Bracciate #3 – Silvana Lorenzi
Il terzo racconto della rubrica Bracciate è « Le veneziane gialle » di Silvana Lorenzi, un testo breve ambientato a Berlino. Lorenzi, invece, è nata a Milano, dove oggi vive; Milano segue e copia i suoi stati d’animo, e viceversa; per questa ragione, forse, litigano spesso.
LE VENEZIANE GIALLE
di Silvana Lorenzi
Quello era il momento della telefonata serale in cui la furia iniziava a batterle sulle tempie. In quel momento avrebbe ucciso per non morire soffocata da legami che, attorcigliati su per il collo, stringevano.
Invece si aprì una birra, voleva si sentisse dall’altra parte.
Continua pure, bla bla, ti ascolto, glu glu.
Se non stai alle regole mi farai ammalare. Se muoio la colpa sarà tua.
L’amore che conosciamo è ricatto.
Se infrango la legge potrei finire vecchia su una panchina, sola con una birra e un carrello di stracci e colpe.
Cercò conforto nella casa, vuota, ma calda.
Meglio tornare alle regole e rispettarle. Sempre meglio del ricordo del tuo profumo che a suo guizzo e pericolo mi si abbatterebbe addosso come l’ascia su un tronco.
In fondo ti devo tutto.
Quando stavo a Berlino ricordo lo struggimento che provavo nell’aprire i pacchetti che mi mandavi.
Una volta da un paio di jeans, ormai importabili, hai cucito una minigonna che mi stava a pennello.
Non riuscivo a spiegarmi come facessi a cucirmi i vestiti senza prendermi le misure.
Davanti alla minigonna ho pianto, chiusa nella stanza con le veneziane gialle che filtravano di giallo gli esterni spenti.
Daggy era in cucina in una delle sue rare apparizioni diurne, ascoltava gli Smiths e preparava i suoi adorati Zuckerspaghetti. Anche gli Zuckerspaghetti di Daggy mi provocavano nodi alla gola, l’idea dello zucchero appiccicato ai fili di pasta mi ricordava la lontananza da casa.
Non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo. Non avrei sopportato la risposta. Non riuscivo neppure a formularmi la domanda.
C’era chi pensava che lo studio della lingua fosse solo un pretesto, che fare le ore piccole servendo birre un divertimento. Per me era stata una fuga.
Non avrei potuto scegliere città più adatta. Le intimità inconfessabili la notte, il non saluto di giorno.
La mancanza sempre.
Mi mancava l’ironia.
Imparare una lingua da adulti permette la conversazione nel tempo delle strutture, ma preclude l’ingresso alle stanze salvifiche dell’ironia.
Era per questo che alla fine avevo deciso di tornare?
Non so mai perché faccio ritorno, non avevo motivo per tornare.
O forse sì, volevo risentire il rumore della chiave che gira e avere il bisogno di guardare fuori.
Bellissimo nel suo essenziale patetismo pudico, grazie.
Splendido :) essenziale e lirico
l’ho letto con interesse, grazie :)