Games without frontiers
di
Azra Nuhefendić
Se dico “barbuto”, la maggior parte penserà ai terroristi islamici. La barba è una delle immagini del male che tormenta il mondo: ISIS, Al Qaeda, Boko Haram etc. Tutte queste sigle ci fanno pensare agli insorti e a terrore. Per difenderci dagli irsuti e dagli indesiderati il mondo Occidentale ha impegnato eserciti e le tecniche più avanzate, come i “droni”, ma si fa ancora “all’antica”, costruendo i muri. Le barriere di filo spinato costruite recentemente sui confini europei, per difendersi dai profughi, provocano appassionate discussioni “pro” e “contra”, come se fosse una novità.
Già da 23 anni esiste una tripla barriera di filo spinato in Spagna (prima fila costruita nel 1993, seconda fila nel 1995 e la terza fila nel 2005) innalzata per impedire l’immigrazione illegale dal Marocco. Nella città spagnola di Melilla la recinzione metallica è alta sei metri, dotata di sensori acustici e visivi, e lame taglienti (cuchillas). Le lame funzionano bene. Sulla rete, ogni mattina, le guardie trovano appesi, oltre a pezzi di stracci, anche frammenti di carne viva di chi ha tentato di oltrepassare il confine.
Il mio amico Riki ritiene che “tutto è relativo”. Gli piacciono questi assiomi filosofici, reminiscenze degli studi che non ha mai finito. La barba Riki la porta da quando gli sono comparsi i primi peli sulla faccia. Nelle sue foto da adolescente è tale e quale a Gesù: alto, magro, con lo sguardo dolce e benevolo che penetra tra la barba folta e i capelli lunghi.
Quando Riki, quaranta anni fa entrò dalla Spagna in Marocco (cioè facendo il percorso al contrario rispetto a oggi) la recinzione tra i due paesi non c’era. Lui era un tipico “figlio dei fiori”, uno di quegli hippy barbuti e capelloni, che professavano (e praticavano) la rivoluzione sessuale, il libero uso degli stupefacenti, la pace, la meditazione, lo stare insieme e il volersi bene, la musica, discutere di filosofia.
Per i barbuti di quaranta anni fa il Marocco era un posto di culto, una meta obbligatoria. Scavalcavano i confini superando ostacoli di varia natura per entrarci.
Nonostante il loro pacifismo, i barbuti hippy creavano parecchi problemi alle autorità di Rabat. Molti ci arrivavano senza un soldo e nessuna intenzione di lavorare per mantenersi. Campeggiavano sulle piazze principali, si sdraiavano per terra ovunque, sporcavano i cortili dei luoghi sacri, si spostavano senza biglietti, molti erano sprovvisti di documenti. Inoltre, con la loro filosofia del sesso libero e dell’uso della droga, disturbavano l’ordine pubblico, sfidavano le regole e le usanze della società patriarcale marocchina.
Per il loro aspetto gli hippy erano facilmente riconoscibili. La polizia li respingeva dai confini marocchini, indietro, in Spagna, con le mani nude, talvolta con i bastoni.
Ma Riki aveva una massima anche per queste situazioni. Citava Gandhi: “Ogni desiderio sincero e genuino, prima o poi si realizza”. E così, insieme a Riki, ci imbarcammo per entrare in Marocco, non però dalla città portuale di Tangeri, dove i controlli della polizia marocchina erano più severi e scrupolosi, ma dalla più piccola e meno sorvegliata Ceuta, città autonoma spagnola in territorio africano.
Il viaggio risale all’estate 1974 e la tappa in Marocco non era prevista nel nostro programma.
Il nostro obiettivo era di andare a Ceylon (che oggi si chiama Sri Lanka, il nome che deriva dalla parola sanscrita laṃkā, che significa “isola risplendente”).
India, Sri Lanka, Nepal, Iran, Afghanistan, questi paesi erano un “must” per gli hippy degli anni Sessanta e Settanta. Ci si andava per fare il pellegrinaggio, per apprendere direttamente dai guru i postulati della filosofia orientale, per discutere con i monaci buddisti il senso della vita, come ottenere la libertà e come trovare la felicità.
