Lo spazio-dubbio. Ipotesi per un abitare possibile
di Ornella Tajani
Penso spesso alla quantità di manzo che ci vorrebbe
per fare il brodo con il lago di Ginevra.
[Pierre Dac citato da Georges Perec]
Di recente è stata pubblicata su Vice l’anteprima di un progetto fotografico di Félix Macherez sulle chambres de bonne parigine, cioè le camere, spesso minuscole, situate all’ultimo piano di palazzi costruiti dall’inizio dell’Ottocento in poi, dove un tempo viveva la servitù e che oggi sono date in affitto come monolocali.
Questi contesti abitativi sono accomunati dallo spazio molto ridotto, uno spazio che, secondo la normativa francese, non deve essere inferiore ai 9 metri quadri di superficie per 2,2 metri di altezza o, in alternativa, non deve essere inferiore ai 20 metri cubi di volume. Nel servizio di Macherez tutto porta a credere che le abitazioni fotografate rispettino i parametri, e che dunque le loro dimensioni consentano una normale abitabilità. Eppure, ciò che per me salta agli occhi è che c’è qualcosa di inesorabilmente sconfortato nelle espressioni dei protagonisti ritratti.
Nel mese di maggio ho trascorso quindici giorni in un appartamento nient’affatto piccolo, ma di dimensioni ridotte rispetto a quello nel quale vivo abitualmente. L’unica sensazione di insofferenza è sorta nel momento in cui ho realizzato che ogni spazio era stato perfettamente calcolato. Tutto era stato previsto, anche la quantità di disordine consentita: ogni cosa aveva un suo posto, dunque l’oggetto n. 1 doveva immediatamente riguadagnare la propria posizione di partenza prima che si potesse ricorrere all’oggetto n. 2. In caso contrario, sarebbe stato semplicemente impossibile utilizzare l’oggetto n. 2 – e, di conseguenza, sarebbe stato impossibile fare una seconda cosa prima di aver terminato la prima.
Non mi dilungo perché il meccanismo mi sembra intuitivo: nello spazio in cui tutto è programmato, non c’è spazio per l’imprevisto. In Espèces d’espaces, un personalissimo racconto del proprio rapporto con l’ambiente che lo circonda, Georges Perec definisce «l’inabitabile» come «ciò che è striminzito, irrespirabile, piccolo», ma soprattutto come lo spazio in cui «ogni cosa è calcolata al centimetro». A me sembra il caso delle chambres de bonne fotografate – e più in generale di una quantità di abitazioni minuscole viste o vissute, parigine e non. Nel caso di spazi molto piccoli, gli oggetti, la roba posseduta, insieme all’esistenza a essi legata, può arrivare a saturare il volume abitabile non solo fisicamente, ma anche mentalmente e quasi metafisicamente: l’abitante non riesce più a pensare o percepire alcuno spazio intorno a sé.
Il limite francese dei nove metri quadri è stato fissato anche in seguito alle ricerche sociologiche di Paul-Henry Chombart de Lauwe, il quale, nel corso dei suoi studi, aveva rilevato che l’insorgenza di casi di patologia fisica e sociale raddoppiava negli abitanti che vivevano in spazi inferiori ai 10 metri quadri circa a persona. Ho trovato questa annotazione nel volume La dimensione nascosta (1968) di Edward T. Hall, in cui l’autore si occupa di delineare quella che lui definisce prossemica, ossia l’insieme di osservazioni e teorie sull’uso umano dello spazio: «Muovendosi attraverso lo spazio – scrive Hall -, l’uomo organizza e consolida il suo mondo visivo (e mentale), avvalendosi dei messaggi che egli riceve da tutto il corpo. In assenza di queste reazioni corporee, molti perdono il contatto con la realtà e sono vittime di allucinazioni». Al di là di qualsiasi deduzione eccessivamente catastrofica, è evidente che gli abitanti fotografati per il sito Vice vivono percependo che lo spazio intorno a loro è minimo; e se è vero, come continua Hall, che «l’uomo ha una percezione dinamica dello spazio perché essa è connessa all’azione, cioè a ciò che si può fare in un determinato spazio e non solo a ciò che si vede», è indubbio che questa percezione provocherà in loro un senso di frustrazione.
Un’altra annotazione interessante nel libro di Hall, certamente nota a chi abbia qualche conoscenza della cultura nipponica, riguarda il modo in cui lo spazio è sentito: «in Occidente si percepiscono gli oggetti, ma non gli spazi che li comprendono; in Giappone, invece, gli spazi sono percepiti, denominati e venerati come il ma, o intervallo intercorrente»; il ma costituisce uno dei capisaldi dell’architettura giapponese. La forma mentis occidentale porta a considerare lo spazio non occupato come vuoto e non, semplicemente, come spazio, dunque l’abitante sviluppa una tendenza al riempimento; l’horror vacui non è molto distante.
