Non lasciarmi andare
di Francesco Borrasso
C’è un luogo dove le cose assumono forme straniere. Questo luogo è un evento, il ricordo di un addio che non sono riuscito a bruciare; come una foto piantata davanti agli occhi, è la zona dalla quale non sono stato di capace di evadere.
Una parte di me ha cominciato a pretendere una scissione, è stata messa in dubbio la mia unicità, il mio fisico è venuto a conoscenza dello scontro contro se stesso; ho imparato l’odio per un movimento, la rabbia per un atteggiamento, la collera è diventata presenza naturale, frustate veloci verso l’atro io, sacrificato nella sottrazione. È stato facile non muovermi da quel luogo, è stato naturale restare nella sofferenza, perché il dolore è una terra fertile, ti ammalia in fretta, ti stordisce il corpo con la continuità, vince sul tempo. Il mio uno diviso, in conflitto, assomigliava ad una battaglia tra due guerrieri della stessa armata, che si conoscono alla perfezione, che si annullano continuamente.
Come fai a credere che una persona possa non esserci più? Possa smettere la sua solidità perdendo materia? In quale parte della testa bisogna andare a cercare l’accettazione?
I primi giorni avevo un viso teso, la pelle livida, i muscoli in coma, le braccia dure, le guance bianche; non piangevo. Le lacrime sono arrivate successivamente, sono state la sua presenza che cercava di emigrare dal mio corpo. La parte mia disubbidiente ha perduto la memoria, ha codificato il linguaggio delle emozioni, trafugandolo, nascondendolo. Mi ha fatto svenire per la paura, tremare per la rabbia, ha spinto le mani contro il petto ingolfandomi i polmoni, ha annullato le mie convinzioni.
Non sarei mai stato preparato a trovare questo posto vuoto vicino al mio fianco; forse, con un po’ di allenamento, sarei riuscito almeno ad usare il pensiero come palliativo.
Un giorno sono stato costretto ad arretrare, arrestare la corsa verso l’autodistruzione; un obbligo feroce quando ho scrutato i mostri vicino alle mie figure preziose; le lacrime di una madre che non riusciva a dare forma alle parole; la desolazione struggente di una sorella, spogliata dalla protezione, con un fisico crollato e un viso collassato. Sono diventato permeabile al vento, agli umori, alla pioggia; permeabile ai volti, ai loro movimenti. Ho assorbito la stanchezza; la mia pelle ha perso spessore, fino a sparire sotto gli abbracci pieni di domande vicine alla scadenza, risposte cercate a morsi, non trovate, a denti rotti. Ho permesso al dolore degli altri di diventarmi amico, ho permesso al dolore straniero di entrare nel mio stomaco; ne ho subito le conseguenze con un cuore che balzava perdendosi qualche battito, spezzandomi in un terrore che non conosceva padrone.
Cosa rimane di un’assenza quando ammetti materialmente il suo esilio? Abituarmi alla sua mancanza è stato come riabilitare un corpo dopo una stasi durevole e forzata; come aprire le finestre di una casa, sigillate da anni, e trovarle murate. Rendere familiare il suo posto vuoto è stato come provare a nascere nuovamente, ma con il carico di consapevolezze che mi hanno dato tutti questi anni. Quelle notti in cui ho provato ad abbracciare un ricordo ho avvertito le gambe vuote, erano involucri prosciugati, la testa pesante; ho visto oggetti che imitavano la vita vera. Quel ricordo non si poteva toccare, era materia astratta. Tutte la parti di me hanno dovuto imparare una vita nuova: le mani si sono dovute abituare a trovare il vuoto, dopo i sogni in cui si era fatto presenza; gli occhi hanno dovuto accettare che non c’era più niente su quella sedia, su quel letto, su quel divano; le bestemmie sono dovute diventare silenziose, a bocca chiusa, per non disturbare la fede degli altri; le lacrime sono diventate fredde, i giorni di festa, nascosti dai sorrisi per forza. Cosa ha pensato nell’ultimo istante? A lui o a me? Che non voleva morire? Oppure a come io, noi, avremmo fatto senza la sua presenza? La forza del lutto è un oggetto meccanico che ti si aggancia alle membra, se non c’è rigetto, puoi andare avanti, avvertendo per sempre un corpo estraneo che fa peso; altrimenti spegni la luce, e decidi di restare al buio, di provare in anticipo a stare in mezzo ai morti.
Dopo tutti gli abbracci: quando piangevo per le sciocchezze, quando mi spiegava come si vive; dopo i contatti della pelle, della mani, le mie piccine dentro le sue, grandi, che facevano protezione; dopo tutte le grida, le delusioni, autonome o inflitte; dopo i sogni messi in condivisione, raccontati; dopo tutto, non resta niente; se non la mia vita che trascina ostinata la sua assenza.
Ho dovuto correggere e modificare tutte le mie parti, perché convivevo con un segnale che mi scattava dentro continuamente, un allarme fasullo, che raccontava al mio corpo un pericolo che non c’era; un pericolo fantasma che non smetteva di farmi paura; che non finisce, mai.
* foto: mariasole ariot