Su Dopo Holocaust,1979: ricordi di uno spettatore
di Giorgio Mascitelli
Nel 1979 la RAI trasmise il telefilm americano Holocaust, che sdoganava, per così dire, a livello di cultura di massa il tema della persecuzione nazista degli ebrei. Avevo dodici o tredici anni e, benché non mi avesse fatto particolare impressione, mi ricordo di avervi assistito in compagnia dei miei genitori; che non mi avesse particolarmente colpito dipende forse dal fatto che a casa avevo già ricevuto succinte ma precise informazioni sulla shoah, che peraltro allora in Italia non si chiamava così, e verosimilmente avevo già letto qualche pagina del diario di Anna Frank, come poteva capitare a un figlio di intellettuali di sinistra quale ero. Ho un ricordo nitido, tuttavia, delle accuse di semplificazione e banalizzazione della storia rivolte agli autori di Holocaust, che trovavano riscontro in parecchie perplessità dei miei genitori. Insomma ciò che venni a sapere, o quanto meno credetti di comprendere, era che esistevano due modi per trattare argomenti così tragici uno superficiale e scorretto e un altro profondo e veritiero.
Ciò che non potevo sapere è che la versione tedesca di Holocaust, trasmessa qualche mese prima, ebbe uno spettatore illustre in Gunther Anders , che nel suo diario ha lasciato alcune considerazioni sull’accoglienza che ebbe la serie in Germania, di recente pubblicate nel libro Dopo Holocaust, 1979 ( Bollati & Boringhieri, Torino, 2014, traduzione e postfazione di Sergio Fabian, introduzione di David Bidussa), che ho letto l’anno scorso con estremo interesse per la profondità di alcune considerazioni che vi ho trovato, ma spinto all’inizio più che altro dai motivi legati ai miei ricordi personali di spettatore, se posso confessare la leggerezza delle mie motivazioni nelle scelte delle letture. La tesi fondamentale di Anders, controcorrente rispetto alle critiche provenienti dal mondo intellettuale efficacemente documentate nella prefazione di Bidussa, è che Holocaust, proprio in ragione della semplificazione storica e della riduzione di una tragedia di massa a vicenda di individui riconoscibile al grande pubblico, abbia scosso le coscienze più di molte forme rigorose di documentazione storica. Così molti tedeschi, che avevano ipocritamente evitato di affrontare il sentimento morale derivante dallo sterminio, vi erano posti di fronte tramite l’empatia e il riconoscimento con i protagonisti dello sceneggiato, per usare la parola che allora in italiano indicava produzioni come questa. Non che Anders si facesse particolari illusioni sulle conseguenze del fatto, come dimostra una sua osservazione sarcastica relativa alla circostanza che i tedeschi, maestri nel chiedere agli altri di fare la pulizie nel loro cortile di casa, a casa propria avevano lasciato l’incombenza a degli stranieri. Più in generale le sue considerazioni mi pare vadano lette sotto il segno dell’ ‘almeno’, cioè il sentimento scaturito da Holocaust è almeno qualcosa rispetto all’opera mancante di rifondazione morale che avrebbe dovuto essere compiuta. C’è naturalmente in queste considerazioni amare una sfumatura universale che non riguarda solo coloro che c’erano perché l’anestetizzazione collettiva non è un fenomeno riferibile solo a quell’epoca e a quella nazione.