C’era un monaco buddista che noi amavamo in modo particolare: il prof. Čedomil Veljačić. Era un “nostro”, cioè jugoslavo, di Zagabria. Veljačić era un docente universitario. Si era trasferito nello Sri Lanka, aveva preso il nome monastico di Bhikkhu e stava con i monaci più poveri, mendicanti. Tuttavia il nostro Veljačić non aveva mai smesso di scrivere libri, articoli, saggi. Ci entusiasmavano le sue idee, ci ispirava la sua vita, leggevamo e discutevamo in gruppi, ad alta voce i suoi scritti e testi. Erano anni che facevamo progetti per andare a trovarlo.
Ma proprio quando stavamo per partire, ecco che un imprevisto stravolge tutto.
Una del gruppo, che da due anni viveva con il fidanzato in Spagna, ci manda un SOS: il fidanzato è sparito, lei è rimasta da sola con la bambina piccola, senza soldi né lavoro. Così decidiamo di cambiare l’itinerario del viaggio: saremmo andati prima in Spagna per soccorrere Neda, e poi avremmo deciso come proseguire.
All’epoca la Spagna era di Franco, cioè fascista, e tra i due paesi, la Jugoslavia e la Spagna, non c’erano rapporti diplomatici. Per entrare ci voleva il visto di transito che si otteneva presso il consolato spagnolo di Milano.
Partimmo all’inizio di luglio. Nel nostro gruppo c’era un futuro professore, docente di medicina, un matematico teorico che otterrà riconoscimenti internazionali, un filosofo, tutti hippy convinti, e di conseguenza: barbe e capelli lunghi, vestiti stravaganti, bagaglio minimo, uno zainetto di stoffa.
Spostarsi in autostop all’epoca era così comune e diffuso tra i giovani che non prendemmo in considerazione un’altra possibilità. Tutto filò liscio e avanzavamo velocemente, sembrava di far parte di una staffetta ben organizzata. Viaggiavamo divisi in due gruppi. L’appuntamento era davanti al museo “Prado”, a Madrid. Avremmo dovuto trovarci là, dopo cinque giorni, tra mezzogiorno e l’una, per poi proseguire insieme verso Barcellona, dove ci aspettava la nostra amica Neda.
L’appello di Neda ci aveva preoccupato così tanto da rinunciare al tanto desiderato viaggio in Oriente. Ma quando ci ritrovammo tutti nel punto stabilito, capimmo che la situazione non era tragica. Anzi, Neda ci raccontò com’erano andate le cose, alternando risate e lacrime.
Meglio così, avevamo concluso, discutendo se tornare subito in Jugoslavia oppure… imbarcarci su una nave da carico e proseguire per l’Oriente. Prevalse l’idea di andare in Marocco, poiché eravamo così vicini e che a far parte del gruppo c’era anche una bebè. E ci dirigemmo verso la città portuale spagnola di Algeciras.
La presenza della bambina, in qualche modo, evidenziava la coesione del gruppo. La trattavamo come la figlia di noi tutti, ci occupavamo di lei insieme, ci davamo il cambio per portarla in una sorta di marsupio, una grande tela fissata intorno a collo, come fanno le mamme africane.
Con il senno di poi, mi pare di essere stati troppo disinvolti, per non dire incoscienti, con una piccola che non aveva neanche un anno. Una neonata correva parecchi rischi in un viaggio del genere. Ma allora queste preoccupazioni non ci tormentavano per nulla.
Ad Algeciras dovemmo fermarci per tre giorni. La polizia spagnola non permetteva a Neda di uscire dal Paese con il visto di transito scaduto da due anni. Dovevamo aspettare il permesso da Madrid. L’unico inconveniente di quella palese illegalità era, appunto, il doverci fermare. Neda non fu né detenuta, né interrogata su dove stava e cosa faceva in Spagna per due anni con il visto di transito.
Dagli altri “figli dei fiori”, che girovagavano per la città, venimmo a sapere che era più facile entrare in Marocco passando per Ceuta.
In Marocco, lungo la costa dell’oceano Atlantico, ci spostavamo lentamente, con i mezzi pubblici che costavano pochissimo. Passammo per Rabat e Casablanca, poi ci allontanammo dalla costa per visitare Marrakech, e infine arrivammo alla tanto desiderata Essaouira, considerata la mecca per gli hippy.
Non facevamo i turisti comuni, non ci fermavamo per vedere le città antiche, i monumenti, le impressionanti fortezze medievali o i musei, non facevamo shopping. Seguivamo le orme degli hippy che c’erano stati prima di noi: Frank Zappa, Bob Marley e Jimi Hendrix.
