza di cose da soli o guardati da altri. Siccome Gerda e Kay non avevano un giardino in cui poter giocare, decisero di eleggere a giardino un paio di vasi pensili sospesi tra i loro due balconi che non si sa se per caso o perché il diavolo volle così, erano dirimpettai. I due ragazzi erano felici grazie a quel giardinetto pensile che d’estate era coloratissimo e profumato di rose, a cui si affacciavano per guardarsi d’inverno, e per guardare la neve che cadeva. Kay era innamorato della neve, lo era da sempre senza sapere perché. La neve per Kay, era qualcosa che gli apparteneva anche da prima di quando d’inverno si affacciava alla finestra chiusa per giocare ai segni con Gerda che lo aspettava all’altra finestra, mentre i fiocchi turbinavano tra loro come uno sciame di api bianche, la cui regina però tardava a comparire.

Ma passò qualche stagione e la regina comparve. Accade quando arrivò un inverno particolarmente freddo. Si susseguirono molte settimane in cui la città pareva così chiusa dalla morsa del gelo da sparire sotto montagne di ghiaccio. E ogni giorno verso le cinque cominciava a nevicare prima piano poi sempre più turbinosamente, come fa la neve che non perde mai leggerezza anche quando è violenta. Verso le cinque Kay usciva per non perdersi quello spettacolo tutto intabarrato, ma con la testa e il naso scoperti perché gli pareva che così, vedendo meglio quel candore, potesse fiutare anche il profumo bianco e un po’ mischiato alla polvere diabolica dello specchio, come tutte le cose del mondo ormai.

Forse, quel profumo gli pareva così buono e ricercato, anche per via della malia dello specchio, che per quanto cattiva e indegna, non ci dimentichiamo che era una magia ispirata dal padre di tutte le tentazioni. É più probabile che fu così che Kay si ritrovò una scheggia di specchio nell’occhio, e peggio, un’altra che passando dal naso gli raggiunse il cuore, seguendo una di quelle traiettorie improbabili e perverse che solo il caso, o il diavolo in persona, sanno direzionare come peggio non si potrebbe. Secondo Andersen invece Kay si buscò questo malanno un giorno d’estate mentre leggeva un libro insieme alla sua Gerda per cui a un tratto il loro giardino sospeso gli apparve quale era, cioè un paio di vasi striminziti abbarbicati tenacemente su un balcone di periferia, e Gerda soltanto una mocciosa. Forse, come spesso accade, erano vere tutte e due le cose. Forse l’inverno prima, insieme ad essere colpito dalle schegge impazzite dello specchio, Kay era rimasto folgorato su quella stessa strada da una donna che come scrive Andersen “aveva gli occhi fissi come due stelle chiare, ma in essi non c’era pace né tranquillità” e la cosa peggiore fu che quella donna, bella come Kay non ne aveva mai viste, in quell’occasione fece cenno proprio a lui di seguirlo, come se lo conoscesse da sempre. Ma Kay non riuscì a raggiungerla, perdendosi man a mano che la tempesta di neve aumentava. Così l’estate successiva, è probabile che leggendo l’ennesimo libro insieme a Gerda, non si fosse per niente dimenticato di quell’episodio, perciò fu da quel momento che la sua amica cominciò ad avvertire quanto Kay fosse cambiato.

Andersen ci dice che Kay faceva giochi più “seri”, giochi adulti che Gerda non capiva, come quello di imitare gli altri cosicché non si capiva più se Kay era Kay o solamente uno qualunque che faceva cose qualunque o si metteva al microscopio ad analizzare per ore un fiocco di neve ritenendolo, diceva, la forma più bella che la natura avesse inventato, perfetta e assoluta, come non lo sarebbero mai state le loro rose nei vasi. Gerda era preoccupata, più passava il tempo, più Kay diventava distante, finché ancora una volta arrivò l’inverno. E con l’inverno Kay riprese l’abitudine a uscire dopo le cinque aspettandosi da un momento all’altro che nevicasse. Ma la neve non arrivava e Kay divenne sempre più nervoso finché un giorno, alla fine di febbraio poco prima delle cinque, cominciò a cadere: i primi fiocchi impercettibili che non sembra neve, sembra acqua o quello che chiamano nevischio che non c’entra niente con gli impareggiabili fiocchi con cui la neve è capace di fare silenzio intorno, solo perché arriva nei luoghi come fanno le grandi dame o i grandi spiriti. Kay corse a rotta di collo giù per le scale come se avesse il sentore che finalmente l’ora e il luogo dell’appuntamento con il suo destino fossero giunti, e aveva ragione perché quando lo sciame bianco della neve infittì comparve pure la regina. “Abbiamo fatto una bella corsa!”, disse la regina a Kay con uno strano sorriso. “Ma che freddo, vieni, ficcati nella mia pelliccia d’orso”, e lo disse come se anche per lei con Kay si fosse trattato di riaprire un discorso che in realtà non s’era mai interrotto. Poi la regina della neve baciò Kay, e lo baciò di nuovo e infine disse: “Adesso non ti bacerò più, perché finirei per farti morire”, ma mentiva e lo baciò ancora e ancora.

