Le responsabilità del precario (nell’epoca del “cognitariato”)
di Andrea Inglese
Intorno agli anni Novanta, storicamente parlando, io stavo finendo di studiare, o mi ero già laureato, conseguendo (fuori corso) un’accurata laurea in filosofia, quindi con alcuni amici, che stavano anch’essi conseguendo, o avevano conseguito lauree in giapponese, psicologia, o storia della medicina medievale, si andava a caccia di lavoretti, che erano molto necessari, ma non tanto influenti sul nostro destino economico, e neppure su quello del paese, dal momento che il Prodotto Interno Lordo continuava, con tale andazzo, a rimanere al palo. Di lavoretti ce n’erano in giro, non tantissimi, ma erano di varia natura: bisognava spiare gli amici cari, i conoscenti, gli zii, e anche portinai e baristi di fiducia. L’importante era non rispondere agli annunci su “Secondamano”, che già allora, prima che esistessero certe fiabesche offerte di lavoro sul web, promettevano straordinarie carriere grazie al semplice salire e scendere da furgoni pieni di volantini pubblicitari. Il mio amico grafico disegnava chiostre di denti per un mensile odontoiatrico ed era molto invidiato. La specialista di medicina medievale traduceva, dall’inglese, istruzioni di caldaie. A tutt’oggi, credo che tradurre le istruzioni di caldaie sia una delle attività più redditizie, dopo quella di top manager. Io ero entrato in una cooperativa che si occupava di raccogliere la pattumiera dell’Idroscalo, a Milano. Avevamo un vecchio camioncino che la domenica mattina riempivamo con i sacchi neri sparpagliati per il parco. L’unico inconveniente erano le canne che gli altri tre colleghi fumavano in continuazione, e che sfociavano in pazienti disquisizioni sul cinema americano, sugli sport motoristici e remieri, e sul sesso con le donne sposate. In pratica, le disquisizioni con canna dilatavano grandemente i tempi della raccolta, e il rapporto tra salario e orario di lavoro raggiungeva proporzioni da fabbrica tessile cinese. La vendita del “Calendario del popolo”, fondato nel 1945, costituì per qualche tempo una soddisfacente alternativa. Il numero su Togliatti non andava a ruba, ma ogni copia venduta implicava un guadagno netto del 50% del prezzo di copertina. L’editore, però, per alzare la nostra produttività, sobillava la competizione tra venditori. Eravamo in diversi, riuniti in gruppi di due o tre, a piombare famelici sulle medesime manifestazioni contro il governo. Nessuno di noi, però, accettò di entrare nel comparto dei venditori della Storia universale dell’Accademia delle Scienze dell’Urss (13 volumi, 27 milioni 653mila 446 battute, 280 carte geostoriche a colori), anche perché, se ben ricordo, l’Urss stava cessando di esistere.
Di contratti, durante quegli anni, non ricordo di averne firmati mai, e di neppure averne sentito parlare, ma qualcuno prima o poi pagava, e questo era per noi garanzia ultima e indiscutibile dei diritti delle genti lavoratrici. Un periodo incredibilmente fausto fu poi quello delle carceri. Non so come, entrammo nel giro dei formatori informatici delle carceri della Lombardia. Per chi non se ne intendeva minimamente come me, era un lavoro rischioso: trovarsi in alta sicurezza, con un drappello di assassini professionisti, a millantare competenze tecniche inesistenti. Fu lo sprone maggiore a una veloce alfabetizzazione informatica. E fu anche l’occasione di un apprendistato importante: imparammo a lavorare oggi, per essere pagati due anni dopo. Quando si esaurì il filone carcerario, molti di noi, filologi romanzi e filosofi teoretici, potemmo finalmente dedicarci ai bambini autistici, a persone con varie forme di disturbo mentale e sociale, ad ex-alcolisti depressi. Dopo quattro ore pomeridiane passate con Mario, un giovane handicappato psichico, tornavo e casa e mi buttavo a faccia in giù nel letto, come se avessi spostato per tutta la giornata sacchi di cemento. E questo non era più un lavoretto. C’era pure un contratto, e ci pagavano, mi pare, a distanza di solo qualche mese. In supervisione, persone di grande umanità ed esperienza ci ascoltavano assennatamente. Purtroppo, il numero di individui che dovevamo assistere era limitato. E ognuno di noi sognava, per aumentare il proprio monte d’ore, la crescita contestuale della deficienza psichica e fisica, oltreché sociale, dei nostri concittadini. Più matti e dissociati c’erano, più depressi e borderline si palesavano, più lo stipendio nostro s’infoltiva, anche perché, in quanto “educatori”, non eravamo pagati profumatamente. Si guadagnava in proporzione alla quantità di malessere sociale.