Cercavamo e stavamo in compagnia degli altri hippy. In quegli anni in Marocco ce n’erano talmente tanti che spesso nelle città più piccole, superavano la gente locale, almeno per le viuzze e i suk. I marocchini erano cordiali, ci accoglievano, aiutavano, ci davano le indicazioni, ci accompagnavano nei posti che cercavamo. Ma nessuno, in venti giorni, ci invitò mai a casa propria. E questo ci pareva strano. Da noi, in Jugoslavia, è normale invitare a casa dopo aver scambiato due chiacchere.
Quando dicevamo che eravamo della Jugoslavia, la gente locale mostrava entusiasmo, ci dava pacche sulle spalle, esclamava il nome del nostro presidente Tito, qualcuno alzava due dita in segno di vittoria, oppure alzava il pollice in alto, per dirci che va tutto bene. Ci divertiva questo affetto, non lo trovavamo strano, anzi noi jugoslavi eravamo così abituati ad essere benvenuti ovunque andavamo, che la cordialità dei marocchini non ci meravigliava.
Non avevamo fatto nessun programma, non avevamo prenotato niente in anticipo, era tutto un’improvvisazione sul posto. L’impressione più forte di quel viaggio fu la lentezza con la quale si svolgeva tutto quello che facevamo. Come se la nostra vita andasse alla velocità di trentatré, invece di quarantacinque giri.
Può darsi che la lentezza fosse l’effetto dell’erba, che c’era in abbondanza. Te la offrivano gratis, si condivideva con gli altri, come del resto il cibo. Erano in molti a fumare, anche nel nostro gruppo, in pubblico, nessuna restrizione, seduti per terra in qualche piazza, o davanti al bar dove la gente locale si univa a noi in questo piacere.
E quando si esagerava, interveniva la polizia locale e picchiava con i bastoni.
Dopo venti giorni eravamo di ritorno. A Barcellona salimmo a bordo, in cinque, di una Volkswagen vecchia e traballante che Neda aveva ricevuto da un suo amico francese prima di tornare a casa. Era tutta scassata e mezza rotta, faceva rumore e dava l’impressione che da un momento all’altro sarebbe caduta a pezzi. Dentro si sentiva odore di benzina. Dopo mille chilometri scoprimmo anche che pioveva dentro.
Era agosto, il picco della stagione turistica, le strade piene di macchine, i confini congestionati. La “nostra” macchina aveva le targhe francesi, e probabilmente per questo nessuno ci controllava, e ci lasciavano passare i confini senza fermarci. Tutto andò liscio fino al confine di Fernetti tra Italia e Jugoslavia.
Era l’ultima frontiera prima di entrare in patria. All’epoca era anche il confine tra l’occidente e l’oriente, là passava la “cortina di ferro” che divideva il mondo comunista da quello capitalista.
Quel giorno pioveva a dirotto, anche dentro la macchina. In più la nostra bebè era irrequieta e appena arrivammo al confine cominciò a piangere.
Due miliziani (poliziotti) ci fermano e ci salutano gentilmente portando la mano alla fronte. Ci scambiano per stranieri, probabilmente giudicando dalla targa della macchina. Ma quando mostriamo i nostri passaporti rossi jugoslavi, il poliziotto che ci controlla s’irrigidisce, dal finestrino ispeziona dentro la macchina, guarda i barbuti e la bambina che piange, e sul viso gli appare un’espressione schifata.
Ci chiede i documenti dell’auto. Non li abbiamo. Incredulo, domanda chi è il proprietario della macchina, e Neda fa il nome del suo amico francese. Il poliziotto non capisce, poi chiede se uno di noi è “quello”. No. “Allora dov’è?” “Credo in Francia”, dice Neda. Il poliziotto diventa rosso in faccia.
La conversazione si svolge tra i pianti disperati della bebè, le nostre voci che cercano di calmarla e il battere della pioggia. Il poliziotto si passa le mani tra i capelli, poi si gira, fa due passi come per calmarsi e va verso il suo collega. I due poliziotti si guardano senza dire nulla, uno scrolla le spalle, e l’altro ci fa: “Marsch”… Ci manda a quel paese e ci lascia passare.
pubblicato su Osservatorio dei Balcani e Caucaso