La melancolia come simbolo della condizione umana
di Pierangelo Schiera
Quarant’anni di ricerche di Pierangelo Schiera, storico delle dottrine politiche, raccolti nel volume Società e Stato per una identità borghese. Scritti scelti. Già solo una lettura dell’indice restituisce l’immagine di un’intelligenza fluttuante, libera di muoversi in diversi ambiti storiografici – storia, storia dell’arte, della scienza, delle idee… – e capace di tenere insieme, in particolare grazie al concetto-guida di “melancolia”, riflessioni sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, sul significato socio-culturale della musica di Bach, sulla concezione weberiana di disciplina, sulla costituzione dell’identità borghese, insieme a molte altre trame. Con il consenso dell’autore condividiamo su Nazione Indiana un estratto dal capitolo “La melancolia come fattore originario del romanticismo: appunti sul caso tedesco”. Il libro, pubblicato come Quaderno n. 4 di Scienza & Politica, è interamente scaricabile in open access a questo link: < http://scienzaepolitica.unibo.it/pages/view/supplement > – altro merito del volume e dell’autore. (Alberto Brodesco)
Interrogarsi sul rapporto fra melancolia e romanticismo significa innanzi tutto chiedersi che cosa s’intenda per melancolia prima di quest’ultimo. L’ampia letteratura esistente sull’argomento mostra quanto profondamente radicata fosse la struttura della melancolia nella storia della cultura occidentale. Essa non fu assolutamente, come si sa, un’invenzione del romanticismo: bisognerebbe semmai porsi la domanda opposta, se cioè, in qualche modo, non sia stato proprio il romanticismo una creazione della melancolia. A tanto probabilmente non arriveremo, ma non ci fermeremo molto distante da lì nella nostra ricostruzione. Una cosa certa è che, nell’impiego plurisecolare, se non ultra-millenario, che il termine ebbe in tutte le lingue occidentali colte, si succedettero molti significati, anche concorrenti o in contraddizione fra loro (basti pensare alla contrapposizione più vistosa: quella fra melancolia intesa come segno di genialità o come segno di isolamento e di follia).
Tali mutamenti del campo semantico coperto dal nostro termine corrisposero sempre, com’è comprensibile, a trasformazioni profonde del modo di concepire l’uomo e la sua posizione nel mondo. Cosicché si può certamente adottare il punto di vista presentato per primo da Aby Warburg che colse nella melancolia (come espressa in particolare da Dürer nella sua famosa incisione del 1514) il puro e semplice simbolo della condizione umana. Ciò che, d’altra parte, corrisponde perfettamente alla semantica stessa del concetto di simbolo, recante in sé la radice nostalgica, se non già melancolica, della condivisione di un ricordo e di una speranza comune, forse da ricomporre in un futuro lontano.
Orbene, secondo tale interpretazione, la melancolia non può che acquistare un significato diverso tutte le volte che si afferma una nuova antropologia, una nuova concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Ciò equivale a collegare la storia della melancolia alla storia della modernità, in quanto è proprio quest’ultima a segnare le svolte nell’interpretazione di volta in volta data, sul piano filosofico come su quello empirico, all’esistenza mondana dell’uomo.
È sulla base di considerazioni di questo genere che io stesso condivido l’opinione di chi vede l’inizio di una nuova storia della melancolia proprio nell’epoca in cui si afferma per la prima volta in Occidente (ed è in tal modo che, a mio avviso, nasce l’idea stessa di Occidente) la possibilità di interrogarsi liberamente sul senso dell’uomo. Ciò accade solo a cristianizzazione avvenuta, cioè dopo la svolta del Mille, allorché si può ritenere universalmente accettabile il nuovo codice basato sulla possibilità di esistenza di un mondo tendenzialmente popolato di uomini liberi, laici, responsabili e razionali, cioè moderni. Da allora in poi, la melancolia ha accompagnato (spesso dotandole di peso e di qualità particolari) le fasi successive di modernizzazione dell’umanità occidentale, scandendo fra l’altro anche il carattere più tipico di quest’ultima nella sua stessa storicità politica: che è stato – almeno fino a oggi o a poco fa – la straordinaria capacità di socializzazione e dunque di sempre più sofisticata istituzionalizzazione dell’obbligazione politica.