Non è che non ci rendessimo conto della fregatura, ci eravamo in mezzo, e i margini di manovra diminuivano di mese in mese. Ci sentivamo un po’ dei perfetti coglioni. Non avevamo fatto economia e commercio né ingegneria. Cominciavamo a pagare care le nostre velleità umanistiche. E chi non aveva neppure una laurea, finiva dritto all’Esselunga ad affettare salumi. Ma nessuno di noi, gran sfigati quali eravamo, sapeva allora di appartenere a una categoria importante: “i precari”. L’introduzione della categoria di “precariato” fu un’incredibile invenzione umanitaria oltreché sociologica. Ognuno poteva, ora, uscire dalla propria sfiga individuale, dalla sua incapacità di fare soldi, di combattere all’arma bianca per ottenere un posto di lavoro, strappandolo a mille altri concorrenti. Gli ultimi saranno i primi: di noi sfigati finalmente avrebbero parlato tutti, anche i ministri. Persino i giornalisti di “Repubblica”, quelli davvero ben pagati, con l’appartamento in centro a Roma. E i professori universitari, anche loro, che ci avevano fatto un salutino con la mano, dopo la laurea, come a dire, andate e disperdetevi, ma soprattutto non tornate, non fatevi più vedere nelle ore del colloquio, siete materiale ingombrante e imbarazzante. Ora si mettevano a scrivere articoli, libri, a organizzare seminari sull’argomento. Alcuni cominciarono a teorizzare molto su quelli come noi, perché di anno in anno ce n’erano sempre di più di sfigati, che non sapevano come fare soldi e come strappare un posto di lavoro. Adesso, però, che nessuno è più sfigato, ma semplicemente “precario”, e per di più è un lavoratore culturale o cognitivo – non uno che ha studiato filologia romanza e lavora sottopagato e senza contratto in una casa editrice – ebbene a questo tipo qui, adesso, gli tocca prima o poi di fare pure la rivoluzione, perché lui è senza ombra di dubbio l’avanguardia delle forze produttive, pare sia una legge storica, quindi è tempo che, oltre a correggere chili di bozze, e a combattere per farsi pagare quelle già corrette, si dia da fare per avviare forme di autogestione e circolazione alternativa dei saperi, saltando a piè pari l’economia di mercato e lo statalismo. Più uno fa lavoro immateriale, e deve spremere i neuroni invece che i muscoli, e pescare nelle poco redditizie conoscenze universitarie, più ha in mano le leve del mondo innocente che verrà, privo di sfruttamento e concorrenza. Queste sono oggi le responsabilità del “precario”, soprattutto se cognitivo. E se prima, chi decideva di non leccare il culo al capo e di non pugnalare il proprio collega, se ne tornava a casa nella sua risaputa condizione di sfigato, ma con un certa conservata dignità, ora deve tornarsene a casa con sulle spalle anche il fardello della rivoluzione da fare, perché essere sfigato e basta non è neppure più dignitoso. Insomma, io sono contento che ora si parli universalmente dei “precari”, che mi sembra una cosa buona far uscire ognuno dall’ombra della propria sfiga individuale, ma però anche non li invidio troppo i “precari” cognitivi di oggi che, appena svegli, oltre a trovarsi un lavoro decente, devono pure abbattere il sistema capitalistico.
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[Questo testo è raccolto nel volume Le culture del precariato, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Ombre corte, 2015. Vedi anche – nello stesso volume – Critica del lavoratore culturale.]
Mi viene in mente un aneddoto personale: a un incontro pubblico sul precariato e sullo sfruttamento del lavoro cognitivo, e sulle sue sorti magnifiche e progressive, si fece avanti una persona che civilmente fece notare a uno dei relatori di essere un ipocrita, poiché non gli aveva pagato i contributi nel corso di un precedente rapporto di lavoro. Nessuno dei relatori volle cogliere la pertinenza della situazione, e anzi si cercò di dissuadere privatamente la persona, compito in cui si mostrò molto zelante un noto giornalista culturale presente.
Un conto è essere un precario della conoscenza, altro conto è essere lo sfigato che lavora in nero.
Il libro è acquistabile su Amazon: Le culture del precariato
Be’ un episodio di cui avrei voluto davvero essere testimone. In ogni caso, quando si lavora con certi “compagni”, okkio al cranio, casco e parapalle.
