Wargames?
di Daniele Ventre
Nel contesto ingravescente delle tensioni internazionali nel Mediterraneo orientale, la Turchia è di fatto, agli occhi dei Russi, uno Stato canaglia -e forse, se dobbiamo dar retta a certe analisi non di parte, lo è davvero. Se la Russia dovesse seguire l’American way of life a noi sì caro, dovrebbe attivare contro Ankara il crescendo di sanzioni, blocco navale, bombardamento a tappeto/guerra guerreggiata che tutti ben conosciamo e che ai coraggiosi avventurieri xenofobi di tanta politica nostrana piace caldeggiare, quando fa al caso nostro. Ma la Turchia è nella Nato, fa pressioni per entrare nell’Unione Europea, che le offrirà, dice, tre miliardi di euro di aiuti, salvo poi dividersi su chi deve sborsare quanto.
Per ora l’Unione Europea, ovvero la Germania, ha di fatto già ingaggiato sottobanco la Russia nello strisciante ed equivoco conflitto ucraino, senza che le rispettive pedine superassero lo stallo o si uscisse dal gioco di proclami e contro-proclami. Al momento siamo nella tipica situazione che precede una guerra guerreggiata su larga scala e che pertanto potrebbe degenerare nel giro di poco tempo (al massimo i due anni che intercorsero fra l’attentato al WTC e lo scoppio della seconda guerra del Golfo).
Ciò potrebbe avvenire secondo modalità imprevedibili, la più immediata delle quali è il riproporsi in Turchia della situazione ucraina, o peggio della situazione siriana (con Erdogan nel ruolo di Assad), in base alla sequenza: basi militari russe in Siria – sponsorizzazione russa di Assad in Siria e contraddittoria sponsorizzazione russa dei Curdi in Turchia -proclami mediatici putiniani- guerra civile in Turchia -estensione dell’area di conflitto etnico-religioso in piena NATO, con esiti imprevedibili di confronto diretto, previa la potenziale costruzione, mediatica e/o operativa, di un artificiale casus belli per irresponsabile scelta di una delle due parti (più verosimilmente, mi duole dirlo, il Pentagono che il Cremlino), dopo una serie di paralizzanti veti e contro-veti in seno al consiglio di sicurezza ONU.
Questo significa incidentalmente un’altra cosa: non siamo di fronte, come qualcuno ha detto, a una guerra interna all’Islam, la cui rilevanza è fondamentale solo come strumento, il più rumoroso degli strumenti di lotta -e la deminutio qui è voluta. Abbiamo davanti una guerra fra gli interessi inconciliabili delle grandi potenze per quanto attiene al controllo delle fonti di energia e delle aree di passaggio di gasdotti e oleodotti, e in ultima analisi alla creazione di grandi spazi finanziari sovranazionali: al problema degli USA di consolidare un mercato comune atlantico sottraendolo al potenziale ricatto energetico che la Russia potrebbe esercitare sull’Europa occidentale, rendendo quest’ultima per gli USA un “alleato” -sarebbe meglio dire, una provincia- instabile nel quadro del loro impero egemonico, e al problema della Russia di consolidare la sua nascente Unione Eurasiatica e di conservare un minimo di spazio vitale nelle aree che tradizionalmente facevano parte della sua sfera di influenza durante la guerra fredda. I leader islamici più o meno estremisti come Erdogan, o Assad, sono soltanto alcune fra le pedine di medio rango nel quadro generale di una linea di conflitto che va dal Golfo Persico al Kurdistan, dai Balcani all’Ucraina, con una significativa deviazione geografica che passa anche per gli Stati delle ex-primavere arabe.
Come multinazionali della diplomazia al servizio della finanza, del mercato e dell’energia, gli imperi in guerra offrono ai singoli contendenti diversi pacchetti di trattamento: ipocrite blandizie (vedi l’atteggiamento NATO verso il Montenegro), pressione ideologica, guerra civile, massacro generalizzato, nella misura in cui la linea di conflitto si allontana o si avvicina alle aree opulente o per tradizione “tranquille” a partire dal 1946. In questo quadro generale, la politica egemonica dell’occidente non può nemmeno giovarsi più dell’aura residuale di universalismo che ha avuto durante la guerra fredda, né può trincerarsi dietro il mito della difesa dei diritti e della democrazia, visto il connotato francamente genocida che le campagne USA hanno finito per rivestire sin dalle operazioni Giustizia Infinita e Libertà Duratura, e visto il bel risultato ottenuto, e ammesso in parte con urtante franchezza perfino da alcuni dei diretti responsabili, di moltiplicare il terrorismo e il fanatismo a beneficio dei mercanti d’armi e a discapito di tutti noi.
E c’è in effetti da aggiungere quest’altro sconfortante, e infamante, dettaglio. Nel teatro del conflitto sempre meno strisciante che si profila, la potenza autoritaria e aggressiva, che per guadagnare nuovi spazi ai suoi mercati compie un genocidio su scala continentale, e usa alcuni popoli e gruppi religiosi di cultura “semitica” contro altri (ebrei contro musulmani, musulmani contro musulmani), i malvagi che usano strumentalmente il Corano e la Bibbia e le loro derive fanatiche come assurda Lagersprache metafisica, polarizzando Kapò e internati, che in definitiva sono tutti vittime, l’impero del male da sconfiggere, quelli che combattono per la causa sbagliata, il cattivo insomma, siamo “noi”. Con tutti i difetti che il mondo islamico socialmente ancora arretrato evidenzia in molte aree (più spesso quelle dove allignano regimi di nostro gradimento), con tutte le pecche che lo “zar” Putin, autoritario capo di una democratura post-sovietica, mostra di avere e nessuno si sogna di negare, alla fine dei conti per la prima volta la civiltà occidentale non ha alcuna alternativa credibile da offrire al mondo. Se la scelta che si pone in medio oriente è preferire le infrastrutture, le strade ordinate e la normalità più o meno rassegnata di una dittatura dai tratti più o meno marcatamente teocratici, alla distruzione di ogni tessuto sociale decente e alla sua sostituzione con lo strapotere di stupratori e massacratori tribali o mafiosi in nome di Allah, con il contentino dei cento dollari al mese dello zio Sam alle famiglie dei bombardati o del latte in polvere della Nestlè paracadutato sui bambini del deserto, pare che per le popolazioni mediorientali la scelta sia evidente. Ed è questo che infine, nel prossimo conflitto, sia guerreggiato o meno, determinerà forse la nostra sconfitta. Resta solo da vedere se la gelata precoce del millennio americano (e occidentale) si deciderà in campo aperto, o con un pluridecennale declino dopo la parodia mediorientale, a ruoli invertiti, della vecchia crisi di Cuba