Non è questa la sede per diffondersi su queste cose, ma era necessario prenderla così da lontano per comprendere il possente abbrivio, la forza d’inerzia che l’idea di melancolia già possiede quando incrocia il nascere del movimento romantico di cui vogliamo occuparci qui.
Tanto più importante, allora, è tornare a sottolineare che col romanticismo la melancolia acquista un significato del tutto nuovo. Si tratta però di chiedersi, a questo punto, se è il romanticismo a dare alla melancolia quel significato o se è quest’ultima a fare del romanticismo ciò che esso è stato. Dall’XI a tutto il XVII secolo, la melancolia era stata sempre studiata e considerata all’interno della fondamentale dottrina dei temperamenti. I quattro elementi empedoclei stavano alla base della più antica fisica e filosofia greca, i temperamenti erano a loro volta la base della costituzione individuale, in cui si condensò per secoli l’intero regimen sanitatis. A parte ogni altra complicazione va ricordato che, benché il regime migliore e la costituzione ideale fossero sempre ritenuti quelli dominati dal temperamento sanguigno, fu tuttavia a quello melancolico che venne prestata l’attenzione maggiore. Al punto che il termine impiegato per designare l’umore (melancolia, appunto, nel senso etimologico di bile nera) giunse ben presto a indicare il temperamento corrispondente, cosa che non accadde per nessuno degli altri tre umori (sangue, bile gialla e flegma).
Vero o non vero che ciò sia dipeso dalla prima avvertenza, attraverso il dolore (il mal di pancia, la colite), dell’oggettività e dell’autonomia corporea da parte dell’uomo greco, è assai attendibile riconoscere nella melancolia il segno di un’individualità, ma anche forse di un’umanità, che nel contesto occidentale sarebbe appunto diventata simbolica, come ci ha suggerito il già citato Warburg. Melancolia, sofferenza, individualità, umanità, dunque. Una plurima valenza a cui la nostra idea non riuscirà mai a sottrarsi lungo tutta la sua storia, a dimostrazione dell’intrinseca bipolarità che segna l’intima strutturalità che essa ha rappresentato per la storia dell’uomo occidentale. Tale plurivalenza si traduce nel modo più indicativo sul piano stesso della politicità, che rappresenta forse il campo in cui gli uomini occidentali si sono maggiormente distaccati, nel corso di pochi secoli, dagli altri gruppi culturali umani.
Rispetto alla politica, il melancolico svolge un ruolo profondamente ambiguo. Egli è, tendenzialmente, rustico e solitario, cioè a-sociale. Egli è malcontento e intollerante di ogni “conversazione”. Egli è sedizioso ed eretico e può essere ricondotto alla ragione solo grazie all’unico strumento di cura che la sua dis-ragione (la melancolia appunto) conosce, che è la disciplina.
Ma, contemporaneamente, il distacco dal mondo sociale proprio del melancolico è la qualità più richiesta dalla politica stessa a chi si deve far carico del governo delle sorti individuali: del sovrano in primo luogo, che come garante del patto sociale è opportuno che stia sopra le parti, distaccato dagli interessi in gioco e volto soltanto alla coltivazione e al perseguimento del bene comune. Si spiega forse così la grande fortuna moderna dell’antica giustificazione aristotelica, poi anche rinascimental-neoplatonica, della melancolia in capo ai sovrani, oltre che ai filosofi, agli artisti e ai grandi anacoreti. Come si spiega anche l’opposta, maniacale insistenza sulle più diverse pratiche di disciplina per tutti gli altri soggetti-sudditi, obbligati ad apprendere, a indottrinarsi, a disciplinarsi, per rendersi capaci di una seria e reale vita sociale e dunque, per tale via, per incivilirsi.
*img : Melanconia, acquaforte di Luigi Conconi, 1852-1917