In Espèces d’espaces Perec racconta di aver più volte provato a immaginare uno spazio domestico inutile, completamente afunzionale; non ci è mai riuscito perché, come afferma lui stesso, «lo spazio è un dubbio», e dunque non si può concepirlo senza riempirlo, e non si può riempirlo senza pensare alla cosa con la quale lo si sta riempiendo. Eppure, come annota a margine, gli sembra che l’esercizio, per quanto fallimentare, sia stato importante: forse perché sottolinea il carattere di spazio come possibilità – intesa non come possibile funzionalizzazione del vuoto, ma come condizione temporanea e imprevedibile del non ancora realizzato.
Può sembrare decisamente utopistico occuparsi di prevedere in casa persino uno spazio da lasciare abbandonato, uno spazio-dubbio; eppure, su larga scala, se cioè ci spostiamo dall’appartamento al pianeta-mondo, è a qualcosa di simile che si riferisce Gilles Clément quando parla dell’importanza del terzo paesaggio, cioè dello spazio che è sfuggito al dominio dell’uomo, o, più precisamente, che è stato da questi occupato e poi abbandonato. Il terzo paesaggio è il rifugio della diversità e si caratterizza, fra le altre cose, per la sua indecidibilità; Clément spiega che può essere visto «come la parte del nostro spazio affidata all’inconscio». «Il terzo paesaggio è una necessità biologica che, condizionando l’avvenire degli esseri viventi, modifica la lettura del territorio e valorizza dei luoghi abitualmente considerati trascurabili»; per «organizzare il futuro», per ben gestirlo, è fondamentale prevedere degli «spazi di indecisione».
Clément è arrivato a definire il terzo paesaggio partendo dallo studio del giardino: già il «giardino in movimento» consisteva in una ipotesi di spazio che si ispirasse alla friche, ai terreni incolti, e dove la vegetazione potesse proliferare nel modo più libero e indipendente possibile. Oggi l’autore definisce il giardino come «lo spazio in cui il sogno è autorizzato», o anche, secondo la splendida formula contenuta nell’Abécédaire, uscito in Francia quest’anno e non ancora tradotto in italiano, come «il territorio mentale della speranza».
Speranza, sogno, luogo della differenza, dell’imprevisto: i termini usati da Clément sembrano costituire il lessico di una stessa concezione dello spazio terrestre, che preveda anche la presenza di uno spazio-dubbio, incolto o parzialmente incolto; una sorta di riserva protetta dell’inconscio. Clément lavora nell’ottica di un progetto di ecologia politica, di un programma di protezione della biodiversità, ma non trascura la prospettiva del singolo, la possibilità di essere dell’abitante: così come è importante su scala planetaria, lo spazio che Perec definiva afunzionale, e che manca nelle foto scattate da Macherez, non mi sembra trascurabile ai fini di un abitare possibile, prescindendo dalle dimensioni effettive dell’abitazione. Basta un angolo, una parete lasciata en friche, ma in verità basta anche soltanto l’esercizio mentale – fallimentare ma importante, come per Perec – di riflettere sullo spazio che si ha intorno al di là di qualsiasi fine utilitaristico.
In una bellissima poesia intitolata Disattenzione, Wisława Szymborska scrive: «Oggi mi sono comportata male nel cosmo. / Ho passato tutta la giornata senza farmi domande, / senza stupirmi di niente». Lo spazio-dubbio è quello che apre alle domande, alle possibilità; fra le cose che esige da noi «il savoir-vivre cosmico», come Szymborska lo definisce, forse c’è anche il suo riconoscimento.
Da un po’ il Guardian sta portando avanti un reportage-sondaggio sull’abitare nel Regno Unito; chi è stato per un po’ a Londra sa che il costo degli affitti è esorbitante a fronte di spazi vitali striminziti: 1000 sterline per una stanza condivisa in un appartamentino con un bagno e altre quattro persone sono nella media. Gli stipendi non sono proporzionali, e il flat-sharing è la normalità anche per insegnanti o impiegati di banca. C’è allarme e consapevolezza dei limiti che questo comporta (come comprare una casa, fare una famiglia, ecc.ecc.). Un po’ mi viene da ripensare ai tenements ottocenteschi (i giganteschi e insalubri condomini occupati dove si dormiva ammassati in stanze prive di finestre), ma forse il paragone è eccessivo. Un po’ mi viene da pensare alla sottrazione del tempo che le nuove forme di lavoro comportano (disponibilità illimitata, in presenza o in ambiente virtuale, licenziamento con un giorno di preavviso, ricollocazione geografica a sorpresa, ecc) e mi pare che la contrazione dello spazio non ne sia che l’inevitabile coinquilina.
In effetti sono già tornate anche le camere date in affitto a mo’ di pensione dal proprietario magari anziano che risiede nella stessa casa (mi viene in mente un racconto di Alan Bennett letto di recente) e probabilmente torneranno altre soluzioni che porteranno inevitabilmente a un rimodellamento delle forme di vita. Quello che mi chiedo è se a un certo punto la metropoli arriverà a un livello di inabitabilità tale da perdere una porzione consistente della sua capacità di attrazione, cosicché l’obiettivo diventerà fare di tutto pur di non dover andare a vivere in città (cercando quindi delle soluzioni lavorative che consentano di risiedere altrove).