Nel 1985, frequentando l’ultima anno di liceo, in occasione di una viaggio di scambio culturale in Polonia, fui tra coloro che chiesero, in deroga al programma stabilito del viaggio, di visitare Auschwitz e lo ottennero grazie all’intervento del docente accompagnatore Carlo Oliva: sentivo sia pure confusamente un sentimento di dovere verso una sorta di pellegrinaggio laico, per usare parole che allora non sarei stato in grado di usare. Non sapevo però dove mettere questo sentimento, in quale scomparto della mia vita morale e politica. Quell’anno tuttavia ciò che mi colpì di più fu un’intervista a Simon Wiesenthal, apparsa sul Corriere della Sera mi sembra, nella quale l’allora famoso cacciatore di criminali nazisti affermava che la shoah era stata resa possibile dall’acquiescenza di individui che svolgevano le proprie mansioni senza riflettere sulle conseguenze e dotati di una visione gerarchica e acritica del proprio dovere e di un atteggiamento conformista nella società. Benché si tratti di idee che circolavano diffusamente dopo l’elaborazione del concetto di banalità del male, esse mi colpirono perché le leggevo per la prima volta e mi fornivano una sorta di chiave anche verso il presente e verso quello che in qualche modo riguardava il dove mettere quel sentimento nella mia vita .
“Chi si presenta qui con criteri estetici è immorale” è la perentoria affermazione che si incontra già nella prima pagina del diario. Eppure Dopo Holocaust, 1979 pullula di osservazioni estetiche, spesso di straordinaria perspicuità, come la mise en abyme dell’interdetto adorniano sulla poesia dopo Auschwitz. Segno verosimilmente che l’estetico e l’etico, e già che ci siamo anche il politico e il mediatico, sono strettamente intrecciati in questa vicenda. La tesi di fondo di Anders può essere espressa, rovesciando il celebre principio debordiano, dall’affermazione che il falso in questo caso costituisce un momento del vero: è infatti proprio la natura ‘finzionale’, e quindi riduttiva e semplificatoria, a colpire l’immaginario del pubblico e a produrre quell’effetto di turbamento, che è tutto il contrario del ritorno del rimosso di cui andava parlando la stampa, visto che un trauma vero e proprio in Germania non ci sarebbe mai stato. Bisogna allora dare atto a Holocaust, come nota Bidussa nell’introduzione, che ha dato un nome a ciò che prima non lo aveva presso la collettività, anche se il nome il più corretto è un altro come sembrò ad altri in seguito con ragioni altre.
Secondo Anders , Holocaust ottiene addirittura sul pubblico quel tipo di effetti che aveva cercato di conseguire Brecht con il suo teatro didattico. Eppure Holocaust ha suscitato, secondo lo stesso Anders, il turbamento del pubblico tedesco tramite i meccanismi di identificazione con i personaggi e con la trama in una linea grosso modo di tipo catartico, con tutto che a una vera e propria catarsi non si arrivi, mentre Brecht punta sullo straniamento perché il suo non è un teatro didattico in senso genericamente morale ,ma in senso politico ossia è un tentativo di politicizzazione del pubblico. Del resto i rimproveri di scarsa attendibilità storica che a suo tempo furono rivolti a ragione a Holocaust, avrebbero potuto essere fatti con ancora maggior ragione ai drammi brechtiani di argomento storico caratterizzati di solito da uno schematizzazione dei fatti. Eppure al drammaturgo non furono mai rivolti perché la sua semplificazione appare funzionale a cogliere e mettere in scena un paradigma delle pratiche e della morale del potere. Insomma il fine degli autori di Holocaust è quello di suscitare un sentimento morale di orrore e, nei responsabili, di rimorso di fronte allo sterminio, fino ad allora ipocritamente ignorato, quello di Brecht è favorire una prassi politica, il cui significato etico si iscrive tutto nella categoria di ottimismo della volontà.
Nel 1994 ero un insegnante appena nominato in un liceo dell’hinterland milanese; la primavera di quell’anno, dopo le elezioni del 27-28 marzo, a scuola resterà a lungo impressa nella mia memoria, così come vi resterà a lungo la parola ‘riconciliazione’ usata in quei giorni nella singolare accezione di rivincita. Ricordo uno studente diciottenne che tra gli applausi generali in un’assemblea d’istituto spiegava che finalmente in Italia era caduto il comunismo e che ora occorreva fare la ‘riconciliazione’ e concludere il lungo dopoguerra. Frequentando ogni giorno quella scuola, la folla oceanica del piovoso 25 aprile mi sembrò la popolazione di un’isola e mi sentii improvvisamente di un’altra generazione, nonostante allora intercorressero meno di dieci anni tra me e gli alunni della quinta. In questo clima fu naturale per un gruppo di docenti democratici di quel liceo organizzare per le classi una proiezione di Schindler’s List, uscito in Italia proprio in quei giorni.
