Rappresentazione social di noi stessi
di Francesca Fiorletta
Solo nell’ultima settimana, mi è capitato di assistere a due “rappresentazioni” della nostra vita contemporanea, decrittate attraverso la lente (di ingrandimento?) dei cosiddetti “mezzi di comunicazione di massa”.
Il primo è un film, Perfetti sconosciuti, per la regia di Paolo Genovese, con un buon parterre di attrici e attori medio-giovani del momento. Il plot è davvero molto semplice: una cena e un gruppo di amici, quasi tutte coppie, che decidono, per ammazzare il tempo o per creare quel pizzico di zizzania che non guasta mai (?), di tentare una rivisitazione del caro vecchio gioco della verità. E, per far questo, al posto della benamata bottiglia che ha fatto da convitato di pietra alle nostre più riuscite feste delle medie, utilizzano i loro cellulari supertecnologici. Tutti smartphone, tutti con schermi ad altissima definizione, modelli addirittura interscambiabili (e infatti, da qui, nascerà un equivoco da manuale), tutti posizionati ad arte a faccia in su, schermo all’aria sul tavolo della mensa, a far da portata principale al banchetto amicale, che si trasformerà quindi ben presto in un vero e proprio girone dell’inferno. Salvo poi scoprire che, forse, non si è giocato davvero.
Dunque la tecnologia, nello specifico il telefono cellulare, come specchio (riflesso) del nostro essere più intimo, autentico, scatola nera che distrugge e rivitalizza il nostro sistema operativo dei sentimenti e della ragione in maniera del tutto arbitraria, solo talora a piacimento, basta azionare i giusti comandi, o cedere agli input sbagliati, e la frittata sembra fatta, crollano le certezze, si alzano di contro i muri della più torbida incomprensione.
In una sola frase: siamo tutti schiavi del sistema telematico. Ci sembra ancora tutto sommato un iperuranio governabile, ma in realtà è l’esposizione perpetua, continua e colposamente reiterata dell’abuso comunicativo che ci fa muovere come marionette sul palcoscenico dei giorni. O almeno, così sembra.
E qui, mi ricollego al secondo spettacolo. Trattasi di una performance teatrale della durata di non più di 45 minuti, di e con Claudio Morici, autore romano anche lui all’incirca quarantenne, che ipotizza un dialogo fra un nonno, che oggi avrebbe 15 anni, e suo nipote, con l’intermezzo di varie altre voci corali. Il tutto, si svolgerebbe nel vicino e lontano 2089. L’ultima volta che mi sono suicidato, questo il titolo, davvero accattivante.
Nel futuro molto prossimo di Morici, la barriera degli attuali social-network sembrerà ampiamente superata, così come quella ostica dell’impoverimento e della disoccupazione giovanile (e non): i bambini già da piccoli accumuleranno capitali ingenti, grazie alla compravendita di sostanze diciamo biologiche e naturali, tanto che alle soglie della pubertà saranno già tutti in grado di acquistare casa e indipendenza. Inoltre, e questo è un altro dato piuttosto interessante, tutti i ragazzi disporranno di almeno un profilo Facebook, ma lo terranno inutilizzato, così come gli obsoleti Tinder, Instagram, Messenger e WhatsApp, di cui pare impossibile fare a meno oggi, perché le loro attività di condivisione social(e) saranno migrate tutte su un’unica, abnorme piattaforma: Telepatia.
“Le vedi queste dita? Queste dita sono piene di calli!”, dice il nonno al nipote Robertino, con fare fiero e nostalgico, e poi spiega: “Noi, noi chattavamo!”, che riecheggia un po’ il “Noi credevamo” politicamente impegnato dei nostri padri, e il “Noi lavoravamo la terra” genuino di nonni e trisavoli, per chi ancora può dire di averli conosciuti.
Noi chattavamo, esatto, noi volavamo con la Ryanair e ci ammazzavamo di fatiche improbe e improbabili per risparmiare 12 euro su un biglietto da stampare all’ultimo minuto, noi facevamo l’interrail ma solo sotto i 26 anni, e ogni tanto, ancora, ci azzardavamo persino a uscire di casa a piedi. Nel 2089 si viaggerà ovviamente col teletrasporto, e le case saranno tutte spoglie d’arredamento, ma avranno soffitti enormi, soffitti da fissare quanto più tempo possibile, soffitti che ospiteranno la parte più importante della vita “associativa” di giovani e meno giovani: il social network dei social network, appunto, la Telepatia.
Sembrerebbe tanto una proiezione distopica e alienata della realtà, ma infondo, a ben guardare, non lo è. Come dice lo stesso Robertino, tutto sommato, “Sempre di messaggi si tratta”.
Ed è qui che mi sento di tornare ai Perfetti sconosciuti dell’inizio.
Certo, è vero, continuamente cambiano le modalità di scambio, inesorabili mutano i supporti tecnologici, e probabilmente ancora oggi non siamo davvero in grado di stabilire quanto McLuhan influisca sui nostri processi neuronali e evolutivi, quanto il medium internettaro, Facebookaro, WhatsApparo di cui siamo imbibiti (e spesso anche inibiti) costituisca davvero in ultima analisi il fulcro del “messaggio” che stiamo mandando a noi stessi e a chi ci circonda. Lungi da me negare la rivoluzione permanente dell’universo dei social network, come il potere magistrale degli smartphone che teniamo in mano, di media, per più di tre quarti della giornata.
Epperò, appunto, sempre di messaggi si tratta. Lo smartphone come il tavolino del bar sotto casa, il social come il mercato di quartiere al sabato, la tastiera del pc come la zappa e la vanga nell’orto (nel 2089 di Morici, si farà anche l’amore bio!)
Comunicare, questo verbo magico, genera anche, da sempre, incomprensione, istinti suicidi, tradimenti, passioni, alterazione della percezione della verità, svelamenti, misteri, occultamenti, che sia attraverso un soffitto, un tablet, o una voce di corridoio.
“Tutti gli interlocutori si spingono a vicenda in tutti gli abissi”, scriveva Thomas Bernhard, in un passaggio di Perturbamento che non mi stancherò mai di citare.
Siamo tutti dei perfetti sconosciuti, che mandano solo dei messaggi.
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Perché mi bussa alle porte della mente il drammaturgo di Girgenti?