150 anni di Alice : Del cadere
150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI. (NDF)
di Mariasole Ariot
Di identificazione in identificazione Alice diventa il diventabile delle grandezze. Piccola come una coda di topo, grande come il cannocchiale più grande, piccola come formica, o becco, diventa lago, si perde nella pozzanghera, in muta perenne dodici volte. Il corpo vivente si trasforma e parla, mentre la testa, staccata, resta stesa sul prato, o forse seduta, accovacciata, una testa mozzata : ma come mozzare una testa a chi non ce l’ha? – chiede il Re.
Non si può tagliare una testa se non c’è un corpo a cui tagliarla
Qualunque cosa abbia una testa può essere decapitata
Una testa
si può tagliare comunque1 – chiude la Regina.
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La mia prima lettura è stata di paura, è rimasto un terrore a sottofondo, come dev’essere quel dire l’incerto al di là di ogni scientismo, come dev’essere la fiaba. Alice si trasformava e io mi trasformavo : come un elefante – l’oggetto/corpo più grande che potessi immaginare, piccola come un ago – l’oggetto/corpo minore che faceva del corpo una miseria, uno scarto scartato dal gioco della stanza da letto : a pancia in su, le gambe alzate per camminare sul soffitto. Ma come può un ago camminare? Come può un elefante occupare una stanza, occuparla tutta?
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Eppure era la caduta ad ansimare, quando l’identificazione di Alice poteva passare non per l’Altro ma per la caduta stessa : diventare la caduta, diventare non l’essere che cade ma il pozzo senza fondo, il cilindro che continua a precipitare. Come nella melancolia il corpo è già morto e non può morire, così nel sogno il corpo è già caduta e non può non cadere, diventa l’essenza stessa di ciò che lo trascina a fondo. Alice – e sembrava passassero millenni – trova infine un suolo. Ma il suolo non è un suolo, è una tana da cui ancora è possibile cadere.
Quanto cadere è dato nella caduta, quando cadere è codificabile, animabile, animale e dimostrabile?
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A pancia in su, a gambe alzate, percorrevo strati di soffitto invertendo i sensi del pavimento, le strutture dello spazio : dov’è l’alto è il basso, dove il basso è l’alto. E questo gioco infernale mi diventava, come una parola detta troppo forte, urlata nell’urlo che la mastica e la sforma fino a formare un nuovo corpo. Corpo di parola che incarna e si incarna nel soggetto. Avevo paura, alla prima, alla seconda lettura, ho paura anche adesso, mentre il libro è aperto e la caduta è libera, un vuoto pieno che continua incessante nel suo vuoto.
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Explain yourself! – dice il Bruco : spiega te stesso, alla lettera. Ma la spiegazione è impossibile e impensabile, un appello che scaraventa nel peggiore degli incubi : dire se stessi, conferire un nome ad uno spazio vuoto, ad una piccola miseria, un resto di sé che infinitamente resta resto e infinitamente resta in vita. Explain yourself! Non spiegarti ma annunciati, non annunciarti ma denuncia un’esistenza. Mentre il Bruco parlava nella pagina, io mi cancellavo, trovavo parole per poter scartare l’appello :
un ago di pino
un gatto
una figlia
una mano
la mano di una figlia
la figlia di una mano
[nel sogno le mani figliavano : mille mani in un corteo in mezzo al bosco, mani partorienti, da un’unghia nasce un dito, da un dito nasce un figlio]
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Poi le parole cadono nel vuoto : parole che cadono, che non arrivano, che non riescono ad incidere la pietra, che non sono pietra. Ma la caduta di Alice non è una parola che cade, è un corpo in divenire che si prepara alla mutazione : Alice cade e la trasformazione è già nella caduta, tutto è annunciato, è già tutto lì : nella caduta gli organi si mescolano ai vicini. Il corpo diventa allora caduta di organi, precipitare stesso della materia all’interno della materia.