E’ superfluo precisare che Schindler’s List è un film di altro livello rispetto a Holocaust sia per la qualità del linguaggio filmico sia per la cura dei dettagli storici, anche se tramite il sublime eroico rappresentato dal protagonista cerca di produrre effetti di orrore morale, non dissimili a quelli di Holocaust. Bisogna riconoscere che dal film di Spielberg i miei alunni ricavarono un’impressione di orrore del nazismo, tanto più importante perché vivevano in un contesto, in cui i rischi di una sorta di riduttivismo tra il negazionistico e il goliardico o dell’indifferenza morale, era reale; ma, concluso il film con il suo carico emotivo, non restava nessuno stimolo verso ciò che da quell’epoca arrivava al presente, insomma non veniva proposto nessun paradigma da ricavare da quella storia. Non vorrei che si scambiasse questa mia considerazione per un intellettualismo iperpoliticista: per esempio in un film popolare come La vita è bella Benigni, senza per questo essere Brecht, nel primo tempo un paio di cose in questa direzione le dice.
E’ chiaro che in un libro come Dopo Holocaust, 1979 il discorso di Anders ha come referente preciso determinate generazioni, quelle del nazismo e del dopoguerra, e la tonalità emotiva delle sue osservazioni, affine a quella di un Kempowski, lo rivela; ma un libro di questa potenza ha per forza di cose un inevitabile destinatario nei posteri, ai quali per fortuna non è chiesta nessuna ardua sentenza, visto che la sentenza non era affatto ardua in questo caso ed è stata pronunciata a suo tempo. Il problema dei posteri, in quanto assenti ai momenti dei fatti, è quello della prospettiva, di come guardare a questo passato per conservarne memoria. Dico allora per semplificare che ai miei occhi di spettatore appaiono due prospettive: l’una di carattere monumentale che difende l’unicità dell’evento contro ogni relativizzazione, ma che nel contempo richiama continuamente lo scarto con il presente, l’altro politico che scorge un paradigma in quell’evento che non si può ripetere letteralmente, ma che indica dei tratti comuni tra la shoah e altri fatti contemporanei magari, non così assoluti, attualizzando sempre il contenuto dell’evento e perciò modificandolo nella ricezione.
In linea di principio queste due prospettive sono conciliabili tra loro, ma nella bassa sociologia della contemporaneità, tra le urla dei media che scoprono ormai un nuovo Hitler all’anno e la depoliticizzazione diffusa, appare un processo difficile, forse ormai alla portata di poche minoranze. Del resto anche raggiungere una di queste due forme di memoria non è così scontato. E’ probabile allora che nell’esperienza di un pubblico e nelle scelte di un artista il divario tra rappresentazione del sentimento morale derivante dall’unicità del fatto e la proposizione di un paradigma valido per l’attuale si presenterà come un bivio decisivo.
Ho come l’impressione che da questa scelta dipenderà la direzione che prenderà quello che potremmo chiamare il dovere della memoria.
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Piccola divagazione.
La prima edizione italiana del Diario di Anne Frank è del 1954; il film che tutti hanno visto in televisione è del 1959 (non so quando lo trasmisero, a casa mia la televisione arrivò nel 1979). Io sono del 1960, quindi un po’ più vecchio di Giorgio Mascitelli; mia madre era di famiglia democristiana e mio padre di famiglia fascista; entrambi biologi (e in casa c’erano libri: Werfel, Hemingway, Pearl S. Buck, Faulkner, Tomasi di Lampedusa, Soldati, Bacchelli ec.: quello che passavano i “Libri del Pavone” prima e gli “Oscar” poi). Ho un preciso ricordo di quando mi diedero da leggere Anne Frank: era sicuramente il 1974.