La città di frontiera #0
di Alessandro Chiappanuvoli
La città è una città di frontiera, lo è sempre stata, e mai sarà del tutto conquistata, dunque, continuerà a esserlo. Sorge su un piccolo colle nel mezzo di una grande vallata, alte montagne tutto intorno bloccano gli sguardi dei suoi abitanti, la tentazione dell’oltre li opprime. Prima dell’immane catastrofe che l’ha colpita, l’ultimo confine che ha incarnato divideva il centro del Paese dal sud, e così come la modernità dalla tradizione; queste potenze da sempre la tenevano in scacco.
Sei anni fa la catastrofe che tutti conosciamo. E la città fu prontamente soccorsa da eserciti nazionali, eserciti di volontari, invasa, quindi. Oltre che le casette rusticane nei paesini, i condomini impersonali delle periferie e agli antichi palazzi che adornavano il suo centro, la sua identità s’è danneggiata, compromessa, s’è persa. Orde barbariche poi, assieme agli eserciti, hanno straziato la sua terra, e martoriato la sua memoria. Dopo sei anni, le sue ferite sono ancora aperte, la violenza psicologica s’è aggiunta a quella naturale, la sua cultura è stata contaminata da atti inverecondi d’inciviltà, la speranza di risorgere s’è irrimediabilmente fiaccata, l’assedio sembra essere ormai del tutto riuscito.
Ma la città è una città di frontiera e proprio quel suo stare sul confine, lo spirito che violentemente ha incarnato stando per secoli sul confine, è oggi il male suo profondo e la stessa sua cura endogena, una sorta di risposta immunitaria.
La sua struttura non solo materiale ma metafisica s’è andata mutando profondamente in questi anni, dove c’era la piazza, la biblioteca, il mercato ora c’è una transenna, un vuoto, dove c’era identità c’è ora una sostanza liquida, gelatinosa, malleabile. Le invasioni barbariche, gli eserciti, ma soprattutto le visite di cordoglio e amicali, sincere, insperate, hanno portato un rilevante rimescolamento nelle idee: si sa, lo straniero porta con sé una potenza sia devastante che costruttiva, e ciò ha causato una grande destabilizzazione come pure salvifica fecondazione. Ma se da un lato tutti hanno dovuto fare i conti con il caos imperante, dall’altro, soltanto pochi hanno saputo cogliere nella necessità del momento la grandiosa possibilità non solo di ricostruire la propria identità ma di rigenerarla, persino. Pochi l’hanno fatto e continuano a farlo, e sono i più motivati, i più creativi, gli artisti, i folli, i sognatori. Contro la cristallizzazione di un’identità inevitabilmente ferita, zoppa, frammentata, si sono scatenati il genio e la passione: imprevedibili, potenti.
E ancora, se l’oscura violenza della morte, lo spettro gelido della fine, ha segnato per sempre le anime errabonde e spaurite dei suoi abitanti, intaccandone il sorriso, stravolgendone i sensi, pure ha ridato linfa nuova alle essenziali espressioni vitali, ha risvegliato, scatenato e incanalato una straordinaria, inaspettata energia. Qui insomma, ogni cosa, ogni gesto pare, seppur in costante contrasto con la realtà, possibile. Sì, possibile.
La città è una città di frontiera, lo è sempre stata e sempre lo sarà: questa è la sua condanna e insieme la sua salvezza, il suo paradosso, il suo phármakos che è veleno e pure antidoto, male e cura. È in luoghi come questo che avviene una specie di metamorfosi, la metamorfosi della paura, (R. Escobar, La metamorfosi della paura), è qui che è possibile un rimescolio delle carte in gioco, delle regole e che dalla distruzione invece si creino altre opportunità, altre occasioni, un altrimenti altro, vitale. In posti come questo, dove necessariamente i confini sono sempre da ristabilire, e altri ancora saranno i territori da dividere, e altre le esperienze da definire, altri i significati da capire, dove l’altrove sarà sempre al di là, oltre le montagne, disponibile al sogno. È in posti come questo che si esperisce la libertà vera, “non libertà dai confini ma attraverso i confini”.
L’Aquila è la città di frontiera.
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Foto di Francesco Cardarelli
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