Gerda

Andersen riferisce che Gerda, disperata, partì alla ricerca di Kay. Ma noi possiamo solo testimoniare che Gerda partì. Ora se partì verosimilmente alla ricerca del suo amico del cuore, chi può dirlo? Gerda partì perché non c’era più motivo di restare in quella città. E poi di un viaggio, nonostante le nostre intenzioni, si può sapere solo quale sia il punto di partenza. Quindi Kay forse era morto o forse stava solo capendo chi fosse l’uomo che aspettava di diventare a rischio della sua stessa vita. Allora Gerda decise di calzare un paio di scarpette rosse, che aveva comprato dopo la scomparsa di Kay e che Kay non si sarebbe mai potuto figurare come le stessero bene ai piedi, qualora fosse veramente morto o fosse diventato il principe consorte della neve, che poi era la stessa cosa.

Quelle scarpette rosse erano per Gerda una cosa della massima importanza, erano le prime scarpe che avesse scelto da sola e le aveva scelte rosse con un’audacia che stava solamente cercando il modo di comunicarsi a Gerda come una delle sue virtù più risolutive. Un’altra famosissima favola di Andersen riguarda proprio un paio di scarpette. Scarpette rosse racconta il desiderio che le scarpe suscitarono in una ragazza e la responsabilità che ebbero riguardo la sua fine tragica.  Sicuramente le scarpe da donna, erano un elemento che Andersen considerava fondamentale e allo stesso tempo viveva in modo contraddittorio. Che Andersen amasse le scarpe femminili è dimostrato dalla sua attenzione verso le credenze e verso la religiosità dei suoi luoghi d’origine, che attribuivano alle scarpe rosse un valore altamente seducente e perciò demoniaco. Ma la posizione controversa del poeta danese al riguardo emerge ancora meglio dal suo genio che lo conduceva spesso a un vero e proprio contraddittorio interiore, espresso da trame che andavano molto oltre la trasposizione di una tradizione orale o scritta. Ad esempio un’evidenza della malcelata antipatia di Andersen verso la più che nota sproporzione biblica tra esiguità della colpa e crudeltà del castigo, ci viene dalla sottilissima ironia che ammanta una favola meno famosa di Scarpette rosse ma altrettanto interessante, che si intitola La ragazza che calpestò il pane. Questa è la storia di una fanciulla che per non sporcarsi le scarpette fiammanti, getta in terra e calpesta come un zerbino il pane, destinato a sua madre poverissima. Chiaramente l’universo le si scatena contro e lei finisce istantaneamente morta ammazzata  e gettata in un inferno che somiglia a quel nono girone di cui sopra. Sempre in questa favola però compare a mescolare  singolarmente le carte  del destino ancora una volta una figura femminile incredibile che appartiene alla sfera intima di Satana: la sua bisnonna. Questo personaggio molto rispettato nota subito che la ragazza che ama su tutto le sue scarpe nuove, è molto ben predisposta a peccare. E la vuole avere per cariatide in casa, la stessa casa di Lucifero che qui, più che lo spaventoso satanasso che tutti sanno, appare un tenero nipote che vive ancora con la bisnonna più ciarliera che gli inferi ricordino.

É calzando quelle stesse controverse scarpe rosse che Gerda,  prima di partire per il suo viaggio, uscì dalla città e si recò un’ultima volta al fiume, che era l’unico luogo da  cui aveva sempre avuto risposte.

La donna esperta di magia

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Eleanor Vere Boyle

Arrivata al fiume Gerda fece una cosa incomprensibile: prese le scarpe rosse  e le gettò in acqua, forse perché il sacrificio della sua audacia le parve una cosa necessaria al fine di riavere Kay. Ma si sbagliava e il fiume con un gesto tranquillo gliele restituì. Allora Gerda finse di non capire, prese una barca, arrivò a largo e getto di nuovo le scarpe in acqua. Fu qui che il fiume prese posizione, visto che Gerda non voleva intendere. L’acqua si inventò una corrente abbastanza forte da far perdere a Gerda il controllo della barca. Il fiume così le impose di iniziare il suo proprio viaggio. Prima Gerda ebbe paura, su quella barca trascinata non si sa dove con indosso solo le calze ma poi la paura passò perché cominciò a guardare le sponde del fiume e vide un paesaggio tanto bello quanto sconosciuto, così sconosciuto da apparire familiare, come solo accade a quello che incontriamo la prima volta e ci dimostra che esistono parentele con luoghi e persone molto più radicate di quelle che conosciamo fin dalla nascita. E infatti la barca si fermò davanti a una casetta immersa nella campagna solitaria, Gerda scese senza paura e bussò a quella porta. La donna che aprì si trovò davanti una bambina senza scarpe con l’aria di aver pianto più lacrime di quanto a quell’età se ne abbia a disposizione. Però non vide solo quello, perché la donna era una strega e sapeva tutto, non proprio come sa tutto  il diavolo, ma quasi. “Una bambina così bella era da tanto tempo che la sognavo”, disse la vecchia tra sé, “Adesso vedrai come ce la intenderemo bene noi due”. E sospingendo dolcemente Gerda dentro casa, chiuse la porta  a chiave.

