cinéDIMANCHE #13 “La regina delle nevi” di Lev Atamanov [1957]
di Cristina Babino
- Hai ancora freddo?
- Si, ho freddo, e sento male qui dentro.
- E allora non ti bacerò più.
Il Natale a casa mia non è mai stato un evento granché celebrato. Mio padre, ferroviere, nei giorni di festa era molto più spesso via per lavoro che con noi a riposare e a godersi, appunto, la festa. E Natale non faceva eccezione. Per cui quasi sempre si restava in casa, mia madre, mia sorella ed io. Mia madre un po’ contrariata, ma tutto sommato sollevata dal non dover indulgere in stressanti preparativi, io e mia sorella rassegnate, e nemmeno tristi. Andava così. In fondo i nostri regali li avevamo avuti. In fondo noi due si stava bene insieme, in quelle giornate, chiuse nella nostra cameretta con la carta da parati a strani motivi blu e arancio, molto anni ’70, e pochi giochi, rigorosamente da condividere: un paio di barbie, uno spiderman di gomma, un goldrake in gommapiuma grande quanto me, preso coi punti di qualche supermercato. Quello sì, meraviglioso.
Dei pomeriggi natalizi ricordo soprattutto, alla tv, un cartone animato. Uno di quelli che davano puntualmente in quel periodo dell’anno, sotto le feste. Un vecchio film di animazione russo, l’unico del genere che mi abbia lasciato un segno davvero forte nella memoria. Sarà per l’ambientazione glaciale che tanto bene si sposava al freddo che bussava allora alle finestre. Sarà perché era la storia di due bambini, amici e quasi fratelli.
De La regina delle nevi conservo negli occhi soprattutto una scena, che è per me l’immagine stessa del Natale, di quello della mia infanzia. Un bambino biondo, delicatissimo, nei lineamenti e nei movimenti, che gioca intento con dei prismi di ghiaccio. Li tiene pensoso tra le mani, ne valuta la consistenza, la perfezione gelata e lucente. Si accorge però, deluso, che non hanno profumo. Dice: «L’amore non ricordo. Però ricordo una cosa: Gerda».
Il nome del bambino è Kai, e Gerda è la sua amica inseparabile. Insieme vivono una fanciullezza allegra e spensierata, giocando al sole pallido del nord, ascoltando i racconti della nonna davanti al fuoco, e coltivando rose. Gelosa della loro felicità e indispettita dalle loro risa, la Regina delle Nevi, bellissima e spietata, scatena una terribile tempesta di neve. Una scheggia di ghiaccio incantata entra nell’occhio di Kai e il maleficio lo rende improvvisamente crudele, il suo cuore insensibile all’affetto della piccola amica. Non contenta, la Regina rapisce il bambino e lo conduce nel suo palazzo di ghiaccio, dove lo istruisce affinché dimentichi l’amore, la bellezza e tutte le gioie di cui ha vissuto sino a quel momento, per sostituirle con la quiete gelida e immobile dell’indifferenza. Inconsolabile, sola e senza scarpe, la piccola Gerda parte alla ricerca di Kai. Un viaggio difficile e pericoloso, lungo una terra fredda e spesso ostile, che ha tutto il carattere della quest, e costellato di incontri magici e più o meno salvifici: la vecchia signora che con un pettine magico vuol far scendere l’oblio su Gerda, così che non soffra più per la perdita dell’amico, il corvo parlante, la buona pescatrice e la maga finlandese che aiutano Gerda a giungere a destinazione, e il personaggio, di insolita ambiguità, della piccola ladra, che prima deruba e imprigiona Gerda insieme agli animali che sadicamente tiene in gabbia, quindi la libera – e li libera tutti – mossa a compassione dalla sua storia e dalla gentile purezza del suo animo. Raggiunto finalmente il castello, l’affetto profondo e indissolubile che lega i due bambini oltre ogni possibile amnesia o distanza spezza l’incantesimo e costringe l’odio della Regina a sciogliersi come neve al sole.
A questo film hanno rimproverato un disegno poco accattivante, meno fluido rispetto ai capolavori Disney, una lentezza poco vendibile nello sviluppo della trama. A me sembra di riconoscere nella staticità di alcuni fotogrammi, specie nella rappresentazione dell’algida Regina, un riferimento forse inconsapevole, ma ancora più autentico, a quella Uta degli Askani a cui già si ispirò Disney per realizzare la sua Grimilde. Riconosco nelle delicate gestualità di Gerda e Kay dei dettagli accurati e poeticissimi, una grazia quasi di antica miniatura, e nel personaggio di Ole Lukoje, dio dei sogni senza invero molto physique du rôle – piuttosto un incrocio tra un minuto nonnino e un folletto magico – una voce narrante/moralizzante che tanto mi ricorda il Grillo parlante. Solo più simpatico, senescente e antropomorfo.
Oggi che sono sulla soglia dei quaranta, e madre, e rivedo questo film con mia figlia, non so dire la soddisfazione quando mi dice, contro ogni pronostico e aggressione pubblicitaria, che lo preferisce al recente Frozen, rifacimento rutilante e rumoroso, in chiave pseudo-femminista, della medesima fiaba di Andersen. Qualcosa di me, del mio essere stata bambina, mi illudo di averle trasmesso.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.