Aggiungo anche io un aneddoto personale, che mi pare possa approfondire il dibattito.
Anni fa collaboravo con un giornale (ovvero venivo pagato soltanto sulla base degli articoli che effettivamente mi venivano pubblicati). Chiesi un incontro con il capo dell’amministrazione per verificare la possibilità di un rapporto di lavoro più strutturato, come potenzialmente previsto dal contratto nazionale dei giornalisti. Mi disse che lui gestiva circa 300 collaboratori, e che però alla porta ne aveva circa il doppio che chiedevano di poter lavorare. E quindi, da un giorno all’altro, lui poteva far smettere tutti i collaboratori storici e rinnovare totalmente la squadra – a costi individuali magari inferiori a quelli che stavo chiedendo io. Secondo lui (me lo diceva in confidenza) ciò non avrebbe influito poi molto sulla qualità del giornale in edicola. I lettori non si sarebbero in pratica accorti di niente.
I lettori, invece, mi pare si accorgano benissimo che la qualità dei mass media è in diminuzione. Ma forse questo è un altro piano del discorso.
Guido Tedoldi
con i miei 74, laureato a 23, ho subito trovato lavoro salvo dover ricominciare a 40 gettandomi sul manuale, niente di che… poi a 60 ho assaggiato qualcosa (del precariato)…ma avevo alle spalle una pensione (minima)….ora, malgrado l’età, quello che capita (a voi giovani) mi riguarda eccome (i figli che ho sparsi per il mondo se cavano bene…)…quanto accade in Italia è…abnorme, ma basta guardare un attimo il telegiornale (Renzi, Brunetta, Sgarbi….persino….Crozza…dice cose da piangere e….si ride)…quanto durerà?…prima da giovane e poi da vecchio, il solo sentimento che mi anima è la vergogna, vergogna per i teatrini parlamentari (salvi i pentastellati…), vergogna per la nostra scuola etc. Oltre a ciò? Sperare.
Caro Andrea INGLESE,
Lo scritto è bellissimo e verissimo. Sono della sua stessa generazione, e ho
vissuto le sue stesse deludenti esperienze, a roma prima ove mi sono laureato in Medicina nel 1989 alla sapienza(con il 110/110 e lode, e con le congratulazioni della commissione, ciò dopo la volontaria e coraggiosa fatica delle quindici ore giornaliere di studio per lunghi anni), poi a milano ove risiedo tutt’ora.E ho maturato nel tempo le stesse convinzioni che descrive qui sopra.
Oltre ai doverosi approfondimenti tecnici disciplinari del campo, il personale percorso filosofico-umanistico dal sottoscritto intrapreso in questi quarant’anni di vita in italia mi permette di farLe i sinceri complimenti, per
la variegata complessità dei temi che tratta nei suoi scritti, i quali non sono poi cosi’
facilmente abbordabili per chi non ha una certa levigatezza con i temi profondi ed
inter-connessi.
Mi è venuto naturale, tuttavia, reagire a questo scritto, scrivendoLe il
presente commento perché: nel titolo, ha usato una bellissima espressione ” era del
cognitariato”(che corrisponde al vero, che non avevo fin’ora mai sentito usare da nessuno
altro nelle mie sicuramente limitate letture degli scritti multimediali che ci bombardano
oggi, ma che mi interessa ), di cui non ha fatto cenno nel corpo dello scritto.
Essendo Lei un filosofo, e come ho già detto prima molto realista, mi chiedevo (e Lei mi ha lasciato con il dubbio)se Lei ha usato l’espressione “COGNITARIATO” ( anziché ” COGNITIVO ” ) : a) dal punto di vista linguistico generale : semplicemente come una semplice sostantivazione ed interscambiabile a “cognitivo”; b) oppure che l’ ha usata dal punto di vista della filosofia della mente , della psicologia o della neuro*-scienza, con particolare cognizione di causa, magari come particolare concetto fenomenistico,descritto mediante un neologismo onomaturgicamente da Lei o da qualcuno inventato ???!!!.
Con tutto quello che Lei ha da fare, senza pretendere che Lei perda del tempo prezioso dietro alle curiosità e limitatezze conoscenziali del sottoscritto, mi basterà poter ricevere una semplice risposta, anche più in là e quando avrà tempo da perdere, che mi disambigui se ermeneuticamente parlando, la sua intenzionalità comunicativa era nella posizione a) oppure in quella b).
UN CARO SALUTO! & TANTI AUGURI !
MBANDA’ LUWA
Milano, il 12/10/2015