C’è da dire che la strega che accolse Gerda in casa non era cattiva. Lo era solo un po’, come lo sono quelle persone  che sono disposte a rubare e ingannare non per abitudine, ma solo se qualcosa o qualcuno piace loro tantissimo. E Gerda a quella strega piaceva da impazzire tanto che decise di ingannarla purché restasse quanto più a lungo possibile con lei. Allora si servì della magia. Mentre Gerda dormiva, dopo aver mangiato straordinarie ciliegie magiche, la vecchia uscì di casa e con un colpo del suo bastone costrinse ogni rosaio del giardino a tornare per intero sottoterra come rimangiandosi i fiori, la gemmazione, il fusto, le spine in modo che le rose non potessero ricordare a Gerda nulla del giardino  condiviso con Kay, né del misterioso disgusto per le rose che aveva colto il ragazzo poco prima di sparire. E poi dal giorno successivo seppe dare a Gerda la piacevole abitudine di essere pettinata a lungo dalle mani di una strega, mani  che a volte reggevano un pettine fatato che smemorava, cosicché Gerda si trovò senza passato nella casa di un giardino fatato di cui per incantesimo le sembrò di essere la padrona.

Ma Gerda era destinata a non essere padrona di nulla, né tanto meno a dilettarsi di stregoneria, come la sua ospite. É a questo punto che successe una cosa che la strega non era stata in grado di prevedere, poiché la vecchia  era insuperabile  in fattucchierismi e manipolazioni, meno capace quando si trattava d’essere previdente: la strega si dimenticò di far sparire l’ultima rosa rimasta in casa, quella che pendeva dal suo cappello. Così quando Gerda una sera, molto tempo dopo il suo arrivo, si prese la briga di osservare meglio la sua ospite, si accorse che le pendeva dal capo proprio una rosa dello stesso colore di quella che Kay le aveva indicato con disgusto prima di sparire. Bastò quello a farle ricordare improvvisamente tutto. Ma non disse nulla, e di notte quando la strega finalmente si addormentò, uscì nel giardino per  piangere  tutto il tempo che aveva perso imprigionata in quella falsa estate. Qual era la vera stagione oltre la siepe del giardino fatato della strega? Si chiese, mentre finalmente  ritornava la sua audacia a renderla capace di tutto. Allora le rose che  non poterono più trattenersi dallo stare sottoterra, le dissero: “Noi sottoterra ci siamo state, là ci sono tutti i morti, ma Kay non c’era”. Il cancello del giardino era chiuso, ma fu a quelle parole dette dalle rose che Gerda alzò il gancio e ancora una volta a piedi nudi, trovò la via della fuga.

Intermezzo

Come ho sentito dire una volta da una persona molto saggia, le favole devono essere raccontate ai bambini perché racchiudono tutti i destini possibili che la vita può riservare a una donna e a un uomo, e narrarle ai più giovani può dare loro il senso delle infinite possibilità che da grandi potranno attuare. Ma secondo Andersen, certamente, le fiabe avevano anche il potere di rammentare agli adulti ciò che  a qualsiasi età fosse loro sempre e ancora possibile. A questo fine, il nostro poeta e favolista sapeva bene che  l’effetto più potente in una favola lo sortisce non tanto la storia di un destino, quanto l’uso di un  linguaggio  che improvvisamente infranga l’ostinazione tutta adulta di ogni alfabeto interiore che costringe all’immobilità. Del resto la parola è il più potente dei nomi. Una sorta di battesimo della realtà di cui ogni persona conserva facoltà per sempre. Una volta messa in moto la mente, non solo si pronunciano parole, ma cielo e terra si fondano sull’intenzione, in un passaggio acrobatico subitaneo e trascendente scrive James Hillman. Per cui i dialoghi più pregnanti, può capitare che i personaggi di Andersen, li abbiano con un oggetto, col fiume, con un rosaio o un animale. Lieh Tzu in un’antichissima favola taoista che si intitola Bestia o uomo asserisce che “coloro che si somigliano nello spirito possono differire nella forma, e coloro che si somigliano nella forma possono differire nello spirito”, azzerando le differenze testimoniate dai corpi visibili di animali e uomini in favore di identità spirituali magari  non evidenti, ma fondamentali nel dipanarsi del grande gioco della vita di ognuno. É proprio questo aspetto bestiale e del tutto realistico delle profondità umane che Gerda affronta nella quarta e nella quinta storia de La Regina della neve.