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Mi chiedevo cosa sarebbe accaduto all’interno di un corpo che fosse precipitato, se ogni organo per spinta gravitazionale risalisse alla testa. Mi rispondevo urlando, con la testa piena d’uovo, la spina dorsale incrinata, la schiena ancorata alla superficie per nulla liscia del letto adulto. Alza le gambe : cammina, smettila con le domande, falla finita con la decomposizione, accetta la resa. Mi alzavo e tornavo a giocare con Alice sulla spalla destra come un pappagallo.
La mia paura si chiamava Alice, si chiamava caduta, si chiamava senza fine.
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Diventare caduta è allora l’opposto del cadere : là dove c’è un inizio e una fine del precipitare, dove un piede cede e aspetta l’atterraggio, qui – nell’essere stesso del cadere – si tratta di compiere un passo verso la disidentificazione di un soggetto (se c’è soggetto) per mutare nell’attorno, nell’atto stesso che viene compiuto. Alice cade, e nel cadere assume la forma, seppur non ancora mangiata o bevuta, del cadere stesso. Uno scivolare che non si cura particolarmente del cosa l’attende, piuttosto si fa attesa, vuoto che cade. La mia paura si chiamava, di nuovo, Alice : la caduta della caduta.
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Alzavo nuovamente le gambe per attraversare un corridoio invisibile, con la corazza di tartaruga sul dorso mi muovevo immobile per sentire un aggancio, ma il letto sprofondava sotto la superficie terrestre – arriverò al centro della terra, pensava Alice – e il centro non arrivava mai. Nel frattempo, l’aria intorno , come fumo, come follia che non più paragonabile all’acqua diventa allora fumo2, si faceva palpabile ma arresa anch’essa al vuoto. Un incontrollabile deformità delle zone interne ed esterne, un continuo palpitare del corpo che nell’affondare assume le sembianze di ogni forma vivente e non vivente. Alice era la lì con me, e detestavo la sua noncuranza. Lei, capace di precipitare sapendo di atterrare, io, senza fondale.
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Per uscire dalla caduta perenne si tratta allora di considerare uno spazio delimitato, confinato : riprodurre bordi, bordature, cornici, dare la forma di una pagina o di una casa, fare della pagina una casa. Nell’atto della scrittura è possibile rintracciare un fondo, un pavimento che regga. Non più morto che non può morire perché già morto, ma morto che continua a morire perché mai morto, perché non ancora morto, perché non ancora caduto, perché nell’ultima pagina si rintraccia la fine del verbo in movimento. Un punto smette di essere superficie.
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Alice, fa’ che la testa mozzata non sia testa, di’ che ad un corpo senza testa non è possibile mozzare, di’ la voce, di’ che un pozzo ha sempre un fondale, di’ che mi spezzerò le gambe ma avrò steccati per ricostruirle, di’ che una tazza di tè raccolta al volo è la prova dell’esistenza di un muro, di’ che ho bisogno di muri, di’ che gli angoli sono angoli e non spigoli, di’ che ho paura, di’ che la paura passi, di’ che un passo non è un testimone, di’ che i libri non sono oggetti chiusi, di’ che i conigli non escono dai cilindri, di’ che ho bisogno di tremare, di’ che tremare non è perdere in vita, di’ che la vita è immonda, di’ l’immondo del vuoto, di’ che ho fame di questo mondo, di’ che ho paura, di’ che il mondo ha un fondale : di’ il fondale.
1Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, trad. Di Masolino D’Amico, Classici BUR, 2015
2Michel Foucault, Follia e discorso – Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste. 1961-1970, Universale Economica Feltrinelli 2014
“di’ che tremare non è perdere in vita”, bellissimo testo, Mariasole, grazie, e grazie a Francesca che ci regala questa serie di piccole meraviglie.
una piccola meraviglia, sì!
MOLTO BELLO!
Con quel coraggio di cui ci narrano le favole, Mariasole!
di’ che nel fondo si ancorano piccoli radici
[ molto bello e pro-fondo ]
,\\’
Grazie, carissimi. Da qui, ancora con la schiena poggiata al suolo e le gambe rivolte al soffitto. Se un suolo esiste, se è il luogo in cui “nascono le piante”.