La costruzione del due

di Ivan Campesi

zero – Ai margini di una stretta di mano, celati dai vetri appannati di un bar, costruiamo con fatica reti di relazioni sociali, in cui ci avvolgiamo in cerca di conforto. Ritroviamo ogni volta, nella velocità di un messaggio istantaneo o nella chiarezza con cui facebook riassume i punti salienti delle nostre vite, nuovi bisogni di solitudine da esacerbare: in quei momenti, siamo sempre abbandonati su un divano a scrutare inganni di stupefacente bellezza – brandelli di telegiornale, tribune politiche e talkshow, pezzi di realtà pericolosamente estranee e distanti –. La nostra presenza riempie alla perfezione il vuoto degli spazi domestici, ma non sembra avere nessun’altro senso.

 

uno – Durante notti d’insonnia e d’attesa, PQ amava costruire elaborate geometrie immaginarie, dentro cui collocare la ragione della sua esistenza. Era una disciplina meticolosa che scaturiva dall’osservazione minuta di particolari insignificanti – la pubblicità che interrompeva un film d’azione scadente, trasmesso a tarda notte; le esitazioni della barra di avanzamento di un aggiornamento di sistema; o altri piccoli momenti di dolore inspiegabili, che PQ distillava con la sua scienza esatta –. Aveva da tempo capito che il problema erano le sue scelte, che vedeva intessersi lungo lo svolgersi delle sue costruzioni mentali: era soprattutto la vita in un altro luogo, con altri ritmi, con altre sicurezze e soddisfazioni, a lusingare la sua fantasia cartesiana. Un costruttore di futuro, a cui il presente non sembrava altro che lo spazio inerme oltre la finestra della sua stanza, dove fremevano le luci della città notturna.

 

uno e 1/2 – Il bagliore discreto di un crepuscolo amaranto, diffuso tra la densità prospettica dei palazzi e delle strade. Ele camminava immersa nel tramonto sfavillante di smog, senza riuscire a esprimere un pensiero che la liberasse dallo stato di sospensione di cui si sentiva prigioniera. Non aveva mai una meta precisa, o se l’aveva, cercava di relegarla in uno stadio rarefatto e sfilacciato del pensiero, mentre il suo corpo la guidava verso di essa con gesti automatici – l’università, il centro o casa di PQ: erano le destinazioni di percorsi tracciati dalla bicicletta di Ele tra le abitudini dei passanti –. Solo così poteva sopportare la bellezza che si intrufolava sotto forma di luce, tra le sagome della città, e scacciare la convinzione che quello spazio, in realtà, non fosse adatto alla vita umana.

 

uno e 2/3 – Dispersa nei raggi di luce rossa, che filtravano dal vetro di una finestra, la presenza discontinua di Ele incrinava la perfezione dei sistemi di PQ: nel rapporto che aveva costruito con lei PQ avvertiva qualcosa di inspiegabile, che non riusciva a posizionare nelle geometrie in cui racchiudeva le possibilità del futuro. Così, PQ tornava a essere lo schermo della tv o le pagine di un libro, sondando con i polpastrelli la superficie irregolare del tappeto. In realtà, PQ aspettava. Durante serate piovose e prive di luce, aspettava che Ele tornasse, per poter riprendere a studiarne le grinze di una cicatrice su un ginocchio, o il neo scuro sotto un capezzolo: una mappatura estesa di Ele come fenomeno fisico sembrava essenziale a PQ per poter comprendere la sua realtà sfuggente, all’interno di quel vuoto inarticolato in cui si consumavano una dopo l’altra le giornate.

 

uno e 3/4 – Non che Ele immaginasse un altrove, in cui fosse possibile conciliare i frammenti difformi della sua esistenza – malinconie improvvise come flash, solitudini aperte come schermi –; eppure, mentre si dirigeva verso casa di PQ, Ele avvertiva sempre qualcosa di sbagliato, una frattura che era necessario ricomporre e suturare. In quei momenti, vedeva se stessa e le persone che incontrava come improvvise interruzioni del paesaggio continuo della città al tramonto – c’era un legame sottile ma evidente tra i cassonetti dell’immondizia e il nitore abbacinante delle automobili; tra le vetrine iridescenti e la nausea grigia assembrata nel cielo –. Ele era certa che fosse proprio la sua presenza a costituire l’inessenziale, un grumo di realtà superflua e invadente, di cui il resto del mondo avrebbe fatto bene a disfarsi. Tuttavia, a volte, nei discorsi che PQ le faceva durante serate di noia, quando anche il sesso era qualcosa di laterale e sfuggente, aveva la sensazione di scovare, dietro l’attesa che scandiva le giornate, dei percorsi di senso su cui parevano avviate le loro presenze accessorie tra le linee asciutte della città.

 

quasi due – Durante mattine arse di luce, stretti nell’abbraccio del sonno, ci sussurriamo frasi lette nei libri e ci stupiamo dell’esattezza delle parole – «a volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane» –; poi restiamo in silenzio, a osservare quei profili netti disegnati tra di noi dalle parole e incapaci di aderire alla superficie porosa delle nostre vite. In quei momenti, aspettiamo il segnale improvviso di un cambiamento.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.