Scappata dal giardino eternamente estivo della strega, Gerda corre a piedi nudi verso l’inverno,  e  in mezzo alla neve, incontra inaspettatamente un amico, o forse di più, un fratello. Il primo indizio di certe fratellanze a posteriori è che due appena si parlano  si capiscono, pur provenendo da regioni totalmente estranee e separate. Infatti, l’essere che darà conforto a Gerda, malgrado un’evidente difficoltà linguistica, e che le dirà di aver visto probabilmente Kay, incoraggiandola a continuare la ricerca, è un corvo.

Abbiamo già visto in Gerda la capacità di dialoghi soprannaturali: il fiume che la consiglia sulle scarpe, le rose che fanno il tifo per lei pure da sottoterra e ora il corvo che le racconta di un giovanotto molto somigliante a Kay che ha appena sposato la principessa presso cui la sua fidanzata cornacchia è a servizio. A pensarci bene, la piccola Gerda non si sa di chi sia figlia, né di quale paese la sua stirpe sia originaria. Sappiamo che è innamorata di un giovane poeta che nutre una passione monomaniacale per la neve, quando lei ne nutre una un po’ più sana per lui e con ciò insieme toccano il limite della lingua condivisa. Sappiamo che la strega si invaghisce di lei, ma le streghe sono strani esseri e la parte di bestia che serbano nel cuore serve loro solo per ingannare,  perciò anche quella parlata con la strega risulta una lingua monomandataria che assicura solo i diritti di uno.  Gerda è sola come il brutto anatroccolo, non ha neppure la consapevolezza di una specificità che la indichi a se stessa, finché non incontrerà il corvo che, sebbene per eccesso di zelo la conduca verso un buco nell’acqua, le dona, come spesso accade nell’incontro con un simile, una consapevolezza fondamentale riguardo la sua vera natura. Sì, Gerda non sarà mai una principessa, come dimostrerà l’atteggiamento diversamente felice con cui Andersen ritrae la vera principessa che abita la prossima porzione di storia, ma non di meno la nostra è portatrice di uno spirito così alato che la renderà capace di percorrere quello che degli altri è il mondo più segreto: i loro sogni.

(CONTINUA)

5 COMMENTS

  1. L’articolo è molto interessante e giunge nel bel mezzo di una vivace discussione nel mio gruppo di lettura. Avevo provocato io la discussione dicendo che tanti anni fa, leggendo “L’acciarino” di Andersen a mio figlio, avevo bruscamente modificato la parte in cui il soldato uccide la vecchia per impadronirsi dell’acciarino e diventare ricco, restando impunito, anzi premiato dalla sorte. Mi sembrava tanto immorale la fiaba da modificarla all’istante. Non ero però orgogliosa di questa mia operazione, ma non avevo mai trovato nessuno con cui discutere. Il mio gruppo si è diviso: alcune amiche hanno elogiato la mia iniziativa, altre hanno categoricamente dichiarato che mai hanno letto Andersen a un bambino e mai lo leggeranno in quanto amorale e crudele. Quest’ultima affermazione non mi trova d’accordo, anche per una ragione affettiva: “La regina delle nevi” mi è stata letta a puntate da papà e di questa favola in particolare conservo un bellissimo ricordo. Ecco, ora qualcuno mi ha aiutato in una più ampia e puntuale conoscenza dello scrittore. Di ciò sono grata.

  2. ciao Serenella e grazie del commento! tutte le fiabe sono crudeli, perché tutte le fiabe sono vere. Però, ecco, direi che in Andersen c’è proprio un eccesso di morale in genere. Sul leggere fiabe ai bambini – le fiabe non proteggono, non prevengono ciò che sarà la vita, ma di sicuro lì c’è un sentiero che si mostra ben chiaro.

  3. Mi fa piacere Serenella che questo testo ti sia stato utile in qualche modo. Grazie davvero del tuo commento. Non mi avventuro sulla questione morale in Andersen, la seconda parte del racconto, finirà di essere esplicita per parte mia. Sulla tentazione di “cambiare” almeno un po’ le storie, sul fatto di mostrare che esiste anche questa possibilità, non so, io l’ho pensata come una delle cose più utili da poter far intendere ai miei figli. E anche la più divertente per la verità. Ma sono scelte personali.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.